• Non ci sono risultati.

Il principio di oralità nell'esperienza dei codici di rito post-unitari

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Il principio di oralità nell'esperienza dei codici di rito post-unitari"

Copied!
149
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea Magistrale

Il principio di oralità nell’esperienza dei

codici di rito italiani post unitari

A. A. 2016/2017

Relatori:

Prof. Luca Bresciani

Candidato:

(2)
(3)

INDICE

Introduzione _____________________________________________________ 1 CAPITOLO I ____________________________________________________ 2

Le radici dell’oralità nell’esperienza francese _______________________ 2 1.1. Dall’ordonnance criminelle del 1670 fino all’epoca rivoluzionaria ____ 2 1.2. Il sistema misto del code d’instruction criminelle del 1808 e la successiva tendenza giurisprudenziale ad ampliare le deroghe all’oralità del

contraddittorio_ ________________________________________________ 12

CAPITOLO II ___________________________________________________ 17

I codici italiani nella storia ______________________________________ 17 2.1. Oralità e contraddittorio nel codice di procedura penale del 1807 e nei successivi codici preunitari _______________________________________ 17 2.2. Dal codice del 1865 al codice liberale del 1913 __________________ 27 2.3. L’avvento del fascismo e la conseguente involuzione inquisitoria: il codice del 1930 ________________________________________________ 50 2.4. L’adeguamento del codice del 1930 ai principi costituzionali ed alle sempre più incisive norme europee. ________________________________ 54

CAPITOLO III __________________________________________________ 68

Dal modello accusatorio del codice del 1988 al ritorno inquisitorio del 1992 _____________________________________________________________ 68 3.1. Il lungo iter per arrivare al codice Vassalli: dalla legge delega del 1974 alla legge delega del 1987 ________________________________________ 68

(4)

3.2. Il codice del 1988 _________________________________________ 73 3.3. 1992 “annus horribilis” per la procedura penale__________________ 78 3.3.1. Il decreto legge 306/1992 ______________________________ 84

CAPITOLO IV __________________________________________________ 88

L’inserzione nella carta costituzionale delle garanzie del giusto processo e le sue ricadute nel sistema processuale vigente _____________________ 88 4.1. I contrasti tra il legislatore e Corte costituzionale nel tentativo di recupero delle garanzie: la l.267/1997 e la successiva sentenza 361/1998 __________ 88 4.2. La riforma dell’art.111 Cost.: oralità e contraddittorio come strumenti di ricerca di una verità credibile ed inattaccabile ________________________ 93 4.3. Dichiarazioni irripetibili e metodo dialettico: una convivenza

impossibile? _________________________________________________ 100 4.4. L’impossibilità sopravvenuta ed il ricorrente problema della non

dispersione della prova: l’art.513 tra lettura e circolazione di verbali di altri procedimenti _________________________________________________ 109 4.5. La provata condotta illecita: il regime delle contestazioni ex art. 500 c.p.p._ ______________________________________________________ 118 4.6. Le altre disposizioni sulle letture: gli artt. 511-bis e 512-bis _______ 129 4.7. Il giusto processo tra convenzione e giurisprudenza Europea ______ 132

Conclusione ___________________________________________________ 137 Bibliografia ____________________________________________________ 142

(5)

1

Introduzione

L’oralità può essere considerata una forma di divulgazione di qualsiasi conoscenza e trova la sua massima espressione, soprattutto a livello processuale, nel confronto tra due dialoganti.

Ora, il fatto che il tema in questione tragga le sue origini già dall’antica cultura greca e da quella romana – ove l’attenzione accedeva direttamente all’auctoritas dell’oratore, facendo passare l’analisi critica in secondo piano – , fa comprendere come il seme di quel metodo orale, che il legislatore italiano ha poi eretto ad “architrave” dell’intero sistema processuale penale italiano, fosse già presente all’interno delle civiltà più antiche.

Ciò che ne seguirà sarà una disamina dell’evoluzione che l’istituto in oggetto ha subito nel corso degli anni, in coerenza con le varie oscillazioni avvenute in seno all’apparato giuridico italiano lato sensu considerato, giungendo infine al tentare di comprendere quale sia, ad oggi, il reale dato ponderale dell’istituto dell’oralità come frutto del succitato mutamento avvenuto all’interno del panorama giuridico italiano.

(6)

2

CAPITOLO I

Le radici dell’oralità nell’esperienza francese

1.1. Dall’ordonnance criminelle del 1670 fino all’epoca rivoluzionaria – 1.2. Il sistema misto del code d’instruction criminelle del 1808 e la successiva tendenza giurisprudenziale ad ampliare le deroghe all’oralità del contraddittorio

1.1. Dall’ordonnance criminelle del 1670 fino all’epoca

rivoluzionaria

L’ancien régime veniva definito come “un magma di cose vecchie di secoli (e

talvolta di millenni) lasciate tutte, senza eccezione, in vigore”1: l’ordonnance

criminelle nasceva proprio durante il declino di tale sistema e presentava, infatti, regole nitide, sapientemente combinate a sistema che sopravvivevano, almeno in parte, al collasso della monarchia, inserendosi anche nel contesto europeo 2. L’elaborato seguiva le regole inquisitorie come possiamo dedurre dalle tre fasi a carattere scritto e segreto che componevano una procedura attratta dalla prospettiva di condannare l’imputato.

La prima fase, detta information, consisteva nella raccolta delle prove da parte del giudice (lieutenant criminel du bailliage), la quale poteva avvenire anche d’ufficio, oltre che a seguito di denuncia o querela; da questo possiamo dedurre

1

P.GOUBERT, L’ancien régime, volume I, Milano, 1976

(7)

3

che i ruoli di giudice e accusatore erano riuniti nelle mani di un’unica persona, caratteristica tipica del modello inquisitorio.

Nell’attività di raccolta delle prove spiccava, senza ombra di dubbio, l’ascolto dei testimoni le cui deposizioni venivano registrate in appositi verbali redatti dal cancelliere ed era proprio tramite queste due attività che si assicurava all’imputato l’unica garanzia concessa nel sistema inquisitorio, ossia la regolarità e la sincerità degli scritti, oltre al rispetto delle forme 3; garanzia che, nel sistema accusatorio e, più nello specifico, all’interno del codice di procedura penale italiano, risulterebbe insufficiente.

Infatti, in attuazione del principio del contraddittorio, il testimone viene esaminato da entrambe le parti alle quali, però, si vieta di effettuare domande che possano nuocere alla sincerità delle risposte, mentre alla parte che non ha chiesto la citazione del testimone o che non ha un interesse comune è data la possibilità di effettuare le c.d. domande suggestive che possono minare la credibilità del testimone (art.499).

Tuttavia, per contestare il contenuto della deposizione, l’art.500 concede la facoltà, in deroga ai principi del contraddittorio, di servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone.

La garanzia concessa dall’ordonnance criminelle a favore dell’imputato veniva, però, spesso disattesa in quanto il cancelliere, durante l’ascolto del teste, si limitava a prendere appunti, redigendo il verbale solo in un successivo momento. All’interno dell’information, un atto tipico erano i c.d. monitores, letti dal pulpito e affissi alle porte delle chiese, ricoprivano, di fatto, anche la funzione di

(8)

4

pubblicità del processo, rispettando l’assunto secondo cui “l’imputato è colui sul

quale si giudica, il pubblico colui per il quale si giudica” 4 : chi avesse avuto informazioni inerenti il caso, avrebbe dovuto comunicare al parroco quanto sapeva e, successivamente, questi avrebbe trasmesso, attraverso un canale segreto, tale comunicazione alla cancelleria 5.

L’utilizzo dei monitores era necessario per la scoperta di eventuali testimoni e, inoltre, evidenzia lo stretto rapporto che vigeva tra Chiesa e giustizia: il parroco potrebbe essere definito come consigliere della giustizia o bocca del popolo, a tratti intimorito dalla macchina giudiziaria.

Gli atti dell’information erano trasmessi al procuratore del Re che ne traeva le sue conclusioni le quali, a loro volta, venivano valutate dal giudice, investito del compito di ordinare un decreto (costituente imputazione).

Dei tre tipi di decreto previsti dall’ordonnance, due disponevano la comparizione (assigné pour etre oui e ajournement personnel), mentre il terzo (prise de corps) equivaleva all’attuale mandato di cattura 6.

Nella seconda fase, la instruction, si entra nel vivo del processo:

il medesimo giudice che aveva emanato il decreto di comparizione, interrogava, nelle ventiquattr’ore dall’eventuale arresto, l’accusato: tale atto si svolgeva in assenza di pubblico ministero e dell’eventuale parte civile, oltre che della difesa, la quale, inoltre, veniva esclusa, nei confronti di coloro che avessero commesso un delitto capitale, per tutta la durata del processo 7.

4

F.CARNELUTTI, La pubblicità del processo penale, in Riv.dir.proc., 1955, p.3

5 F.CORDERO, Guida, cit., p.55

6L’imputato, comparendo, scongiurava l’eventuale cattura, evitando, di conseguenza, imputazioni

ancora più gravi. Sul punto F.CORDERO, Guida, cit, p.55

7

F.CORDERO, Guida, cit., p.56: in ogni caso, il fatto che l’accusato, dopo l’interrogatorio potesse avere un colloquio con il suo difensore, dipendeva dalla discrezionalità del giudice

(9)

5

Esperito l’interrogatorio ed esaminate le richieste del procuratore del Re, il giudice, se il fatto risultava tale da importare pene corporali o infamanti, disponeva il règlement à l’extraordinaire con il quale i testimoni venivano nuovamente ascoltati e, se ci fosse stato bisogno, sottoposti al confronto con l’accusato; tuttavia il règlement era utilizzato per scoraggiare eventuali ritrattazioni e, visto che l’art.11, tit.XV dell’ordonnance puniva come falsi testimoni coloro che avessero ritrattato, il diritto, riconosciuto all’accusato, di chiedere al teste la conferma della precedente deposizione, perdeva totalmente di significato poiché, con ogni probabilità, il teste avrebbe confermato la versione dei fatti fornita precedentemente, rendendo vano il tentativo di difesa dell’accusato al quale non era garantita la possibilità di escutere il testimone come, invece, accade nel nostro attuale ordinamento, tramite il controesame. Al termine dell’instruction, gli atti venivano nuovamente trasmessi al procuratore del Re, il quale traeva le sue conclusioni.

La terza ed ultima fase del processo si svolgeva in sede collegiale: un magistrato (il più delle volte lo stesso lieutenant criminel, dominus delle precedenti fasi) 8, esponeva i risultati della procedura agli altri giudici, quindi si procedeva alla lettura delle carte scritte, anche se, nella prassi, i giudici si limitavano ad ascoltare la relazione di cui si è appena detto e l’arrestato veniva sottoposto ad un ulteriore interrogatorio nel quale, se i giudici avessero riscontrato gravi indizi di colpevolezza anziché prove certe, si poteva ricorrere anche alla tortura per ottenere una confessione.

8

P.FERRUA, Oralità del giudizio, cit., p.7: nelle mani del lieutenant criminel si concentrava, dunque, un enorme potere

(10)

6

Infine il collegio, senza aver avuto mai modo di ascoltare direttamente i testimoni e porli a confronto tra loro o con l’accusato, emanava la sentenza che poteva essere di assoluzione, di condanna o chiedere “più ampie informazioni”.

Già prima della rivoluzione, la rigidità della procedura inquisitoria dell’ordonnance criminelle era stata temperata dalla déclaration del 24 Agosto 1780 la quale, oltre a ridimensionare l’uso della tortura, disponeva l’obbligo di motivazione delle sentenze penali 9, il divieto di pronunciare condanne alla pena capitale senza la maggioranza di almeno tre voci e di eseguirle prima del decorso di un mese dalla pronuncia, il diritto degli accusati assolti di ottenere una “riparazione d’onore” e l’abolizione del supplizio cui erano sottoposti i condannati a morte per ottenere la confessione dei nomi dei complici.

La rivoluzione francese, indubbiamente, portò idee nuove e propensione al cambiamento che, però, si realizzarono solo in parte all’interno del processo penale: infatti l’impianto di riferimento rimase quello dell’ordonnance criminelle del 1670, bilanciato dal décret 8-9 Oct. 3 Nov. 1789, il quale ne ridusse l’indole inquisitoria e, di conseguenza anche la segretezza, introducendo importanti garanzie per l’accusato 10

come la pubblicità della procedura, l’intervento del difensore ed il diritto alla controprova.

Delle tre fasi del processo, l’information mantenne la segretezza, ma per avere una parvenza di controllo dell’opinione pubblica sull’amministrazione della

9P.FERRUA, Oralità, cit., p.4: la motivazione consisteva, semplicemente, nel dovere di enunciare

i crimini e i delitti che l’accusato aveva commesso e per i quali sarà condannato.

10P.FERRUA, Oralità, cit,, p.9: tra le proposte, da ricordare quella di BERGASSE che proponeva

una riforma filo inglese, con l’introduzione del giudice di pace, delle corti di giustizia, pubblicità istruttoria e del giudizio, il diritto all’assistenza del difensore e, soprattutto, le giurie popolari.

(11)

7

giustizia 11, si andarono affiancando due adjoints al lieutenant criminel, fino ad allora dominus assoluto del processo; nell’instruction all’accusato veniva, finalmente, concessa la possibilità di farsi assistere da un difensore di fiducia sin dall’interrogatorio, al seguito del quale poteva persino ottenere la copia di tutti gli atti processuali e, poiché in questa seconda fase la procedura diveniva pubblica e contraddittoria, i due giudici aggiunti non vi partecipavano: la loro attività si esauriva nella prima fase.

Si può notare, dunque, un’apertura verso il contraddittorio, evidenziata anche dal riconoscimento del diritto di chiedere, seppur tramite il giudice, chiarimenti ai testimoni, i quali avrebbero potuto ritrattare senza essere considerati falsi testimoni come, invece, avveniva precedentemente e, quindi, anche il réglement à

l’extraordinaire, che avevamo visto essere, nella prassi, semplice strumento per

dissuadere eventuali ritrattazioni dei testimoni, assumeva tutt’altro significato: il confronto coi testimoni, infatti, avveniva pubblicamente con l’assistenza dell’imputato e del suo difensore il quale, inoltre, era autorizzato, in ogni stato del processo, ad escuterli.

L’ultima fase del processo era formata dalle conclusioni motivate del pubblico ministero, dall’ultimo interrogatorio dell’accusato e dalla pronuncia della sentenza la quale si svolgeva in pubblica udienza, alla quale l’accusato non compariva, mentre il suo difensore poteva essere presente durante l’intera sessione e parlare in favore del suo assistito dopo la relazione, le conclusioni e l’ultimo interrogatorio 12.

11 Sulla pubblicità cfr., F.CARNELUTTI, La pubblicità nel processo penale, cit., p.1 ss.: “la

pubblicità sembra appartenere all’essenza del processo penale più che alla sua natura”

(12)

8

Osservando la struttura del processo delineata dal décret 1789, possiamo sostenere che tale norma, come già affermato dal giurista Paolo Ferrua, “abbia

realizzato un passo di capitale importanza nella storia del processo penale”;

infatti da quel momento “il diritto comune dei paesi civilizzati ha considerato la

discussione pubblica dell’accusa liberamente condotta alla faccia di tutti, come la garanzia essenziale della scoperta della verità in materia penale” 13.

Le note inquisitorie, tuttavia, riecheggiavano ancora forti nel processo penale francese; infatti le attenzioni si concentrarono quasi esclusivamente sul superamento della segretezza, avvenuto solo in parte, e non sull’oralità che costituisce, assieme alla pubblicità, un principio cardine del processo accusatorio e che trova la sua massima espressione nelle giurie popolari.

Quest’ultime furono introdotte con décret 16-29 Sept.1791 che seguì il modello inglese su oralità e contraddittorio, ma, di contro, segnò un’involuzione inquisitoria sulla pubblicità: infatti l’information manteneva il suo carattere scritto, oltre alla segretezza, ma veniva affidata ai giudici di pace, in qualità di ufficiali di polizia giudiziaria, i quali, una volta esperito l’interrogatorio dell’accusato, se ritenevano che non vi fosse luogo a procedere, ne ordinavano il rilascio, altrimenti disponevano la carcerazione.

Successivamente si aveva l’esame degli atti processuali ed un secondo interrogatorio ad opera del direttore del giurì che poteva, altresì, raccogliere ulteriori deposizioni testimoniali, quindi, se riteneva fondata la colpevolezza, redigeva l’atto di accusa e trasmetteva gli atti al giurì di accusa, composto da otto giurati e presieduto da lui stesso.

(13)

9

Se anche dopo tale passaggio si ammetteva l’accusa, il presunto reo doveva comparire davanti al tribunale criminale del dipartimento 14 e, dopo l’interrogatorio e la raccolta di eventuali deposizioni rese da nuovi testimoni prodotti da accusa e difesa, aveva inizio la procedura pubblica e orale.

In questa fase ai giurati si imponeva di effettuare un giuramento che li avrebbe vincolati a decidere secondo “conscience” ed “intime convinction”, quindi si procedeva all’esame dei teste, prodotti nello stesso ordine previsto ai giorni nostri, partendo dai teste dell’accusa per chiudere con quelli della difesa; inoltre a ciascuno dei soggetti era riconosciuto il diritto di controinterrogare in conformità a quelle che sono le regole del contraddittorio.

La discussione si chiudeva con gli interventi finali delle parti a cui seguiva un riassunto, in forma scritta, delle diverse questioni che i giurati erano tenuti a risolvere ritirandosi in camera di consiglio ed emettendo il verdetto, mentre l’entità della pena era determinata dai quattro magistrati.

Tracce di inquisitorietà, oltre che nella pubblicità, si rinvenivano, come possiamo notare dalla descrizione di cui sopra, nella figura del giudice di pace, il quale, dunque, svolgeva sia le funzioni di giudice istruttore che di organo inquirente; di contro, l’oralità delineata dal décret del 1791 doveva essere rigorosamente rispettata, tanto che, per assicurare il rapporto diretto tra giudice, testimoni e accusato, si vietavano la lettura in pubblica udienza di dichiarazioni rilasciate in sede anteriore e la verbalizzazione delle testimonianze rese dinanzi al giurì; l’unica deroga era prevista nel caso di giudizio in contumacia dove si leggevano ai giurati le deposizioni rilasciate ai magistrati istruttori.

14

Il tribunale composto da quattro magistrati, coadiuvati da dodici giurati, cfr. P.FERRUA,

(14)

10

L’oralità fu anche l’oggetto delle maggiori critiche da parte degli oppositori della procedura introdotta nel 1791 tra i quali non vi erano solo i nostalgici dell’ordonnance del 1670, ma anche esponenti di spicco della rivoluzione come il temuto Maximilien de Robespierre il quale sosteneva che l’unico modo per garantire un giusto processo fosse di unire il garantismo della scrittura ai pregi del metodo orale prevedendo, in concreto, che i verbali delle deposizioni venissero trasmessi al giurì che, in seguito, avrebbe ascoltato oralmente il teste15; tali rimostranze furono, in parte, accolte e si introdussero l’obbligo, per gli organi istruttori, di verbalizzare le deposizioni raccolte al fine di rendere più semplice un eventuale revisione del processo nel caso di condanna ingiusta e la possibilità, per i giurati, di prendere nota durante l’udienza.

Tuttavia il décret del 1791 ebbe vita breve ed affondò, insieme a tutta l’opera legislativa rivoluzionaria, sotto i colpi dell’insurrezione armata della commune anche se, per il favore che tale opera aveva trovato all’interno dell’opinione pubblica, se ne conservarono alcuni principi.

La borghesia si riprese, dunque, il potere ed attuò una politica di restaurazione che toccò, inevitabilmente, anche la materia penale, sia sostanziale che processuale: la rielaborazione del codice fu affidata a Merlin de Douai il quale presentava un progetto di code des délits et des peines con l’obiettivo di “comprimere

l’anarchia, stabilire il regno della legge, garantire in maniera efficace la sicurezza di persone e della proprietà…” 16

.

15 P.FERRUA, Oralità, cit., p.25

16 Così la relazione preliminare di MERLIN, in Réimpression de l’ancien Moniteur seul histoire

authentique et inaltérée de la Révolution française depuis la réunion des Etats-generaux jusqu’au consulat (mai 1789 – novembre 1799), introduction historique, Paris, 1857, p.284

(15)

11

Nel code Merlin si ritrovavano le dinamiche processuali contenute nel décret del

1791, ma, allo stesso tempo, si ritrovavano gli elementi inquisitori

dell’ordonnance del 1670; infatti, oltre ad un potenziamento delle funzioni della polizia giudiziaria, la scrittura tornava a svolgere un ruolo preminente come dimostrato dall’introduzione dell’obbligo, in capo al giudice di pace, di leggere all’accusato, prima dell’interrogatorio, le dichiarazioni raccolte prima dell’arresto. L’oralità, inevitabilmente, si trovava penalizzata poiché, consentendo ai testimoni presenti in udienza e all’accusato la lettura di dichiarazioni precedenti per evidenziare le contraddizioni, si “apriva una breccia attraverso la quale, sia pur

limitatamente, le carte scritte penetravano nel pubblico dibattimento” 17.

Inoltre, pur consentendo la lettura in giudizio di eventuali dichiarazioni difformi rilasciate anteriormente da teste o accusato, al legislatore, per salvaguardare l’autonomia della fase dibattimentale, sarebbe bastato prevedere un meccanismo di esclusione probatoria che avrebbe evitato il rischio di un’eccessiva influenza, nel giudizio, delle scritture istruttorie a discapito delle risultanze dibattimentali. Vista l’evidente allergia al sistema accusatorio, debellato a colpi di inquisitorietà, è facile intuire quale sarebbe stato l’indirizzo futuro del processo penale, segnato da un progressivo ed inarrestabile indebolimento del dibattimento.

(16)

12

1.2. Il sistema misto del code d’instruction criminelle del 1808 e

la successiva tendenza giurisprudenziale ad ampliare le deroghe

all’oralità del contraddittorio

Negli anni successivi al code des délits et des peines, come accennato nel paragrafo precedente, si intensificò la degenerazione o, per meglio dire, il ritorno del processo penale verso il sistema inquisitorio.

I fatti ed il sentimento dell’epoca, anche in questo caso, ebbero un ruolo preminente: si aveva la necessità di reprimere il brigantaggio e, a tale scopo, si volevano processi celeri, assicurando solo garanzie minime e, dopo il colpo di Stato del 1799, che poneva il potere nelle mani di un consolato provvisorio, subito stabilizzato in un nuovo testo costituzionale, assistenza difensiva per l’accusato e pubblicità vengono accantonate fino ad arrivare alla “novella” del 1801 che si proponeva di accelerare l’istruzione tornando ad un’organizzazione del processo pericolosamente simile all’ordonnance del 1670.

Nel nuovo sistema i compiti del giudice che, nei canoni idilliaci di un giusto processo, dovrebbe essere terzo ed imparziale, venivano affidati ad un funzionario dipendente dall’esecutivo: “alla figura del giudice-accusatore dell’epoca

rivoluzionaria, subentrava col regime napoleonico quella di accusatore-giudice”18, inoltre si ritornò alla segretezza dell’istruttoria e il giurì fu depauperato

dalla sostituzione dell’esame orale dei testi con la procedura scritta, dove non si consentiva la partecipazione dell’accusato, neppure se in stato di arresto, segnando una inequivocabile rottura nei confronti del contraddittorio.

(17)

13

Nel periodo storico in questione il clima politico era radicalmente cambiato e l’attenzione si spostava dai diritti dell’imputato alla difesa sociale cosa che contribuì in modo determinante alla regressione inquisitoria; del resto già nel code

Merlin il giurì procedeva all’ascolto dei testi d’accusa senza che l’accusato

potesse intervenire e, quindi, la sovrapposizione della novella del 1801 fu solo una logica conseguenza.

Si venne a delineare quella che Ganilh, autorevole esponente economico e politico dell’epoca, definì “…alliance entre les formes oppressives de la Monarchie et les

formes protectrices de la République” 19 riprodotta con il sistema misto del code

d’instruction criminelle del 1808 dove, per l’appunto, si aveva uno sdoppiamento

del processo: la prima fase, dedicata all’esigenza di repressione della società tipica dell’età monarchica, era volta al compimento di tutte le indagini necessarie all’accertamento della verità ed era scritta e segreta; la seconda, invece, dedicata agli elementi di discussione raccolti in precedenza, si caratterizzava per essere pubblica ed orale.

Il sentimento nei confronti del sistema accusatorio era radicalmente cambiato e l’oralità fu la componente che subì il maggior numero di critiche: in molti ritenevano, infatti, che la scrittura garantisse quella stabilità che la parola non poteva dare; addirittura l’oralità veniva accostata all’ignoranza e la cassazione additò il sistema accusatorio come la principale causa d’impunità dei più gravi crimini 20.

19

P.FERRUA, Oralità, cit., p.52

(18)

14

Non è un caso che, in sede di redazione del code del 1808, i temi più dibattuti fossero la regolamentazione della fase istruttoria, le giurie e l’incidenza dell’oralità.

La fase istruttoria tornò ad essere, nei suoi tratti salienti, quella prevista dall’ordonnance del 1670, comportando una drastica riduzione dei diritti dell’arrestato che poteva solo assistere a perquisizioni e sequestri, rimanendo all’oscuro delle attività probatorie svolte per tutta la durata dell’istruttoria.

Non mancarono, però, interventi positivi come la definizione delle competenze di giudice istruttore e pubblico ministero, finalmente distinte.

La giuria fu ridimensionata: infatti venne abolito il jury d’accusation, sostituito da due giurisdizioni istruttorie formate da magistrati permanenti 21, ma si decise di mantenere il jury de judgement il tutto con l’intervento dello stesso Napoleone che, inizialmente, indaga su come avessero lavorato le giurie negli ultimi anni, ricevendo risposte controverse e, successivamente, persuaso dai fautori dell’abolizione della giuria, si limita a rilevare quanto sia importante che i giurati ruotino, affinché l’abitudine non li indurisca affievolendo le garanzie concesse all’imputato 22

Nel nuovo codice si precisò che dovessero essere consegnati ai giurati tutti gli atti processuali compresi gli interrogatori dell’accusato e, pur mantenendo la regola secondo la quale i testimoni dovessero rendere deposizione oralmente, venne meno il divieto di leggere le deposizioni scritte di testimoni non presenti in udienza pubblica anche se l’art.477 autorizzava espressamente la lettura delle deposizioni scritte rilasciate dai testi impossibilitati a presentarsi in udienza,

21

P.FERRUA, Oralità, cit., p.59

(19)

15

lasciando intendere che il consenso alle letture non si dovesse ritenere come regola generale 23.

Queste previsioni non ci permettono di sbilanciarci sulla concezione dell’oralità nel code del 1808 poiché sono presenti sia elementi favorevoli (deposizione orale dei testimoni), che contrari (ai giurati vengono consegnati tutti gli atti processuali), ma ciò che avvenne negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice, ci fa ritenere che se ne avesse una concezione negativa: infatti si manifestò una tendenza giurisprudenziale ad ampliare le deroghe all’oralità della procedura: la mancanza di un espresso divieto di leggere ai giurati le dichiarazioni dei testi non comparsi venne intesa, il più delle volte, come implicita autorizzazione alla lettura.

Tale deroga all’oralità vide, inizialmente, l’ammissione della lettura delle dichiarazioni scritte rilasciate da testi che fossero assolutamente impossibilitati a comparire in giudizio perché, ad esempio, deceduti o gravemente ammalati, ma ben presto si ammise anche per i testi che, pur non essendo citati, potessero esserlo, aprendo, di fatto, una breccia nell’oralità.

Ai colpi sopracitati sopravvisse, tuttavia, il divieto di leggere, ai testi comparsi in giudizio, i verbali delle dichiarazioni raccolte in sede anteriore controbilanciato, però, dall’autorizzazione, derivante dal principio secondo il quale tutto ciò che non fosse vietato espressamente, dovesse ritenersi consentito, della lettura degli atti istruttori diversi dalla testimonianza.

Inoltre al jury de jugement veniva consegnato l’atto di accusa in cui erano contenute anche le dichiarazioni scritte dei testimoni: in questo modo si

(20)

16

estrometteva il giudice dalla decisione delle fonti di prova; infatti le testimonianze istruttorie, oltre ad essere raccolte in totale assenza di contraddittorio con l’accusato, erano verbalizzate, generalmente, da un cancelliere e, dunque, non offrivano le stesse garanzie di quelle rese oralmente in giudizio poiché non era possibile valutare gli atteggiamenti del teste o pesare le sue parole.

Il pubblico ministero poteva, quindi, omettendo la citazione dei testi d’accusa per il dibattimento, eludere la discussione orale, privando l’imputato di un importante possibilità di difesa.

In conclusione possiamo osservare, come detto, che la giurisprudenza prevalente tendesse a concepire l’oralità come “un principio ad esclusivo vantaggio

dell’accusato e quindi da questo liberamente rinunciabile”: contro questa

concezione si espresse, tra gli altri, il giurista tedesco Mittermaier secondo il quale “l’oralità non è unicamente richiesta dall’utile dell’accusato, essa è più

profondamente radicata nell’interesse sociale ed appoggia alla presunzione che essa giovi alla rettitudine dei giudizi” 24.

24

(21)

17

CAPITOLO II

I codici italiani nella storia

2.1. Oralità e contraddittorio nel codice di procedura penale del 1807 e nei successivi codici preunitari – 2.2. Dal codice del 1865 al codice liberale del 1913 – 2.3. L’avvento del fascismo e la conseguente involuzione inquisitoria: il codice del 1930 – 2.4. L’adeguamento del codice del 1930 ai principi costituzionali ed alle sempre più incisive norme europee

2.1. Oralità e contraddittorio nel codice di procedura penale del

1807 e nei successivi codici preunitari

Nel periodo precedente l’unità, furono redatti numerosi codici di procedura penale nella penisola italica, distinguibili, a seconda del sistema adottato, in tre gruppi: nel primo si possono annoverare i modelli processuali di stampo inquisitorio, come il regolamento per gli stati pontifici del 1831, in cui le deposizioni raccolte nella fase inquisitoria influivano in modo determinante sull’esito del giudizio, e il

regolamento di procedura penale per l’impero d’Austria (nella versione estesa al

Lombardo- Veneto) del 1853;

del secondo gruppo fanno parte le legislazioni a carattere misto dove si ha un bilanciamento tra scrittura e oralità nel processo mediante norme a carattere generale che stabiliscono il divieto di leggere in giudizio le deposizioni scritte e previsioni che, invece, dispongono una serie di deroghe a tale principio.

(22)

18

Tali caratteristiche sono adottate dal codice di procedura penale del 1807 e dai

codici sardi del 1847 e del 1859.

Infine, il codice per lo regno delle Due Sicilie del 1819, può essere ricondotto al modello accusatorio, data la maggiore attenzione al rispetto dell’oralità 25

.

Dei testi sopra citati, ne esamineremo solo alcuni e non possiamo che iniziare dal codice del 1807, considerato il primo elaborato codicistico italiano.

Il testo nacque per volontà dell’allora ministro della giustizia del Regno Italico Luosi, il quale dapprima affidò il progetto ad una commissione che, a causa del poco tempo messole a disposizione, non riuscì a presentare un progetto soddisfacente, cosa che spinse lo stesso Napoleone ad inviare André Joseph Abrial a sovrintendere l’attività legislativa, ma, per quanto il nuovo progetto risultasse talora decisamente innovativo rispetto al precedente, non poté essere approvato vista l’incompletezza di taluni istituti ed il contrasto con la nuova disciplina dell’ordinamento giudiziario26.

L’iter legislativo proseguì, poi, sotto l’egida dell’illustre giurista e filosofo Giandomenico Romagnosi che, al terzo tentativo, riuscì a dare alla luce un codice che il politico francese Cambacères non esitò a definire perfetto27 anche se, in realtà, non privo di qualche stortura.

Il testo del 1807, pertanto, apparì come un momento di sintesi tra l’ideologia liberale di matrice illuministica ed il nuovo statualismo di stampo napoleonico,

25

P.FERRUA, Oralità, cit., p.75 ss.

26 E.DEZZA, Le fonti del codice di procedura penale del Regno Italico, Milano, 1985, p.9

27 Quando quel codice giunse in Francia Cambacères meravigliato lo mostrava ai giureconsulti

francesi, e diceva loro che gli Italiani, la prima volta che avevano fatto un codice, lo avevano creato perfetto, Così in G.D.ROMAGNOSI, Progetto del codice di procedura penale pel cessato

(23)

19

senza dimenticare gli influssi trasmessigli dalla tradizione del diritto comune unita al collegamento con il rinnovamento europeo 28.

Per quanto concerne il contenuto, non possiamo non partire dall’assenza dei giurati, sostituiti dai giudici, i quali dovevano pronunciarsi dietro la sola convinzione e coscienza senza abbandonarsi ad un sistema di semiprove che avrebbe compromesso l’innocenza 29; sotto questo aspetto, il codice del Romagnosi si discostava dal code Merlin novellato del quale, invece, assorbiva lo schema processuale misto.

Infatti la fase delle indagini si svolgeva in forma scritta e segreta, articolandosi nei due momenti dell’informazione preliminare della polizia giudiziaria e dell’istruzione regolare di competenza del giudice istruttore, affiancato dal procuratore del Re, e culminava con il giudizio di delibazione dell’accusa che segnava la fine del segreto istruttorio per la difesa dell’imputato, mentre la fase dibattimentale si presentava come orale e pubblica e si teneva dinnanzi alla Corte di prima istanza; inoltre era sancito espressamente il principio del libero convincimento del giudice che aveva il solo obbligo di motivare la sentenza in diritto, senza richiamo al materiale probatorio già raccolto nel processo.

L’oralità, assicurata da un complesso di norme (tra cui il divieto di leggere, in pubblica udienza, le deposizioni rese da testimoni assenti nell’istruzione scritta), si presentava in una forma che potremmo definire aulica e solenne, tant’è che Cordero la definì “spettacolare” 30.

28 E.DEZZA, Le fonti del codice di procedura penale del Regno Italico, cit., p.7

29 Così aveva dichiarato Napoleone nel discorso del 7 Giugno 1805 al corpo legislativo

aggiungendo anche che: “le circostanze in cui versava l’Italia non permettessero di pensare di

introdurvi i giurati” (cfr. G.D.ROMAGNOSI, Progetto…, cit., p.XVII)

(24)

20

Tale aggettivo prendeva corpo nel dibattimento, il quale era dominato dalla figura del presidente della Corte (composta da otto magistrati) cui erano demandati numerosi compiti per assicurare l’ordine nel processo e garantirne il regolare svolgimento: in particolare, una volta letta dal cancelliere la lista dei testimoni, il presidente li avvertiva dell’importanza e della santità del giuramento, evocando le pene comminate al falso testimone 31.

L’esame testimoniale si svolgeva nel pieno rispetto del contraddittorio: infatti i testimoni venivano escussi separatamente, (si iniziava da quelli addotti dal pubblico ministero) e deponevano intorno ai fatti sui quali erano stati altre volte interrogati relativamente all’accusato; quest’ultimo poteva porre, con la mediazione del presidente, domande al testimone 32. Tuttavia, in deroga al principio secondo il quale le deposizioni rese da testimoni assenti nell’istruzione non potessero essere lette in pubblica udienza, alcuni soggetti, detti testi privilegiati (ad esempio grandi ufficiali e ministri), venivano dispensati dal presentarsi personalmente, se residenti fuori dal comune ove si svolgeva il processo, così come coloro che avessero fatto pervenire alla Corte la prova di essere legittimamente impediti. Nel caso in cui la Corte ritenesse indispensabile che tali soggetti fossero nuovamente interrogati, delegava ad un giudice del luogo l’esame del teste a domicilio, ordinando la lettura in udienza della deposizione raccolta.

31

Ogni testimone giurava per la seconda volta (in quanto avesse già deposto, ai sensi dell’art.166, davanti all’istruttore) con una “formula ad effetto drammatico”, impegnando l’anima dietro una velata minaccia di “punizione divina” (cfr. F.CORDERO, Guida, p.83)

32 Art.456 “L’accusato ed il suo difensore possono, per mezzo del presidente, interrogare i

testimoni. Possono dire tanto contro la loro persona, quanto contro le loro deposizioni tutto ciò che crederanno utile alla difesa”, v. G.D.ROMAGNOSI, Progetto, cit., p.86

(25)

21

Ad un’attenta analisi non può, però, sfuggire come il codice Romagnosi, per quanto concerne l’oralità, evidenziasse una duplice regressione rispetto al code

Merlin 33: la mancata previsione dei giurati, sostituiti dai giudici professionali, avrebbe dovuto portare all’introduzione di una previsione che imponesse l’obbligo per gli stessi di motivare la sentenza in fatto ed in diritto e, invece, si stabilì che i togati (come i giurati nel codice francese) decidessero avvalendosi del semplice libero convincimento, cosa che avrebbe potuto portare il giudice ad utilizzare, in sentenza, qualsiasi elemento, anche se acquisito in violazione del contraddittorio e dei vincoli fissati dalla legge.

Inoltre, il codice Romagnosi difettava di una norma che vietasse espressamente ai giudici di avvalersi in camera di consiglio, dei verbali delle deposizioni e degli interrogatori assunti in istruttoria, segno evidente della tendenza a preferire una decisione che si fondasse sulle scritture istruttorie più che sull’oralità garantita dall’escussione dibattimentale 34

.

Il crollo dell’impero napoleonico determinò una certa confusione nei legislatori della Penisola che, inizialmente, optarono per un ritorno al sistema inquisitorio per, poi, assestarsi nuovamente su modelli misti.

33 Romagnosi stesso affermava che “la deposizione orale altro non è che una pubblica ratifica,

uno sviluppamento fatto in conflitto sulle stesse cose che furono prima scritte…la deposizione scritta è la prima che fu assunta, così diviene il primo oggetto fondamentale, al quale la deposizione orale si ripete; talché in forza di ragione logica la deposizione orale diviene una ratifica della prima, se concorda colla prima; diviene nulla, se non concorda colla prima”,

palesando una netta preferenza per la deposizione resa in istruttoria a discapito della dibattimentale (V. P.FERRUA, Oralità, cit., p.72)

34

Tutto ciò, in un certo qual modo, si poneva in contrasto con la presentazione, del tutto priva di critica, che il ministro Luosi forniva del codice: egli, infatti, decantava la pubblicità dell’istruzione affermando che la stessa garantisse l’attenzione e la sincerità dei testimoni, consapevoli di poter essere smentiti nella fase dibattimentale e, addirittura definendola come “non soltanto una guida

sicura nella ricerca della verità, ma il più certo garante della imparzialità dei giudizi” (Così in

(26)

22

Dei vari codici elaborati in Italia nel XIX secolo, il codice per lo regno delle Due

Sicilie del 1819 fu, a detta di molti giuristi, il modello più avanzato della

legislazione preunitaria 35: in chiave innovativa rispetto al codice Romagnosi e, probabilmente, anche dei codici sabaudi, promosse l’idea che il processo fosse “actus trium personarum”, inteso come rapporto dialettico tra accusa e difesa, coadiuvate dalla mediazione del giudice 36.

Si intuisce, dunque, che il codice del 1819 non sposasse il modello inquisitorio ed, anzi, lo superasse brillantemente, tutelando l’oralità con un complesso di norme che sarebbero risultate attuali persino un secolo dopo, quando furono riprese nei progetti di riforma del ministro Finocchiaro – Aprile.

Il dibattimento era chiamato “discussione pubblica” e si teneva dinanzi alla stessa Corte che aveva deliberato sulla custodia preventiva ed ammesso l’accusa: nessuna norma escludeva quanti avessero già deliberato sul caso permettendo, dunque, una pericolosa permeabilità del dibattimento agli eventi della fase istruttoria.

Questa pericolosa disattenzione del legislatore napoletano non andava ad intaccare una struttura dibattimentale improntata all’oralità: si disponeva il divieto di leggere in pubblica discussione qualunque attestazione o dichiarazione scritta di persona che poteva essere citata come testimone 37.

Nel caso in cui si profilassero contraddizioni tra la deposizione testimoniale resa in dibattimento e quella resa nella fase istruttoria, il presidente della Corte poteva

35 Vedi P.FERRUA, Oralità, cit., p.78 36

Così F.CORDERO in Guida, cit., p.86

37 Si manteneva, comunque, la deroga riguardante testimoni infermi, morti, assenti, impediti da

causa pubblica o da altra grave ragione, testimoni “generici” le cui dichiarazioni, rese in istruttoria sotto il vincolo del giuramento, riguardavano l’effetto materiale, il risultato e le conseguenze fisiche del reato, testimoni generici, quali ministri, inviati straordinari, cardinali ecc. (V. P.FERRUA, Oralità, cit., p.79)

(27)

23

intervenire, richiamando alla memoria del testimone quanto da questi dichiarato, mentre all’accusato si dava lettura degli interrogatori già subiti, prima dell’esame orale.

A tutela dell’imparzialità del giudizio, inoltre, l’art.293 vietava ai giudici di tener conto di fatti che non fossero stati esaminati in pubblica discussione, a meno che non si trattasse di fatti sottoposti al contraddittorio tra le parti.

La decisione si basava, come nel codice del 1807, sul libero convincimento del giudice, ma in questo caso veniva temperato dall’obbligo di motivazione in fatto ed in diritto.

Efficacemente il processo descritto nel codice del 1819 è stato definito “embrionalmente accusatorio” 38

, cosa che lo rendeva unico nella tradizione italiana dell’epoca ed, in parte, anche in quella successiva, soprattutto se pensiamo ai codici di procedura penale del Regno Sabaudo: il primo, emanato da Carlo Alberto nel 1847, ispirato dal code d’instruction criminelle, era tutt’altro che innovativo e presentava elementi fortemente inquisitori, pur adottando un modello misto.

In particolare, la fase delle indagini veniva affidata all’assessore istruttore che ricopriva il doppio ruolo di giudice ed ufficiale di polizia giudiziaria, egli godeva di una certa libertà, vista l’autorizzazione a compiere, con l’assistenza del pubblico ministero, ogni atto probatorio utile alla manifestazione della verità. Il codice albertino del 1847, in conformità al codice napoleonico, prevedeva l’obbligo dei testimoni di deporre oralmente con la possibilità di ricorrere, previa autorizzazione del magistrato, a note o memorie, ma si discostava dal modello

(28)

24

Transalpino ponendo, a pena di nullità, il divieto di dare lettura della deposizione scritta di un teste39.

Non mancavano le deroghe al divieto concernenti, come già visto anche nei precedenti codici preunitari, testimoni morti, impediti o privilegiati.

Il divieto di leggere in pubblica udienza le deposizioni scritte dei testimoni mirava a svolgere il ruolo di argine alle interpretazioni elusive dell’oralità, adottate in Francia proprio a causa del silenzio della legge al riguardo; tuttavia il sistema misto, per natura aperto al recupero delle attività istruttorie in giudizio, rese inutile tale norma: la giurisprudenza, infatti, fece leva sulla norma che consentiva al presidente di “chiamare ad esame qualsivoglia persona o farsi recare qualunque nuovo documento che gli sembrasse atto a somministrare qualche lume sul fatto contestato” per rimettere alla discrezionalità presidenziale la lettura delle dichiarazioni istruttorie dei testi non citati in giudizio o alla cui audizione le parti avessero rinunciato.

Addirittura, per aggirare la norma sul divieto di lettura, si negò la qualifica di testimone al soggetto non citato o a cui la parte avesse rinunciato, giustificandosi col fatto che l’audizione orale fosse, a quel punto, preclusa 40

.

Si può affermare, dunque, che l’oralità dipendesse da una scelta arbitraria del presidente: di fatto la parte interessata ad eludere il divieto di lettura poteva semplicemente evitare di inserire i testi di cui non desiderava la deposizione orale e, nel dibattimento, sollecitare il presidente ad ordinare la lettura delle loro

39 Disposizione già presente nel code Merlin novellato (V. supra § 1.2.); non erano, invece, previsti

limiti sulla leggibilità degli interrogatori resi in fase istruttoria dall’imputato (cfr. P.FERRUA,

Oralità, cit., p.84)

(29)

25

dichiarazioni scritte, aggirando, così, qualsiasi confronto diretto che avrebbe assicurato il rispetto del contraddittorio.

I limiti all’oralità non si fermavano, però, alle interpretazioni giurisprudenziali: infatti il codice del 1847 non conteneva norme che vietassero ai giudici di portare in camera di consiglio il fascicolo processuale o i verbali delle testimonianze istruttorie, incidendo sull’attenzione dei giudici all’escussione orale e sull’immediatezza della decisione.

L’efficacia della testimonianza diretta veniva compromessa dall’influenza del processo scritto che ingenerava, inevitabilmente, pregiudizi e convinzioni in chi doveva giudicare.

Secondo autorevole dottrina, tali inconvenienti derivavano dalla sostituzione dei giurati con i magistrati in carriera, avvezzi a giudicare più la fonte scritta indiretta che quella orale derivante dal diretto contatto con l’accusato ed i testimoni 41

. Il fermento che si venne a creare in Italia a causa della progressiva ed inesorabile espansione dello stato sardo e della conseguente unità, portò all’introduzione del

codice di procedura penale per gli stati sardi del 1859, concepito per essere più

accettabile alle nuove province, fino ad allora dotate di legislazione propria. Tra le principali novità viene ricordata l’introduzione della giuria in tutte le cause criminali che, però, non fu accompagnata da una riforma in senso accusatorio del rito penale ed anzi, la fase istruttoria rimase rigidamente inquisitoria e l’escussione dibattimentale fu affidata all’iniziativa esclusiva del presidente il quale decideva, a sua discrezione, sull’intervento diretto di parti e giurati nell’esame dei testi.

(30)

26

Una seconda novità consistette nel subordinare le dichiarazioni scritte dei testimoni inabili a deporre, morti o assenti al tempestivo inserimento dei loro nomi nelle liste predibattimentali: questa norma, apparentemente, sembrava poter frenare quella parte di giurisprudenza, consolidatasi con il codice precedente, che rimetteva alla discrezionalità del presidente la lettura delle deposizioni rese in fase istruttoria dai testi non citati o rinunciati dalle parti; in realtà produsse un ulteriore indebolimento dell’oralità poiché la stessa giurisprudenza considerò la citazione del teste come limite all’applicabilità del divieto di leggere deposizioni scritte, invece che alla possibilità di lettura dibattimentale, come da intenzione del legislatore.

La giurisprudenza, ancora una volta, mostrò la sua volontà di non volersi privare dell’elemento scritto, ritenuto, a torto, più efficace dell’esame diretto di testimoni e accusato e con grande abilità riuscì, di fatto, a trasformare con fantasiose interpretazioni estensive, una norma volta a contenere le deroghe all’oralità nel suo esatto contrario, lasciando intendere che il legislatore avesse voluto sancire la leggibilità di tutte le dichiarazioni istruttorie rese da testi non citati in giudizio a prescindere che fossero o meno in grado di deporre42.

Il pregiudizio arrecato all’oralità risultava più evidente e grave nei giudizi di competenza della Corte d’assise, nei quali il verdetto aveva carattere immotivato e, quindi, ai giudici non si richiedeva di render noto il materiale probatorio utilizzato nella ricostruzione dei fatti.

(31)

27

2.2. Dal codice del 1865 al codice liberale del 1913

L’unità d’Italia, proclamata con la legge 4761 del 17 Marzo 1861, fece emergere l’esigenza di adeguare le codificazioni sabaude ad un territorio, a quel punto, considerevolmente più vasto ed eterogeneo per culture e tradizioni.

Furono due leggi ad aprire l’iter che avrebbe portato al definitivo compimento del codice del 1865: l’una necessaria per l’approvazione del nuovo codice di procedura penale e per la sua esecuzione in tutte le nuove province 43; l’altra per conferire a Vittorio Emanuele II, in caso di guerra con l’Impero austriaco, tutti i poteri legislativi ed esecutivi.

Iniziò, poi, una fase complessa volta a rendere meno brusco l’impatto dell’estensione legislativa ai territori via via congiunti all’originario nucleo del regno sabaudo 44: per realizzare tale obiettivo furono utilizzati provvedimenti parlamentari ed extraparlamentari e, a livello territoriale, l’estensione fu operata tramite decreti dei numerosi plenipotenziari del governo sabaudo, sottoposti solo a posteriori alle ratifiche parlamentari.

L’ultimo passo del lungo iter per arrivare ad un codice nazionale fu la legge 2215 del 2 Aprile 1865, denominata anche “legge sull’unificazione legislativa” che autorizzò il governo ad estendere il codice di procedura penale del 1859 anche alla Toscana, apportandovi le necessarie modifiche al fine di coordinarlo col sistema allora vigente a Firenze 45 e, infine, con r.d.26 Novembre 1865, n.2598 venne

43

Si fa riferimento al codice del 1859 (V. supra § 2.1.)

44 Cfr. M.CHIAVARIO, Procedura penale un codice tra “storia” e cronaca, TORINO, 1996, p.17 45 Cfr., sul punto, ampiamente, P. FERRUA, Oralità, cit., p.96: l’estensione del codice sardo

avvenne gradualmente anche nel territorio delle due Sicilie, dove ci si doveva confrontare con le consuetudini delle popolazioni meridionali ed anche con un buon modello di processo penale (V. supra § 2.1.)

(32)

28

emanato il nuovo testo del codice di procedura penale, il primo dei quattro codici conosciuti, fino ad ora, dall’unità d’Italia.

L’elaborato adottava un modello misto; veniva previsto, infatti, un processo a due anime, contenente sia tratti accusatori che, in prevalenza, inquisitori.

La critica non tardò ad arrivare: autorevole dottrina affermò che “si perdette

l’occasione di attingere il meglio da tutti i codici presenti in Italia” e,

provocatoriamente, proclamò il “bisogno urgentissimo di gettare alle fiamme il

nostro codice di procedura penale del 1865, indegno da capo a fondo dei tempi nostri e di un popolo che dicesi libero” 46.

Anche in tempi recenti il codice del 1865 è stato fortemente criticato, soprattutto per quanto concerne l’estensione del codice sabaudo, tenendo poco conto delle realtà legislative preunitarie: a tal proposito è stato efficacemente detto che il primo codice italiano era “il modesto prodotto di una sorta di fusione per

incorporazione: la promulgazione del regio decreto che lo conteneva non fu infatti che l’epilogo di una serie di vicende sintetizzabili in una progressiva estensione, ai territori accorpati, della legislazione sabauda” 47.

La natura dualistica del codice, facilmente individuabile per la presenza di una fase istruttoria (dominata da segretezza e scrittura) ed un successivo dibattimento pubblico ed orale, derivava dal code d’instruction criminelle del 1808 del quale risultava esserne lo “specchio aggiornato” 48

; tuttavia la fase istruttoria, priva del

46 Così F. CARRARA in Il diritto penale e la procedura penale, Programma del corso di diritto

criminale, Opuscoli, Prato, 1879, p.36 ss.

47 Così M.CHIAVARIO in Il diritto processuale penale e i suoi quattro codici: luci ed ombre di

una presenza europea, Annuario di diritto comparato, 2014, p.149

(33)

29

contraddittorio, finiva per influenzare gli esiti del giudizio; questo ci porta a sostenere che la logica di fondo del primo codice italiano fosse inquisitoria.

Pur sottolineando la tendenza inquisitoria del codice del 1865, non possiamo dimenticare la volontà del legislatore di rafforzare la tutela dell’oralità: in tal senso, per evitare il protrarsi di quella consuetudine giurisprudenziale che tendeva ad eludere l’elemento orale 49

, si stabilì espressamente che il divieto di dare lettura della deposizione scritta dei testimoni dovesse applicarsi senza porre distinzioni a seconda che fossero o no portati nella lista.

Ad ulteriore rafforzamento di tale norma, l’art.478 circoscriveva i poteri discrezionali del giudice nell’ambito di tutto ciò che la legge non avesse prescritto o non avesse vietato sotto pena di nullità.

Le deroghe al divieto di lettura riguardavano le ipotesi già consolidate nei precedenti codici come le testimonianze assunte col vincolo del giuramento in atti di ispezioni e ricognizioni, le deposizioni dei testi privilegiati, raccolte a domicilio per rogatoria, le dichiarazioni istruttorie rese da testimoni morti o assenti dal Regno o divenuti inabili a deporre in giudizio, sempreché fossero stati portati nelle liste; mentre, per i testimoni impossibilitati a presentarsi per malattia o altra grave ragione, si dava lettura in udienza della deposizione raccolta da un giudice diverso dall’istruttore, aggiungendo una nuova alternativa che permetteva di leggere direttamente, col consenso delle parti, le dichiarazioni istruttorie del teste impedito.

A queste se ne aggiunse un’altra al fine di rendere più semplice e scorrevole il giudizio finale, ma che, in realtà, parve svolgere solamente la funzione di

(34)

30

controbilanciare il ridimensionamento dei poteri del presidente 50: si stabilì, infatti, che le parti potessero acconsentire alla lettura delle deposizioni scritte dei testi citati e non comparsi in giudizio per ottenere semplici chiarimenti ed indicazioni.

In quest’ultimo caso la deroga non si giustificava sulla base della irriproducibilità orale della dichiarazione scritta a causa delle condizioni fisiche o psichiche del teste, ma si fondava, piuttosto, su un’esigenza di economia processuale.

Il requisito del consenso delle parti, ereditato dall’esperienza francese, faceva emergere la concezione secondo la quale l’oralità sarebbe un principio a totale disposizione delle parti e non elemento preponderante per l’accertamento della verità.

Il codice del 1865 si pose il problema della tutela dell’oralità, ma lo fece superficialmente: di fatto l’elemento orale era lontano dal modello anglosassone che lo identificava con l’immediatezza di rapporti tra il giudice della decisione e le fonti di prova. Questo avvenne anche a causa dell’ampiezza delle indagini svolte dal giudice istruttore i cui poteri si estendevano ad ogni “atto utile alla manifestazione della verità”; quest’ultimo concetto apparve così ampio e denso di sfumature da non poter essere codificato. Inoltre c’era il doppio esame sul merito dell’accusa che l’imputato subiva già prima del rinvio a giudizio.

Come brillantemente sostenuto, “quanto pesa su dibattimento e decisione

quest’enorme, lento, poliocchiuto apparato istruttorio” 51

: il giudice istruttore era concepito come “specchio fedele che sinceramente riflette tutti i lati della

50

P.FERRUA, Oralità, cit., p.100

(35)

31

verità”52 e, pur dovendo svolgere un ruolo imparziale curando gli interessi sia dell’accusa che della difesa, finiva per occuparsi quasi solamente delle prove a carico dell’imputato, divenendo, di fatto, il “braccio armato” del pubblico ministero.

Ambiguo anche il giudizio di delibazione dell’accusa, pensato in favore dell’imputato, il quale, prima di essere sottoposto alla gogna mediatica del giudizio pubblico, veniva assoggettato ad un giudizio preliminare; senonché lo spirito inquisitorio di tale codice, trasformava l’istituto nell’ennesimo meccanismo contro l’imputato, vista la facilità con cui le giurisdizioni istruttorie pronunciavano il rinvio a giudizio.

Oltre all’influenza che, inevitabilmente, il provvedimento di rinvio a giudizio esercitava, il meccanismo delle letture “permesse” faceva sì che le deposizioni assunte in segreto dal giudice istruttore, arrivassero al dibattimento, compromettendo ciò che lo dovrebbe caratterizzare e, cioè, oralità e contraddittorio.

Le deroghe al divieto di lettura erano solo uno dei fattori che indebolivano l’oralità nel sistema processuale del primo codice italiano: determinanti, in tal senso, anche l’assenza di disposizioni che regolassero l’efficacia probatoria delle dichiarazioni lette in pubblica udienza e, soprattutto, l’atteggiamento giurisprudenziale, poco incline ad accettare l’oralità come elemento indispensabile per un processo equo.

Infine, non possiamo non tener conto delle diversità che intercorrevano tra i giudizi d’assise e quelli di tribunale o pretura:

52

Così LONGHI che prosegue “…vigile scorta per l’accusato e per l’accusatore, che non agisce,

(36)

32

nei primi era concesso poco spazio alla verbalizzazione degli esami dibattimentali e le norme a tutela della continuità che vietavano ai giudici di tener conto di “altri atti”, rafforzavano la possibilità che il verdetto fosse emesso sulla base dell’esame diretto di testimoni ed accusato.

Un ulteriore elemento favorevole all’oralità nel giudizio di assise era la presenza della giuria: gli stessi giurati non erano a conoscenza dei fatti di causa e, perciò, liberi da condizionamenti e preconcetti.

Al contrario, nei giudizi di pretura e tribunale, l’oralità subiva delle forti limitazioni dovute al fatto che il fascicolo processuale restava a disposizione dei magistrati per tutto il corso del processo e alla possibilità di una sospensione del dibattimento, spesso protratta anche oltre i dieci giorni concessi dalla legge. Ciò determinava una falla nella continuità processuale, portando ad un offuscamento dei ricordi dell’escussione dibattimentale nei giudici, i quali, a quel punto, avrebbero dovuto far ricorso agli scritti del cancelliere.

Nell’applicazione delle norme dettate a tutela dell’oralità dal codice del 1865, la giurisprudenza si trovò a dover affrontare numerose questioni:

anzitutto doveva fissare l’ambito operativo del divieto di leggere ogni deposizione scritta dei testimoni, previsto dall’art.311, la cui formula appariva ambigua poiché rimaneva il dubbio sul divieto di lettura che poteva essere inteso come limitato alle sole testimonianze cristallizzate in un formale atto istruttorio o esteso ad ogni dichiarazione scritta riproducibile oralmente in giudizio.

Sulla questione non mancarono contrasti in giurisprudenza tra coloro che erano più orientati ad un’interpretazione letterale della norma, che consentisse la lettura di corrispondenza o di altre dichiarazioni stragiudiziali di terzi in dibattimento e

(37)

33

coloro che, invece, erano propensi a considerarla vietata; su tale alternativa incideva anche la tendenza a non distinguere la dichiarazione scritta, letta in pubblica udienza dalla testimonianza assunta con le garanzie dell’oralità e del contraddittorio, quando sarebbe bastato ammettere la lettura in giudizio dello scritto stragiudiziale, limitandone l’efficacia probatoria.

Una seconda questione si aprì sull’interrogatorio del coimputato prosciolto, del quale alcuni ammettevano la lettura, sulla base dell’assunto che non potesse essere assimilato ad una testimonianza, altri la escludevano perché, al contrario, lo consideravano alla stregua di un testimone.

Altro caso spinoso riguardava i rapporti tra le deposizioni scritte dei testimoni ed altre dichiarazioni di cui il codice consentiva la lettura in ragione della irripetibilità dell’attività materiale in esse contenuta (si pensi ai verbali di ispezioni o perquisizioni) o dell’esigenza di portare a conoscenza di tutti le fonti dell’iniziativa processuale (denunce e querele) o, come nel caso delle perizie, della loro natura scientifica.

Anche in questo caso, però, la giurisprudenza non sposò un unico orientamento; infatti alcune correnti consentivano la lettura solo in ragione della specialità dell’atto, altre, invece, giustificavano la lettura del rapporto per il fatto che questo derivasse dagli uffici di polizia giudiziaria, senza tener conto del fatto che potesse contenere dichiarazioni aventi carattere testimoniale.

L’abilità giurisprudenziale nell’eludere le norme a tutela dell’oralità, si registrò anche sulla lettura delle deposizioni scritte di testimoni morti o assenti dal Regno, di ignota dimora o divenuti inabili a deporre: l’art.311, 2° comma prevedeva una disciplina rigorosa che riuscì, in parte, a contenere la tendenza della

(38)

34

giurisprudenza a recuperare, in dibattimento, gli scritti della fase istruttoria, anche se, non di rado, la condizione secondo la quale i testimoni dovessero essere portati nelle liste venne aggirata, ritenendo ammissibile la lettura delle dichiarazioni di testimoni morti o assenti, anche se non inseriti nelle liste predibattimentali.

Per arrivare a tale opinabile risultato, si equiparò l’infermità fisica all’inabilità e fu considerata ignota la dimora di tutti i militari in servizio.

Controverso, infine, il punto concernente la lettura delle dichiarazioni istruttorie al teste comparso in giudizio per evidenziare cambiamenti o variazioni nella precedente deposizione: dall’alto della loro secolare esperienza, gli anglosassoni consentivano la lettura di dichiarazioni difformi del teste al solo scopo di completamento; il giudice non poteva sostituire la dichiarazione istruttoria a quella dibattimentale; nell’ordinamento italiano, che celava una certa simpatia per l’inquisitorietà, non erano previste regole che escludessero i rapporti tra deposizione istruttoria e dibattimentale: non era infrequente, di fatti, l’arresto del teste intenzionato a ritrattare in pubblica udienza quanto dichiarato in sede anteriore.

In questo modo il giudice dibattimentale aveva la facoltà di scegliere la dichiarazione scritta, resa nella fase preliminare e, perciò, col metodo inquisitorio, piuttosto che la limpida dichiarazione orale, derivante da un esame diretto nel rispetto delle regole del contraddittorio.

L’art.311 prevedeva che il recupero delle dichiarazioni scritte dovesse avvenire a solo titolo di semplici schiarimenti o indicazioni e, se la disposizione fosse stata applicata alla lettera, avrebbe potuto ergersi ad efficace indicatore della credibilità della dichiarazione resa dal teste in dibattimento, ma la giurisprudenza rovesciò il

(39)

35

valore della norma permettendo la lettura della dichiarazione istruttoria prima che il teste fosse sottoposto all’esame orale per stimolarne la memoria.

Tale orientamento si manifestò anche a causa dell’assenza di una norma che regolasse la lettura delle deposizioni istruttorie ai testi “smemorati” o reticenti. La giurisprudenza non fu unanime su tale questione: infatti alle pronunce che si distaccavano dalla lettera della norma, consentendo la lettura della deposizione scritta a seguito della semplice ammissione del testimone di ricordare i fatti, si contrapponeva l’orientamento minoritario che, invece, più correttamente sanzionava con la nullità la lettura disposta a seguito della semplice dichiarazione del teste di non ricordare le circostanze oggetto del dibattimento 53

.

L’interpretazione maggioritaria, dunque, depotenziava l’oralità e forniva ai falsi testimoni una via di fuga dalle contraddizioni 54

.

In definitiva l’elemento che, ancora una volta, colpì duramente l’oralità fu il principio del libero convincimento del giudice, troppo spesso utilizzato per recuperare, ai fini della decisione, le fonti di prova acquisite in modo irrituale, come ad esempio l’acquisizione dei verbali istruttori al giudizio.

Sul codice del 1865, come già accennato, si abbatté un fiume di critiche, soprattutto dalla dottrina 55, sin dai suoi primi anni di età anche perché il sistema

53 V. P.FERRUA, Oralità, p.140: “La portata della norma poteva, tramite un’interpretazione

logica, essere estesa sino a consentire la lettura delle dichiarazioni scritte per colmare lacune manifestatesi con la deposizione orale, risolvendosi queste pur sempre cangiamenti o variazioni; ma non al punto di indurre il teste ad assolvere l’obbligo di deporre in pubblica udienza con una sbrigativa e psicologicamente forzata conferma dei verbali istruttori…”

54 In merito il ministro Finocchiaro-Aprile, dominus del codice di procedura penale del 1913,

affermò che: “se la legge proclamava ad alta voce la necessità della prova orale, la prassi

giurisprudenziale la riduceva ad una formale sfilata di testimoni innanzi al giudice, con nessun altro ufficio che quello di confermare, spesso senza neppure ripetere, qualche volta senza neppure comprendere, la deposizione già fatta, che non passa nell’atto scritto con quella stessa naturalezza con la quale viene resa”, Cfr. P.FERRUA, Oralità, p.141

55

Oltre a F.CARRARA, si pensi a L.LUCCHINI che, drasticamente, afferma: “Ormai lo sanno

Riferimenti

Documenti correlati

principio di uguaglianza, sia formale sia sostanziale, che esige dunque di differenziare situazioni tra loro diverse, l’uguaglianza di fronte alla pena

L'articolo 7 comma 1 della Convenzione, infatti, secondo la pacifica giurisprudenza della Corte di Strasburgo 8 sancisce non solo, esplicitamente, il principio di

124 del 1999, possono essere stipulati, tra l’amministrazione e i docenti, diverse tipologie di contratti a tempo determinato: supplenze annuali su organico

La Corte, utilizzando passaggi motivazionali tratti da alcuni precedenti in tema di rilevanza della discrezionalità giudiziale nel dosare la risposta puni- tiva nel

Le ipotesi così introdotte sono state in seguito confermate nel Codice di Giustizia contabile (d.lgs. 11, comma 6, unitamente a quelle ulteriori spettanti alle Sezioni Riunite

In other words, if we wish to use the Translation Game scenario schema as a basis for models that can lead to actual experimentation, it makes sense to consider

III Black Hole Fireworks and Transition Amplitudes in Loop Quantum Gravity 55 8 The Spin foam Approach to Loop Quantum Gravity 57 8.1 Tetrad formulation of General

Niente vieta - e anzi risponde a criteri di certezza del diritto e di economia dell'attività giuridica - che l'autorità investita della funzione di approvazione