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L’adeguamento del codice del 1930 ai principi costituzionali ed alle sempre più incisive norme europee.

I codici italiani nella storia

2.4. L’adeguamento del codice del 1930 ai principi costituzionali ed alle sempre più incisive norme europee.

Il 25 Luglio del 1943 è la data indicata per la caduta del fascismo: in tale giorno, infatti, si tenne il Gran Consiglio del fascismo, dove si discusse il c.d. ordine del giorno Grandi che prevedeva l’estromissione di Mussolini dal Governo del Regno d’Italia; la votazione che ne seguì segnò la fine di una dittatura durata più di vent’anni e, di conseguenza, tutto l’apparato legislativo iniziò a scricchiolare. Prima ancora della definitiva liberazione del territorio italiano dai residui domini nazifascisti, avvenuta il 25 Aprile del 1945, si pose il problema delle sorti dell’allora vigente codice di procedura penale: una prima proposta, giudicata sin da subito anacronistica e, quindi, poco attuabile, fu quella di reintrodurre il codice del 1913. Subito dopo si cominciò a valutare l’alternativa tra la redazione di un codice ex novo e una necessariamente vasta opera di novellazione del codice Rocco.

La seconda soluzione parve, sin da subito, la più idonea a soddisfare le esigenze di rinnovamento della materia processualpenalistica, ma i ritmi della riforma attuata furono tutt’altro che celeri, probabilmente anche a causa del periodo di assestamento dell’Italia nel suo complesso, passata in breve tempo da essere uno stato monarchico governato da una dittatura a stato repubblicano dotato di un governo eletto democraticamente.

Inoltre il primo gennaio 1948 entrò in vigore la Costituzione italiana che introdusse numerose garanzie anche nella materia processuale:

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tra i principi fondamentali spiccano tuttora l’art.2 concernente i diritti inviolabili dell’uomo che ha portata onnicomprensiva, ma soprattutto l’art.3 in cui viene sancito il principio di eguaglianza formale e sostanziale, spesso disatteso e per tale motivo frequentemente richiamato dalla Corte costituzionale in pronunce concernenti norme sul processo penale.

Ancora più pertinenti alla materia che stiamo trattando sono le previsioni inserite nella parte della Costituzione concernenti i diritti ed i doveri delle persone come, ad esempio, l’art.13 sulla libertà personale, da molti ritenuta una vera e propria norma processuale, vista la minuziosità con cui è stata redatta81, il diritto di difesa, fino ad allora frequentemente disatteso, sancito dall’art.24 e le due norme che forse più di tutte, almeno a livello processuale, segnano la rottura col precedente regime fascista e, cioè, l’art.25 sul giudice precostituito per legge82

e l’art.27 sullo status dell’imputato durante il procedimento a suo carico, qui “scolpito” nella presunzione d’innocenza83

.

Anche il titolo IV della Costituzione, nella sua prima sezione, “ordinamento giurisdizionale”, proclama il principio di esclusiva subordinazione dei giudici alla legge (art.101) e regola la distribuzione delle competenze e dei poteri nell’ambito

81 Art.13 Cost.: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di

ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”

82 Art.25 Cost.: “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.

Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”; nel ventennio fascista, invece, non erano infrequenti i processi ad hoc e l’utilizzo di giudici

straordinari

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Cfr. M.CHIAVARIO, Diritto processuale penale in Enciclopedia del diritto, Annali IX, 2017, p.267

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dei procedimenti penali (art.102, 103 comma 3 e 109), ma è la sezione successiva, “norme sulla giurisdizione”, a destare il maggiore interesse in quanto contenente l’art.111, che sarà ampiamente modificato nel 1999 diventando baluardo del giusto processo, che, nella sua versione originaria, già sanciva la necessaria motivazione dei provvedimenti giurisdizionali e la ricorribilità per Cassazione delle sentenze e dei provvedimenti sulla libertà personale.

Nel quadro storico che stiamo descrivendo, non possiamo omettere il ruolo di un’Europa profondamente segnata dalla seconda guerra mondiale e, perciò, attiva nella predisposizione di garanzie per l’individuo: nel 1950 nasce la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, venuta ad assumere un ruolo preminente, grazie al suo “braccio armato”, la Corte europea dei diritti dell’uomo, competente ad accertare, su ricorsi statali o individuali, le violazioni dei diritti predisposti dalla convenzione.

Tra questi diritti si ricorda in particolare l’art.6, “diritto ad un equo processo”, in cui, tra gli altri diritti dell’imputato, si disciplina quello secondo il quale lo stesso possa chiedere di “esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la

convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico”.

Nello scenario appena descritto, la prima vera riforma del codice di procedura penale si ebbe nel 1955, quando il legislatore novellò ben duecento articoli, lasciando inalterato l’impianto precedente, con l’intento di attuare la Costituzione nel processo penale.

L’operazione portò ad un deciso rafforzamento dei diritti dell’imputato anche tramite la par condicio rispetto ai poteri del pubblico ministero senza, però,

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riuscire ad evitare l’influenza dell’istruzione sul giudizio, vizio insito nel sistema misto.

A tal proposito, nel 1963 ci fu un primo tentativo di riforma organica del codice di procedura penale promosso dal giurista Francesco Carnelutti il quale si proponeva di trasformare la fase istruttoria in una semplice inchiesta preliminare, irrilevante per la decisione e di dare al processo una dimensione maggiormente dibattimentale. La soluzione fu però accantonata e l’adeguamento alla Costituzione si tradusse, soprattutto, nella progressiva estensione del contraddittorio alle fasi coperte, nel testo originale, dal segreto.

Le riforme riportate, per quanto continuassero ad evidenziare una certa preferenza per la fase istruttoria, erano riconducibili ad un pensiero garantista e, per tale motivo, il risultato degli interventi susseguitisi a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta fu efficacemente definito “garantismo inquisitorio”84

.

Di tutt’altro segno, invece, furono le interpolazioni susseguitesi durante gli anni di piombo, caratterizzati da un’escalation di violenza e, conseguentemente, dalla preoccupazione per la sicurezza collettiva che portò ad un frequente utilizzo della c.d. legislazione di emergenza, restituendo al Codice una certa rigidità antigarantista, soprattutto con riguardo alla limitazione della libertà personale durante il processo.

Tornando all’argomento posto al centro del nostro studio, autorevole dottrina ha sostenuto che il dibattimento sia dominato dai principi di oralità ed immediatezza e che l’atto debba sorgere e compiersi oralmente dinanzi al giudice incaricato di

84 E.AMODIO, Verso una storia della giustizia penale in età moderna e contemporanea, in

D.NEGRI e M.PIFFERI (a cura di), Diritti individuali e processo penale nell’Italia repubblicana, Milano, 2011, p.340

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emettere la sentenza, senonché, così come nei codici precedenti, non è infrequente che, per ragioni di necessità o opportunità pratica, lo stesso giudice possa usare atti scritti, dei quali dovrà essere data lettura in udienza, salve le eccezioni85. La parola oralità, peraltro, nel codice del 1930 veniva espressamente riportata dall’art.138 (oralità degli esami ed interrogatori) il quale affermava che “chi fosse esaminato o interrogato, doveva rispondere oralmente e non gli era consentito di leggere dichiarazioni scritte”, lasciando intendere l’importanza del dialogo tra giudice e imputato o testimone per la definizione della causa.

Anche in questo caso non mancavano le deroghe, costituite dall’esame e dall’interrogatorio di persona muta, sordomuta o che ignorava la lingua italiana: in questi casi imputato o testimone erano autorizzati a rispondere alle domande per iscritto.

L’art.138 prevedeva, altresì, che giudice o pubblico ministero procedente all’istruzione sommaria potessero permettere, facendone menzione nel verbale, di consultare note in aiuto alla memoria, tenendo conto anche della qualità della persona e della natura dei fatti: ciò pregiudicava immediatezza e spontaneità delle dichiarazioni, ma non incideva sul mezzo di comunicazione che restava orale, visto l’utilizzo della forma parlata.

L’articolo in questione, dunque, ci porta a ritenere che la testimonianza, qualunque fosse la fase del processo in cui veniva assunta, implicasse un contatto diretto tra soggetto e autorità giudiziaria, ma non proteggesse il giudice che

85 Così G.D.PISAPIA, Compendio di procedura penale, Padova, 1979, p.369 “…se pure manca

quella percezione diretta che è fondamentale perché il giudice possa trarre dall’oralità e dai caratteri che la contraddistinguono (voce, speditezza nel rispondere, espressione del viso) gli elementi necessari per rettamente valutare le testimonianze e le prove che vengono offerte, si ha almeno un’indiretta oralizzazione degli atti scritti”

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doveva decidere dalle deposizioni assunte oralmente da altri organi giurisdizionali nelle fasi anteriori86.

L’oralità, intesa come contatto diretto del giudice con le fonti di prova assumeva valore di principio generale solo per la prova testimoniale e ciò lo si desumeva unendo il già citato art.138 con l’art.462 ultimo comma che vietava la lettura di deposizioni testimoniali e l’art.472 secondo il quale la sentenza era deliberata dagli stessi giudici che avevano partecipato al dibattimento.

La lettura delle deposizioni testimoniali era vietata a pena di nullità sempre che non si trattasse dei casi tassativamente previsti dall’art.462, talmente numerosi che forse sarebbe stato meglio enunciarli in senso positivo anziché come eccezioni così come ironicamente sostenuto87.

La formula utilizzata dall’articolo appena richiamato secondo la quale “può essere data lettura delle deposizioni testimoniali” può essere facilmente equivocata in quanto sembrerebbe sottintendere che dipenda da una scelta facoltativa del giudice la comunicazione verbale del documento contenente la prova. In effetti la giurisprudenza non mancò di interpretarla in tal modo appoggiandosi al principio del libero convincimento del giudice.

Alla base dell’errore sta l’inesatta convinzione che la testimonianza raccolta nella fase istruttoria sia acquisita automaticamente in dibattimento e quindi utilizzabile ai fini della decisione; in realtà l’interpretazione più corretta è quella che pone tra istruzione e dibattimento un “diaframma grazie al quale le prove elaborate

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P.FERRUA, Oralità, cit., p.279 ss.

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nell’una non confluiscano nell’altro, se non per il tramite della lettura dei relativi verbali”88

.

A sostegno della tesi esposta, oltre all’art.415 ultimo comma del codice Rocco secondo il quale pubblico ministero e parti private, anziché chiedere la citazione dei testimoni assunti nell’istruzione, possono chiedere solamente che sia data lettura nel dibattimento delle loro disposizioni, troviamo anche l’art.6 CEDU nella parte in cui dispone che l’accusato abbia diritto ad interrogare e far interrogare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’interrogatorio dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico.

Tornando alle deroghe disposte dall’art.462, il 1°comma, al n°2 affermava che potesse essere data lettura delle deposizioni testimoniali “dal giudice o dal pubblico ministero nell’istruzione, quando si dovessero far risultare contraddizioni o vibrazioni fra le deposizioni rese nell’istruzione e quelle rese nel dibattimento o quando occorre aiutare la memoria del testimonio”89

. Tuttavia, come accadeva spesso già nelle codificazioni anteriori, si diffuse la prassi di confermare le dichiarazioni istruttorie di cui talvolta non veniva neppure ordinata la lettura; in tal senso la prova orale veniva ridotta, come efficacemente sostenuto, ad “una formale sfilata di testimoni innanzi al giudice con non altro ufficio che

quello di confermare, spesso senza neppure ripetere, qualche volta senza neppure comprendere, la deposizione già fatta”90.

La norma non faceva chiarezza sul momento a partire dal quale il giudice fosse autorizzato ad ordinare la lettura della deposizione scritta al testimone: infatti, per

88 Così P.FERRUA in Oralità, cit., p.298

89 Una norma molto simile era contenuta nel code Merlin (V.§ 1.2.) e nel codice Romagnosi (V.§

2.1.)

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quanto concerne contraddizioni e variazioni, il momento doveva essere quello successivo al manifestarsi del contrasto tra le due versioni, ma nella prassi giudiziaria si diffuse il metodo che portava il giudice ad interrompere il testimone per evidenziare subito contraddizioni e variazioni, cosa che incideva negativamente sulla spontaneità delle successive dichiarazioni e sul filo logico della testimonianza.

Sulla lettura disposta per aiutare la memoria del teste la ratio era la stessa e doveva essere disposta solo dopo l’eventuale dichiarazione del teste di non ricordare i fatti esposti nel precedente esame che, di per sé, era da considerarsi una forma di deposizione orale.

Un limite non disatteso dalla prassi giudiziaria era il dovere del giudice di leggere al testimone comparso in dibattimento solo la deposizione resa in istruttoria da egli stesso e non da altri; del resto sulle dichiarazioni difformi, quando il teste fosse comparso in giudizio, l’unico motivo che potesse giustificare l’ausilio dei verbali istruttori era l’esigenza del giudice di approfondire una testimonianza in contrasto con la precedente dichiarazione e non sostituire ciò che il teste avesse affermato in pubblico, nel contraddittorio delle parti, con quello che altri avessero dichiarato in segreto.

Dall’art.462 si poteva ricavare, implicitamente, che il giudice dovesse leggere al testimone solo la parte di deposizione scritta in contrasto con quella orale o che fosse idonea a ravvivare la memoria: il rispetto di tale esigenza restava affidato alla buona fede del giudice.

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Questo naturale vincolo risultava, come si può facilmente intuire, connesso con l’osservanza del fattore cronologico che voleva espletata la deposizione orale prima della lettura.

Una questione non di poco conto era quella che si poneva nel caso in cui il testimone, posto di fronte alla sua dichiarazione precedente e discordante rispetto a quella resa in dibattimento, continuasse con quest’ultima: in tal modo a processo sarebbero state acquisite due dichiarazioni, incompatibili tra loro ed al giudice si imponeva una scelta tra quella di cui era stata data lettura, avvantaggiata dalla vicinanza temporale al fatto e quella assunta mediante l’escussione diretta, pensata per garantire una maggior probabilità di avvicinarsi al reale svolgimento dei fatti costituenti il thema probandum.

Per ovviare a tale dilemma, la lettura delle dichiarazioni difformi avrebbe potuto essere considerata alla stregua di una dichiarazione di scienza idonea solo a provare la veridicità del fatto riferito91, ma tale assunto avrebbe limitato l’efficacia probatoria delle dichiarazioni scritte e, quindi, trovò la strenua opposizione dei magistrati, legati ad una concezione dispotica del libero convincimento92 e ad una fiducia incondizionata per i verbali istruttori.

A sostegno della tesi secondo la quale la lettura del verbale determinasse l’acquisizione in giudizio di un’autonoma fonte di prova, intervenne anche la Corte costituzionale affermando che “le deposizioni istruttorie costituiscono atti

91 Interpretazione già utilizzata da una parte della dottrina per il codice del 1913

92 F.CORDERO definì il libero convincimento come “una vorace potenza superlogica che trae il

proprio alimento da tutto ciò che anche per un solo istante sia comparso sulla scena del processo”

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non definitivi, da rinnovare in sede dibattimentale, nella pienezza del contraddittorio…”93

.

Le altre ipotesi di deroga all’oralità, elencate nell’art.462, ponevano meno problemi:

la prima disciplinava la possibilità di dare lettura delle deposizioni testimoniali ricevute da giudice o dal pubblico ministero in istruttoria, qualora vi fosse l’accordo tra le parti, previsione radicata nell’ordinamento italiano94

, nel codice Rocco novellato era subordinata all’inserimento del teste nelle liste predibattimentali, all’ordine di citazione del teste ed al consenso delle parti, elementi che, in ogni caso, non esoneravano il giudice dal dover effettuare una seria valutazione in merito all’opportunità di rinunciare all’esame orale, tenendo conto delle difficoltà che avrebbero ostacolato l’ascolto diretto del testimone, il contenuto stesso della deposizione ed anche delle esigenze di economia e continuità processuale.

Il presupposto che la discrezionalità del giudice potesse portare alla rinuncia dell’audizione di testimoni ammessi al dibattimento, sul presupposto di una sopravvenuta inutilità delle prove poteva entrare in conflitto con l’art.6, par.3, lett.d) CEDU secondo il quale l’accusato ha diritto di “esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico”, cosa che avrebbe giustificato la rinuncia del giudice all’esame orale del testimone solo nel caso di effettiva impossibilità di raggiungerlo.

93

Sentenza n°63 del 1972, in Giurisprudenza costituzionale, 1972, p.282

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Ciò detto, la discrezionalità del giudice era, comunque, già delimitata dall’art.452 il quale imponeva al giudice, nel caso in cui le parti gli avessero chiesto la lettura del verbale, di accogliere l’istanza anche se non avesse ritenuto opportuno disporre la comparizione del teste in dibattimento.

La deroga prevista al n°3 dell’art.462 faceva riferimento al caso in cui il testimone che aveva reso dichiarazioni in fase istruttoria fosse morto, assente dalla Repubblica, irreperibile o divenuto inabile a deporre; in tutti questi casi la lettura era ammessa anche nel caso in cui il testimone non fosse compreso nelle liste testimoniali: la ratio della norma, come già detto precedentemente95, si fondava sull’assunto che la lettura del verbale istruttorio potesse rappresentare un minor danno rispetto alla perdita di una deposizione rilevante per la causa.

Il fatto che il codice disponesse la possibilità di leggere la dichiarazione istruttoria anche nel caso in cui il teste non fosse compreso nelle liste testimoniali era logica quando, al momento della compilazione delle liste, si sapesse già che il testimone era morto o inabile a deporre o al di fuori dello Stato. Tuttavia il codice, all’art.415, autorizzava le parti a chiedere la lettura nel dibattimento delle deposizioni dei testi assunti da giudice e pubblico ministero nell’istruzione e senza aver prestato giuramento; tra queste deposizioni, a ben vedere, sarebbero rientrate anche quelle contenute nell’art.462 n°3.

Alla luce di quanto detto possiamo sostenere che la norma in questione, nella parte in cui non richiede che il teste sia inserito nelle liste, non obbedisse alla logica, ma piuttosto alla tendenza del legislatore, spesso impaurito dal contesto

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storico-politico, di estendere le deroghe all’oralità ed i poteri di iniziativa del giudice, a discapito delle parti 96.

Altro caso controverso riguardava la lettura delle sommarie informazioni assunte dalla polizia giudiziaria: queste non rientravano nelle ipotesi previste dagli artt.462-466 e, per tale motivo, erano da considerarsi vietate.

Le vie per arrivare a tale conclusione erano due e si distinguevano per le conseguenze che la violazione del divieto avrebbe portato.

Nella prima via le sommarie informazioni venivano inquadrate nell’ambito delle deposizioni testimoniali: in questo caso si poteva applicare il 3°comma dell’art.462, dove si prevedeva che fuori dai casi dei primi due commi, la lettura delle deposizioni testimoniali fosse vietata a pena di nullità.

La conseguenza massima, nell’ipotesi descritta, portava la lettura delle sommarie informazioni nell’ambito delle nullità relative, facilmente sanabili97

.

La seconda soluzione, invece, escludeva che le sommarie informazioni avessero il carattere di deposizioni testimoniali, richiamando l’art.46398

nella parte in cui

96 La Corte costituzionale fu chiamata ad esprimersi sulla legittimità costituzionale dell’art.462,

n°3 nei confronti dell’art.24 Cost.: si contestava l’acquisizione definitiva di una prova sulla quale la difesa non aveva potuto, né avrebbe potuto, in seguito, interloquire con i mezzi propri del dibattimento, esperibili nella normale testimonianza.

Nella sent.63/1972, la Corte subordinò la legittima esclusione della difesa dalle testimonianze istruttorie alla ripetibilità della prova nella pienezza del contraddittorio dibattimentale, di fatto ammettendo, seppur implicitamente, l’esistenza di una lesione dell’art.24, comma 2 Cost. tutte le volte in cui l’atto istruttorio non fosse rinnovato in giudizio tramite l’audizione diretta del testimone.

Chiamata nuovamente ad esprimersi, con riferimento anche alla precedente sentenza, la Corte respinse la questione di legittimità costituzionale dell’art.462, n°3 affermando, semplicemente, che il canone della ripetibilità degli atti assunti in istruzione, adottato nella sent. 63 riguardasse solo la normalità e generalità dei casi nei quali la presenza in dibattimento dei testi sia prevedibile.