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L’avvento del fascismo e la conseguente involuzione inquisitoria: il codice del

I codici italiani nella storia

2.3. L’avvento del fascismo e la conseguente involuzione inquisitoria: il codice del

Nel 1924 emerse, definitivamente, la natura dittatoriale del governo presieduto da Mussolini prima con l’approvazione di una legge elettorale “squilibrata”, poi con il delitto Matteotti e la conseguente secessione dell’Aventino.

Il 3 Gennaio 1925 Mussolini tenne un discorso alla camera dei deputati con cui si assunse la responsabilità politica e morale di ciò che era avvenuto l’anno prima e chiese al Parlamento un atto di accusa nei suoi confronti, ma tale appello non ebbe seguito e si instaurò così la dittatura totalitaria rafforzata l’anno seguente dalla soppressione di tutte le organizzazioni contrarie al fascismo.

Stupisce, in tale contesto, che l’iter per l’approvazione dei codici penale e di procedura penale, formalmente, rispettasse le regole e le prassi parlamentari e, infatti, l’ossequio fu una furbizia del guardasigilli Alfredo Rocco che, presentandosi come “mediatore super partes” riuscì a neutralizzare le rivendicazioni liberali su temi quali la titolarità del potere di archiviazione, la conduzione e il ruolo dell’istruttoria, i termini massimi di carcerazione. Inoltre lo stesso riuscì ad aggirare la lettera della legge delega, la quale autorizzava il governo a modificare le disposizioni del codice di procedura penale e ad emendare gli articoli che avevano dato luogo a controversie, portando avanti una codificazione di “integrale fabbricazione fascista” 73

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Il ministro Rocco evidenziava quelli che, a suo parere, erano i difetti del codice del 1913, ma evitava di entrare nel merito delle soluzioni che avrebbe predisposto.

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In materia testimoniale, pur riconoscendo la bontà delle norme che vietavano di interrogare i testimoni sulle voci correnti nel pubblico o che sanzionavano con la nullità la lettura delle deposizioni non assunte dal giudice con le regole dell’istruzione formale, criticava le incertezze interpretative formatesi in giurisprudenza 74.

Nel 1929 il progetto di riforma del codice di procedura penale, elaborato da Vincenzo Manzini, fu presentato alla magistratura, alle facoltà di giurisprudenza ed agli ordini forensi affinché esprimessero il loro parere su un testo che riproponeva un sistema processuale misto, accentuandone, però, la componente inquisitoria tanto da ritornare, per quanto riguarda la fase istruttoria, alla segretezza più assoluta, così rifacendosi al modello napoleonico.

Il pubblico ministero fu investito del ruolo di rappresentante dell’esecutivo presso l’autorità giudiziaria e gli venne restituita la qualità di attore nel processo, ma non si controbilanciò il suo potere prevedendo l’irrilevanza delle sue indagini ai fini del giudizio e, di fatto, vennero attribuiti poteri istruttori ad un soggetto privo del requisito dell’imparzialità 75

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Il legislatore fascista, nel compiere tale operazione, ebbe vita facile vista l’ambiguità del codice precedente, incapace di predisporre una netta separazione tra organo di accusa e giudice in fase istruttoria.

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In particolare Rocco affermava che tali norme “così come sono state concepite e redatte,

contrastano col principio che in materia penale la verità materiale deve prevalere su quella formale, nonché colla necessità generalmente riconosciuta di accertare e definire insieme all’esistenza materiale e alla configurazione giuridica del reato, anche la personalità fisica e morale dell’imputato…” (Cfr. P.FERRUA, Oralità, cit., p.252)

75 A giustificazione di tale scelta il guardasigilli si espresse in questi termini: “è vero che il

pubblico ministero è parte ed è pur vero che l’istruzione sommaria ha carattere accusatorio. Ma il PM è una parte sui generis, che non agisce per fini personali, bensì per uno scopo eminentemente pubblico e che di conseguenza ha interesse ad agire soltanto quando tragga la convinzione della colpevolezza da elementi obiettivi, accuratamente vagliati…” (V. P.FERRUA, Oralità, p.261)

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Nella fase del giudizio, dunque, l’attività istruttoria arrivava senza incontrare particolari ostacoli ed i divieti di lettura, già soggetti a numerose deroghe nei codici precedenti, venivano visti dal legislatore fascista come eccessivo intralcio alla ricerca della verità materiale e al libero convincimento del giudice.

La tendenza ad estendere ulteriormente le deroghe all’oralità fu giustificata con la convinzione che il giudice difficilmente sarebbe arrivato al dibattimento privo di informazioni sul fatto da giudicare 76.

Scomparve la distinzione tra testimonianze raccolte da pubblico ministero e polizia giudiziaria e quelle assunte dal giudice istruttore e, di conseguenza, si eliminò il divieto di lettura per le deposizioni di testimoni non esaminati dal giudice con le norme dell’istruzione formale.

Si autorizzarono, dunque, anche le letture di dichiarazioni rese da testimoni defunti, inabili a deporre e assenti dallo Stato senza subordinarle al fatto di essere state inserite nelle liste testimoniali.

Così come si consentì, senza alcun limite, la lettura degli interrogatori di coimputati, sia nel caso che fossero stati prosciolti che no e, altresì, venne regolamentata la lettura in aiuto alla memoria.

La netta compressione dell’oralità non trovò alcuna opposizione, nemmeno da parte di coloro, magistratura e professori universitari, da cui ci si sarebbe aspettata una voce fuori dal coro. Anzi, proprio questi ultimi rilanciarono le idee sopra esposte auspicando la lettura di qualsiasi deposizione o atto processuale qualora

76 Nella relazione sul progetto preliminare si osservò che “è vero che il giudice non può tener

conto, nella motivazione della sentenza, del contenuto di atti o documenti non leggibili, ma è pur vero che questi, necessariamente da lui conosciuti, possono essere concorsi a determinare il suo convincimento. Influenza, questa, certamente illegittima, ma altrettanto difficile ad eliminarsi anche con la massima buona volontà (in quanto può agire per vie non avvertite dalla coscienza), e soprattutto incontrollabile, così da rendere illusorie le proibizioni della legge” Così G.MARCONI

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parti e pubblico ministero vi consentissero o ne fosse riconosciuta la semplice utilità da presidente o pretore 77.

Solo gli ordini forensi, pur dichiarandosi favorevoli ad estendere le deroghe all’oralità, si mostrarono dubbiosi, quanto meno sulla lettura delle dichiarazioni testimoniali raccolte da persone che non fossero il giudice78.

Il progetto fu trasmesso alla commissione parlamentare che espresse soddisfazione per il contenuto del testo considerandolo in linea con la tradizione giuridica italiana e intimando “cautela” solo sul sistema di aiuto alla memoria. Il codice fu approvato definitivamente con r.d. 19 Ottobre 1930 n°1399 e assunse il nome del suo promotore Alfredo Rocco, ma il vero padre di tale elaborato fu, senza alcun dubbio, Vincenzo Manzini opportunamente definito penalista dalla mano pesante, minuzioso, uomo d’ordine e nostalgico dei metodi inquisitori79

. Egli realizzò un’opera ben scritta e sistematicamente ben strutturata, caratteristiche che non riuscirono, tuttavia, a nascondere il suo spirito autoritario e che furono pensate per poter garantire al regime ampi margini di manovrabilità dei processi penali e delle stesse istituzioni giudiziarie80.

77 Così il relatore prof. Pili dell’università si Sassari (V. P.FERRUA, Oralità, cit., p.269)

78 Così, ad esempio, le commissioni di avvocati e procuratori di Roma pur salvando le letture

qualora vi fosse l’accordo tra tutte le parrti per la lettura (V. P.FERRUA, Oralità, cit., p.269)

79 Così F.CORDERO in Guida, cit., p.99

80 M.CHIAVARIO, Procedura penale un codice tra “storia” e cronaca, cit. p.25; illuminante per

capire la portata reazionaria del codice il discorso con cui il compiaciuto ministro Rocco presenta il progetto preliminare: “le applicazioni processuali delle dottrine demo-liberali, per cui

l’individuo è posto contro lo Stato, l’Autorità è considerata come insidiosa sopraffatrice del singolo e l’imputato, quand’anche sorpreso in flagranza, è presunto innocente, sono del tutto eliminate, insieme a quella generica tendenza favorevole per i delinquenti, frutto di un sentimentalismo aberrante e morboso, che ha tanto indebolito la repressione e favorito il dilagare della criminalità”

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2.4. L’adeguamento del codice del 1930 ai principi costituzionali