L’inserzione nella carta costituzionale delle garanzie del giusto processo e le sue ricadute nel sistema processuale
4.5. La provata condotta illecita: il regime delle contestazioni ex art 500 c.p.p.
L’art.500, rubricato “contestazioni nell’esame testimoniale”, oltre ad essere “un punto nevralgico”176
del codice Vassalli, può essere considerato la “norma simbolo”177
dei rapporti tra la fase delle indagini ed il dibattimento.
Autorevole dottrina, addirittura, eleva il principio di irrilevanza probatoria delle contestazioni a “Regola d’oro del processo accusatorio”178
in quanto, a “livello etico”, può essere la trasposizione codicistica del generale principio “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”, e a “livello epistemico” rappresenta pienamente l’essenza della testimonianza, la quale per essere pienamente funzionale al processo, deve essere resa tenendo conto dei principi del contraddittorio e dell’oralità.
Nel codice Rocco, come detto, mancava un vero e proprio filtro tra la fase istruttoria e la fase dibattimentale e, quindi, gli atti compiuti nella prima, tramite un “lascivo” regime delle letture, venivano acquisiti come prove al dibattimento, mentre nel codice del 1988, pur prevedendosi delle deroghe, le dichiarazioni rese nella fase delle indagini, per valere come prove ai fini del giudizio, devono essere
176 Così C.FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, Padova, 2005, p.26 177 Così P.FERRUA, Il “giusto processo”, cit., p.2
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P.FERRUA, La regola d’oro del processo accusatorio: l’irrilevanza probatoria delle
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assunte mediante l’esame incrociato, fondamentale per il rispetto del metodo orale richiesto dalla legge delega del 1987.
L’impostazione originaria dell’art.500 rifletteva un principio di impermeabilità del processo sulla formazione della prova; in particolare si prevedeva che le parti, a fini contestativi, potessero utilizzare le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone. Nel caso in cui quest’ultime non risolvessero il contrasto tra le due dichiarazioni, allora sarebbero state utilizzate al solo scopo di consentire al giudice di “stabilire la credibilità della persona esaminata” senza che potessero costituire prova dei fatti in esse affermati (c.d. uso probatorio indiretto)179.
L’impostazione originale era, però, invisa alla giurisprudenza la quale si domandava per quale motivo non dovesse essere ritenuta valida una dichiarazione resa nell’immediatezza rispetto ad una dichiarazione così lontana rispetto al fatto. Tale pensiero si tradusse nella “involuzione inquisitoria” del 1992180
, quando la Corte costituzionale “elaborò” il “principio di non dispersione della prova”, demolendo l’originale impianto.
In questa sede interessa, in particolare, la sentenza n°255 del 1992 con la quale la Consulta dichiarò l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art.3 Cost. dell’art.500, 3° e 4° comma laddove non prevedevano l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero, quando fossero state utilizzate per le contestazioni ex commi 1 e 2.
179 Parafrasando A.SCAGLIONE, L’art.500 e gli eventi perturbativi sul teste: una storia
travagliata, in G. DI CHIARA (a cura di), Eccezioni, cit., p.348
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L’obiettivo della Corte era quello di “contemperare il rispetto del metodo orale con l’esigenza di evitare la perdita, ai fini della decisione, degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale”181
. La scelta operata fece sì che il giudice del dibattimento potesse liberamente scegliere tra la versione dei fatti resa in dibattimento, nel rispetto dell’oralità e del contraddittorio e quella, invece, contenuta nella dichiarazione scritta e resa nella fase delle indagini: a prevalere era quasi sempre la seconda poiché più vicina alla commissione dei fatti.
La vera scossa per l’art.500, però, arrivò poco più tardi con il d.l. n° 306 del 1992 che, pur mantenendo invariato il 3°comma secondo il quale “le dichiarazioni
utilizzate per la contestazione possono essere valutate dal giudice per stabilire la credibilità della persona interessata”, lo privò della sua essenza, prevedendo una
serie di eccezioni nei commi successivi. Nello specifico, al 4°comma, si prevedeva, in caso di persistenza della discrasia tra la dichiarazione dibattimentale e quella precedente, che le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni fossero acquisite nel fascicolo per il dibattimento.
Il 5°comma mirava a tutelare la “genuinità dell’esame” : nel caso in cui ci fossero stati “eventi perturbativi” sul testimone, sarebbe stata recuperata la dichiarazione resa nelle indagini preliminari poiché non ancora “inquinata” dalle pressioni esercitate.
La norma nacque soprattutto per la lotta alla criminalità organizzata, forte più che mai a seguito delle stragi di Capaci e Palermo e capace di indirizzare i processi a suo favore tramite violenze ed intimidazioni di ogni tipo.
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La Corte costituzionale affermò che per quanto “ravvisare delle violenze e delle minacce al teste costituisce una valida ragione per disattendere la deposizione resa in giudizio, non perciò solo è possibile senz’altro ritenere vera, acriticamente, la dichiarazione antecedente”, affidando, di fatto, al libero convincimento del giudice la scelta tra la dichiarazione precedente e quella dibattimentale.
Il 6°comma consentiva il recupero delle dichiarazioni assunte dal giudice in udienza preliminare ex art.422 se erano state utilizzate per le contestazioni. In questo caso si trattava di dichiarazioni assunte nel contraddittorio tra le parti, davanti ad un giudice, ma il principio di oralità veniva, comunque, disatteso per due ordini di motivi: in primo luogo il giudice in questione non era quello del dibattimento, incaricato di emettere la decisione finale, perciò mancava il principio di immediatezza, da sempre legato a doppio filo all’oralità; in secondo luogo le dichiarazioni, in udienza preliminare, non venivano e non vengono tuttora, assunte con la tecnica dell’esame incrociato.
Come più volte detto, l’oralità doveva essere il punto di riferimento, la chiave del nuovo processo accusatorio, ma dopo soli quattro anni, era stato attribuito valore probatorio alla quasi totalità degli atti compiuti nella fase delle indagini e, quindi, era stato depotenziato il metodo dialettico.
La legge 63 del 2001 ha rinnovato l’art.500, riavvicinandolo alla versione originale. In tal senso, il legislatore ha previsto, al 1°comma, che “le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero” possono essere utilizzate solo nel caso in cui “sui fatti o sulle circostanze da contestare il testimone abbia già deposto” e ha aggiunto, al
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2°comma, che tali dichiarazioni “possono essere valutate ai fini della credibilità del teste”.
Emergono dubbi in merito alle ipotesi in cui il testimone decida di tacere o non risponda, affermando di non ricordare: il comma 2-bis, introdotto nel 1992, risolveva la questione permettendo la contestazione anche quando il teste si fosse rifiutato o avesse omesso, in tutto o in parte, di rispondere sulle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni.
Il legislatore del 2001 ha eliminato la suddetta disposizione, introducendo la disciplina in questione nel nuovo 3°comma, il quale subordina l’utilizzo delle “dichiarazioni rese ad altra parte” al consenso.
La lettera della norma sembrerebbe suggerire che, nel caso in cui il teste rifiuti di rispondere, le parti non possano avvalersi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone; a sostegno di questa tesi, si inserisce anche il 1° comma, nelle parte in cui condiziona la contestazione al fatto che il testimone abbia deposto. Autorevole dottrina ha scomposto la norma, dividendo il caso in cui il rifiuto di sottoporsi all’esame sia opposto al difensore dell’imputato dal caso in cui sia rivolto al pubblico ministero. Nel primo caso, la dichiarazione resa al di fuori del dibattimento dal teste, non sarà, effettivamente, utilizzabile contro l’imputato senza il suo consenso; nel secondo caso, invece, il principio di parità delle armi sembrerebbe tradurre l’inutilizzabilità nei confronti della parte pubblica in impossibilità di utilizzare le dichiarazioni rese al difensore, a favore dell’imputato, anche se il legislatore pare aver codificato solo il rifiuto del controesame difensivo.
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Tuttavia è stato concluso che, in realtà, il divario tra le due interpretazioni si riduce a livello sostanziale, infatti “quand’anche fosse inapplicabile la sanzione dell’inutilizzabilità, le dichiarazioni rese da un teste, sottrattosi al controesame dell’accusatore, sarebbero comunque altamente inaffidabili, di valore persuasivo prossimo allo zero”182
.
Le modifiche, o meglio la quasi totale riscrittura dell’art.500, ad opera della legge 63 del 2001 sono state poste, quasi subito, all’attenzione della Corte costituzionale.
Nel dettaglio, la giurisprudenza di merito ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dei commi 2 e 7 dell’art.500, nella parte in cui non consentono che le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni possano essere acquisite e valutate come prove dei fatti in esse affermati.
Nel sollevare la questione dinanzi alla Corte costituzionale, si è fatto leva su quel “principio di non dispersione della prova” coniato dalla stessa Consulta.
Quest’ultima, con l’ordinanza 36 del 2002, ha dichiarato le questioni manifestamente infondate e, sulla base dell’art.111, ha “espressamente attribuito risalto costituzionale al principio del contraddittorio, anche nella prospettiva della impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti”183
, promuovendo la “Regola d’oro del processo accusatorio”.
In tale accezione la Corte ha aggiunto che “appare del tutto coerente la previsione di istituti che mirino a preservare la base del dibattimento, nella quale assumono valore paradigmatico i principi della oralità e del contraddittorio, da
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Così P.FERRUA, La regola d’oro del processo accusatorio, cit., p.17
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contaminazioni probatorie fondate su atti unilateralmente raccolti nel corso delle indagini preliminari”184
.
Con tale pronuncia la Consulta ha voluto rimarcare l’obiettivo dell’art.500 di evitare un’acquisizione illimitata di dichiarazioni rese al di fuori dei principi di oralità e contraddittorio.
Come già detto, però, la regola generale di esclusione dell’acquisizione delle dichiarazioni difformi precedentemente rese dal testimone subisce importanti deroghe: in particolare, il 4°comma descrive il caso in cui il teste sia “stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché non deponga ovvero deponga il falso”.
Tali avvenimenti vanno ad incidere sulla genuinità della testimonianza, determinando un inquinamento probatorio e, per tale motivo, ai fini di una definizione del processo che risulti essere il più vicina possibile alla realtà dei fatti accaduti, il legislatore ha sacrificato il contraddittorio e l’oralità, ispirandosi anche al 5°comma dell’art.111, nella parte in cui deroga al contraddittorio “per provata condotta illecita”.
Dalla norma si evince chiaramente che rilevino le sole condotte illecite poste in essere da terzi, non quelle poste in essere dal dichiarante nel caso in cui consulti documenti falsi da lui stesso redatti.
Inoltre minaccia, violenza o promessa di un qualche vantaggio, non devono ritenersi riferibili alla sola persona del testimone, ma anche a persone a lui care poiché anche in questo caso la sua libertà di autodeterminazione può essere compromessa.
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Quando si devono acquisire le dichiarazioni rese precedentemente ex art.500, 4°comma, l’evento perturbativo sul teste si è già verificato, ma esiste un’altra previsione nel codice che permette, nei casi in cui la “minaccia” o la “promessa” siano altamente prevedibili, anche se non si sono ancora verificate, che permette di assumere la prova nel contraddittorio tra le parti. Si tratta dell’incidente probatorio ex art.392, 1°comma, lett. b): il legislatore avrebbe potuto coordinare le due norme delimitando l’art.500, 4°comma e favorendo l’applicazione dell’incidente probatorio.
Infatti vi possono essere casi in cui, pur essendo prevedibile l’intimidazione o la promessa, non ci si sia avvalsi dell’istituto ex art.392, salvo poi acquisire le dichiarazioni, rese in assenza di contraddittorio, tramite il disposto dell’art.500, 4°comma185.
La norma in esame si riferisce esplicitamente al solo testimone, ma la sua applicabilità è da estendersi anche agli imputati in procedimenti connessi o collegati ex art.210, 5°comma ed ai coimputati nel medesimo procedimento ex art.513, 1°comma che la richiamano.
In dottrina186 ci si è chiesti se il fatto di esaminare un soggetto come coimputato invece che come testimone incida negativamente sul processo: tendenzialmente si è ritenuto che non porti rilevanti conseguenze, anche se potrebbe, in un certo qual modo, disorientare le parti che conducono l’esame “influendo sull’accertamento dei presupposti applicativi dell’art.500, 4°comma.
185 Parafrasando R.ORLANDI, Linee applicative dell’art.500, commi 4 e 5 c.p.p., in G.DI
CHIARA (a cura di), Eccezioni al contraddittorio e giusto processo, cit., p.368 ss.
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È stato osservato, altresì, che coimputati e persone offese, normalmente, sono maggiormente soggetti ad “eventi perturbativi” rispetto ai testimoni e che tale differenza non possa “essere efficacemente valorizzata con norme generali ed astratte” ma che sia “materia di intervento giurisprudenziale”.
Per quanto riguarda la fondatezza della “violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o altra utilità”, l’art.500, 4°comma richiede che vi siano “elementi concreti” per ritenere che il teste vi sia stato sottoposto.
Tali elementi, per essere accertati, avrebbero bisogno di un accertamento completo, ma la giurisprudenza ha chiarito che l’accertamento dell’illecito debba avvenire ad opera del giudice in via incidentale, limitatamente alla questione concernente il presupposto applicativo dell’art.500, 4°comma.
Il giudice, per capire quando il dichiarante sia stato intimidito o corrotto, deve valutare il comportamento dello stesso: infatti, quando opera la scelta di ritrattare in dibattimento quanto dichiarato in precedenza, senza fornire adeguate spiegazioni è molto probabile che si sia verificata una delle situazioni previste dall’art.500, 4°comma.
Sarà la parte interessata a rilevare le anomalie ed a fornire gli elementi concreti dalla cui verifica emerge l’intimidazione o la corruzione.
La norma ci dice, tra le altre cose, che “gli elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o altra utilità” possano essere tratti “anche dalle circostanze emerse nel dibattimento”.
Ci si è chiesti se l’avverbio “anche” debba essere inteso come un’aggiunta, in quanto l’interferenza illecita deve sempre essere tratta da circostanze esterne al
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dibattimento, o come un’alternativa nel senso che le circostanze possono essere ricavate “anche” dal solo dibattimento.
L’opinione prevalente187
ha ritenuto che la norma sottintenda la seconda lettura poiché, per quanto le condotte illecite perturbative del dichiarante siano esterne al dibattimento, la prova della loro esistenza potrebbe trovarsi al suo interno.
Del resto si lascia una certa libertà al giudice che può fondare il proprio convincimento su qualsiasi indizio e, quindi, non si vede perché non potrebbe rilevarlo dalle sole circostanze dibattimentali.
Il 5°comma dell’art.500 prevede che, nel caso in cui si verifichino le condizioni di cui al 4°comma il giudice debba “decidere senza ritardo, svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte che può fornire gli “elementi concreti” sull’avvenuta intimidazione o corruzione del teste.
Le due norme in questione devono essere lette unitariamente poiché la prima, come più volte detto, “presume” la commissione di eventi perturbativi sul teste, la seconda, invece, disciplina gli accertamenti che il giudice deve operare, subordinandoli alla richiesta di parte.
In merito alle prove utilizzabili perché si ritenga effettivamente posta in essere la condotta illecita, la dottrina188 ha ritenuto che “non valga la regola del contraddittorio nella formazione della prova” data la natura incidentale del processo. Il legislatore ha previsto che tale procedimento incidentale sia caratterizzato da un’ampia libertà di forme e, in tal senso, si devono ritenere utilizzabili “come prove sul tema incidentale gli atti dell’indagine preliminare o dell’investigazione difensiva, nonché gli atti di altro processo indipendentemente
187 V. R.ORLANDI, Linee applicative dell’art.500 commi 4 e 5, cit., p.378 188 P.FERRUA, Il “giusto processo”, cit., p.188
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dalla circostanza che il difensore dell’imputato abbia o no partecipato alla loro assunzione”; l’unico limite è da registrarsi con riguardo alle prove inutilizzabili perché illegittimamente acquisite.
Il 6°comma dell’art.500 fa riferimento alle dichiarazioni assunte nel corso dell’udienza preliminare ex art.422, prevedendo la loro acquisizione al fascicolo del dibattimento con la sola “condizione” della richiesta di parte anche diversa da quella che ha effettuato la contestazione.
La minor cautela per l’acquisizione delle dichiarazioni di cui sopra, trova la sua
ratio nelle maggiori garanzie con cui vengono rese (rispetto del contraddittorio e
metodo dialettico, ma non l’oralità poiché il giudice dell’udienza preliminare è diverso da quello del dibattimento).
Anche tale disciplina, comunque, è soggetta ad una limitazione: infatti è diretta alle sole persone che hanno partecipato alla loro assunzione, mentre per coloro che non vi hanno partecipato, si rimanda alle regole dettate dai commi precedenti. Infine il 7°comma dispone che le precedenti dichiarazioni del testimone contenute nel fascicolo del pubblico ministero possano essere acquisite al fascicolo per il dibattimento, a prescindere dai casi di intimidazione o corruzione, su accordo delle parti.
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