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Dal codice del 1865 al codice liberale del

I codici italiani nella storia

2.2. Dal codice del 1865 al codice liberale del

L’unità d’Italia, proclamata con la legge 4761 del 17 Marzo 1861, fece emergere l’esigenza di adeguare le codificazioni sabaude ad un territorio, a quel punto, considerevolmente più vasto ed eterogeneo per culture e tradizioni.

Furono due leggi ad aprire l’iter che avrebbe portato al definitivo compimento del codice del 1865: l’una necessaria per l’approvazione del nuovo codice di procedura penale e per la sua esecuzione in tutte le nuove province 43; l’altra per conferire a Vittorio Emanuele II, in caso di guerra con l’Impero austriaco, tutti i poteri legislativi ed esecutivi.

Iniziò, poi, una fase complessa volta a rendere meno brusco l’impatto dell’estensione legislativa ai territori via via congiunti all’originario nucleo del regno sabaudo 44: per realizzare tale obiettivo furono utilizzati provvedimenti parlamentari ed extraparlamentari e, a livello territoriale, l’estensione fu operata tramite decreti dei numerosi plenipotenziari del governo sabaudo, sottoposti solo a posteriori alle ratifiche parlamentari.

L’ultimo passo del lungo iter per arrivare ad un codice nazionale fu la legge 2215 del 2 Aprile 1865, denominata anche “legge sull’unificazione legislativa” che autorizzò il governo ad estendere il codice di procedura penale del 1859 anche alla Toscana, apportandovi le necessarie modifiche al fine di coordinarlo col sistema allora vigente a Firenze 45 e, infine, con r.d.26 Novembre 1865, n.2598 venne

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Si fa riferimento al codice del 1859 (V. supra § 2.1.)

44 Cfr. M.CHIAVARIO, Procedura penale un codice tra “storia” e cronaca, TORINO, 1996, p.17 45 Cfr., sul punto, ampiamente, P. FERRUA, Oralità, cit., p.96: l’estensione del codice sardo

avvenne gradualmente anche nel territorio delle due Sicilie, dove ci si doveva confrontare con le consuetudini delle popolazioni meridionali ed anche con un buon modello di processo penale (V. supra § 2.1.)

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emanato il nuovo testo del codice di procedura penale, il primo dei quattro codici conosciuti, fino ad ora, dall’unità d’Italia.

L’elaborato adottava un modello misto; veniva previsto, infatti, un processo a due anime, contenente sia tratti accusatori che, in prevalenza, inquisitori.

La critica non tardò ad arrivare: autorevole dottrina affermò che “si perdette

l’occasione di attingere il meglio da tutti i codici presenti in Italia” e,

provocatoriamente, proclamò il “bisogno urgentissimo di gettare alle fiamme il

nostro codice di procedura penale del 1865, indegno da capo a fondo dei tempi nostri e di un popolo che dicesi libero” 46.

Anche in tempi recenti il codice del 1865 è stato fortemente criticato, soprattutto per quanto concerne l’estensione del codice sabaudo, tenendo poco conto delle realtà legislative preunitarie: a tal proposito è stato efficacemente detto che il primo codice italiano era “il modesto prodotto di una sorta di fusione per

incorporazione: la promulgazione del regio decreto che lo conteneva non fu infatti che l’epilogo di una serie di vicende sintetizzabili in una progressiva estensione, ai territori accorpati, della legislazione sabauda” 47.

La natura dualistica del codice, facilmente individuabile per la presenza di una fase istruttoria (dominata da segretezza e scrittura) ed un successivo dibattimento pubblico ed orale, derivava dal code d’instruction criminelle del 1808 del quale risultava esserne lo “specchio aggiornato” 48

; tuttavia la fase istruttoria, priva del

46 Così F. CARRARA in Il diritto penale e la procedura penale, Programma del corso di diritto

criminale, Opuscoli, Prato, 1879, p.36 ss.

47 Così M.CHIAVARIO in Il diritto processuale penale e i suoi quattro codici: luci ed ombre di

una presenza europea, Annuario di diritto comparato, 2014, p.149

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contraddittorio, finiva per influenzare gli esiti del giudizio; questo ci porta a sostenere che la logica di fondo del primo codice italiano fosse inquisitoria.

Pur sottolineando la tendenza inquisitoria del codice del 1865, non possiamo dimenticare la volontà del legislatore di rafforzare la tutela dell’oralità: in tal senso, per evitare il protrarsi di quella consuetudine giurisprudenziale che tendeva ad eludere l’elemento orale 49

, si stabilì espressamente che il divieto di dare lettura della deposizione scritta dei testimoni dovesse applicarsi senza porre distinzioni a seconda che fossero o no portati nella lista.

Ad ulteriore rafforzamento di tale norma, l’art.478 circoscriveva i poteri discrezionali del giudice nell’ambito di tutto ciò che la legge non avesse prescritto o non avesse vietato sotto pena di nullità.

Le deroghe al divieto di lettura riguardavano le ipotesi già consolidate nei precedenti codici come le testimonianze assunte col vincolo del giuramento in atti di ispezioni e ricognizioni, le deposizioni dei testi privilegiati, raccolte a domicilio per rogatoria, le dichiarazioni istruttorie rese da testimoni morti o assenti dal Regno o divenuti inabili a deporre in giudizio, sempreché fossero stati portati nelle liste; mentre, per i testimoni impossibilitati a presentarsi per malattia o altra grave ragione, si dava lettura in udienza della deposizione raccolta da un giudice diverso dall’istruttore, aggiungendo una nuova alternativa che permetteva di leggere direttamente, col consenso delle parti, le dichiarazioni istruttorie del teste impedito.

A queste se ne aggiunse un’altra al fine di rendere più semplice e scorrevole il giudizio finale, ma che, in realtà, parve svolgere solamente la funzione di

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controbilanciare il ridimensionamento dei poteri del presidente 50: si stabilì, infatti, che le parti potessero acconsentire alla lettura delle deposizioni scritte dei testi citati e non comparsi in giudizio per ottenere semplici chiarimenti ed indicazioni.

In quest’ultimo caso la deroga non si giustificava sulla base della irriproducibilità orale della dichiarazione scritta a causa delle condizioni fisiche o psichiche del teste, ma si fondava, piuttosto, su un’esigenza di economia processuale.

Il requisito del consenso delle parti, ereditato dall’esperienza francese, faceva emergere la concezione secondo la quale l’oralità sarebbe un principio a totale disposizione delle parti e non elemento preponderante per l’accertamento della verità.

Il codice del 1865 si pose il problema della tutela dell’oralità, ma lo fece superficialmente: di fatto l’elemento orale era lontano dal modello anglosassone che lo identificava con l’immediatezza di rapporti tra il giudice della decisione e le fonti di prova. Questo avvenne anche a causa dell’ampiezza delle indagini svolte dal giudice istruttore i cui poteri si estendevano ad ogni “atto utile alla manifestazione della verità”; quest’ultimo concetto apparve così ampio e denso di sfumature da non poter essere codificato. Inoltre c’era il doppio esame sul merito dell’accusa che l’imputato subiva già prima del rinvio a giudizio.

Come brillantemente sostenuto, “quanto pesa su dibattimento e decisione

quest’enorme, lento, poliocchiuto apparato istruttorio” 51

: il giudice istruttore era concepito come “specchio fedele che sinceramente riflette tutti i lati della

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P.FERRUA, Oralità, cit., p.100

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verità”52 e, pur dovendo svolgere un ruolo imparziale curando gli interessi sia dell’accusa che della difesa, finiva per occuparsi quasi solamente delle prove a carico dell’imputato, divenendo, di fatto, il “braccio armato” del pubblico ministero.

Ambiguo anche il giudizio di delibazione dell’accusa, pensato in favore dell’imputato, il quale, prima di essere sottoposto alla gogna mediatica del giudizio pubblico, veniva assoggettato ad un giudizio preliminare; senonché lo spirito inquisitorio di tale codice, trasformava l’istituto nell’ennesimo meccanismo contro l’imputato, vista la facilità con cui le giurisdizioni istruttorie pronunciavano il rinvio a giudizio.

Oltre all’influenza che, inevitabilmente, il provvedimento di rinvio a giudizio esercitava, il meccanismo delle letture “permesse” faceva sì che le deposizioni assunte in segreto dal giudice istruttore, arrivassero al dibattimento, compromettendo ciò che lo dovrebbe caratterizzare e, cioè, oralità e contraddittorio.

Le deroghe al divieto di lettura erano solo uno dei fattori che indebolivano l’oralità nel sistema processuale del primo codice italiano: determinanti, in tal senso, anche l’assenza di disposizioni che regolassero l’efficacia probatoria delle dichiarazioni lette in pubblica udienza e, soprattutto, l’atteggiamento giurisprudenziale, poco incline ad accettare l’oralità come elemento indispensabile per un processo equo.

Infine, non possiamo non tener conto delle diversità che intercorrevano tra i giudizi d’assise e quelli di tribunale o pretura:

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Così LONGHI che prosegue “…vigile scorta per l’accusato e per l’accusatore, che non agisce,

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nei primi era concesso poco spazio alla verbalizzazione degli esami dibattimentali e le norme a tutela della continuità che vietavano ai giudici di tener conto di “altri atti”, rafforzavano la possibilità che il verdetto fosse emesso sulla base dell’esame diretto di testimoni ed accusato.

Un ulteriore elemento favorevole all’oralità nel giudizio di assise era la presenza della giuria: gli stessi giurati non erano a conoscenza dei fatti di causa e, perciò, liberi da condizionamenti e preconcetti.

Al contrario, nei giudizi di pretura e tribunale, l’oralità subiva delle forti limitazioni dovute al fatto che il fascicolo processuale restava a disposizione dei magistrati per tutto il corso del processo e alla possibilità di una sospensione del dibattimento, spesso protratta anche oltre i dieci giorni concessi dalla legge. Ciò determinava una falla nella continuità processuale, portando ad un offuscamento dei ricordi dell’escussione dibattimentale nei giudici, i quali, a quel punto, avrebbero dovuto far ricorso agli scritti del cancelliere.

Nell’applicazione delle norme dettate a tutela dell’oralità dal codice del 1865, la giurisprudenza si trovò a dover affrontare numerose questioni:

anzitutto doveva fissare l’ambito operativo del divieto di leggere ogni deposizione scritta dei testimoni, previsto dall’art.311, la cui formula appariva ambigua poiché rimaneva il dubbio sul divieto di lettura che poteva essere inteso come limitato alle sole testimonianze cristallizzate in un formale atto istruttorio o esteso ad ogni dichiarazione scritta riproducibile oralmente in giudizio.

Sulla questione non mancarono contrasti in giurisprudenza tra coloro che erano più orientati ad un’interpretazione letterale della norma, che consentisse la lettura di corrispondenza o di altre dichiarazioni stragiudiziali di terzi in dibattimento e

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coloro che, invece, erano propensi a considerarla vietata; su tale alternativa incideva anche la tendenza a non distinguere la dichiarazione scritta, letta in pubblica udienza dalla testimonianza assunta con le garanzie dell’oralità e del contraddittorio, quando sarebbe bastato ammettere la lettura in giudizio dello scritto stragiudiziale, limitandone l’efficacia probatoria.

Una seconda questione si aprì sull’interrogatorio del coimputato prosciolto, del quale alcuni ammettevano la lettura, sulla base dell’assunto che non potesse essere assimilato ad una testimonianza, altri la escludevano perché, al contrario, lo consideravano alla stregua di un testimone.

Altro caso spinoso riguardava i rapporti tra le deposizioni scritte dei testimoni ed altre dichiarazioni di cui il codice consentiva la lettura in ragione della irripetibilità dell’attività materiale in esse contenuta (si pensi ai verbali di ispezioni o perquisizioni) o dell’esigenza di portare a conoscenza di tutti le fonti dell’iniziativa processuale (denunce e querele) o, come nel caso delle perizie, della loro natura scientifica.

Anche in questo caso, però, la giurisprudenza non sposò un unico orientamento; infatti alcune correnti consentivano la lettura solo in ragione della specialità dell’atto, altre, invece, giustificavano la lettura del rapporto per il fatto che questo derivasse dagli uffici di polizia giudiziaria, senza tener conto del fatto che potesse contenere dichiarazioni aventi carattere testimoniale.

L’abilità giurisprudenziale nell’eludere le norme a tutela dell’oralità, si registrò anche sulla lettura delle deposizioni scritte di testimoni morti o assenti dal Regno, di ignota dimora o divenuti inabili a deporre: l’art.311, 2° comma prevedeva una disciplina rigorosa che riuscì, in parte, a contenere la tendenza della

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giurisprudenza a recuperare, in dibattimento, gli scritti della fase istruttoria, anche se, non di rado, la condizione secondo la quale i testimoni dovessero essere portati nelle liste venne aggirata, ritenendo ammissibile la lettura delle dichiarazioni di testimoni morti o assenti, anche se non inseriti nelle liste predibattimentali.

Per arrivare a tale opinabile risultato, si equiparò l’infermità fisica all’inabilità e fu considerata ignota la dimora di tutti i militari in servizio.

Controverso, infine, il punto concernente la lettura delle dichiarazioni istruttorie al teste comparso in giudizio per evidenziare cambiamenti o variazioni nella precedente deposizione: dall’alto della loro secolare esperienza, gli anglosassoni consentivano la lettura di dichiarazioni difformi del teste al solo scopo di completamento; il giudice non poteva sostituire la dichiarazione istruttoria a quella dibattimentale; nell’ordinamento italiano, che celava una certa simpatia per l’inquisitorietà, non erano previste regole che escludessero i rapporti tra deposizione istruttoria e dibattimentale: non era infrequente, di fatti, l’arresto del teste intenzionato a ritrattare in pubblica udienza quanto dichiarato in sede anteriore.

In questo modo il giudice dibattimentale aveva la facoltà di scegliere la dichiarazione scritta, resa nella fase preliminare e, perciò, col metodo inquisitorio, piuttosto che la limpida dichiarazione orale, derivante da un esame diretto nel rispetto delle regole del contraddittorio.

L’art.311 prevedeva che il recupero delle dichiarazioni scritte dovesse avvenire a solo titolo di semplici schiarimenti o indicazioni e, se la disposizione fosse stata applicata alla lettera, avrebbe potuto ergersi ad efficace indicatore della credibilità della dichiarazione resa dal teste in dibattimento, ma la giurisprudenza rovesciò il

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valore della norma permettendo la lettura della dichiarazione istruttoria prima che il teste fosse sottoposto all’esame orale per stimolarne la memoria.

Tale orientamento si manifestò anche a causa dell’assenza di una norma che regolasse la lettura delle deposizioni istruttorie ai testi “smemorati” o reticenti. La giurisprudenza non fu unanime su tale questione: infatti alle pronunce che si distaccavano dalla lettera della norma, consentendo la lettura della deposizione scritta a seguito della semplice ammissione del testimone di ricordare i fatti, si contrapponeva l’orientamento minoritario che, invece, più correttamente sanzionava con la nullità la lettura disposta a seguito della semplice dichiarazione del teste di non ricordare le circostanze oggetto del dibattimento 53

.

L’interpretazione maggioritaria, dunque, depotenziava l’oralità e forniva ai falsi testimoni una via di fuga dalle contraddizioni 54

.

In definitiva l’elemento che, ancora una volta, colpì duramente l’oralità fu il principio del libero convincimento del giudice, troppo spesso utilizzato per recuperare, ai fini della decisione, le fonti di prova acquisite in modo irrituale, come ad esempio l’acquisizione dei verbali istruttori al giudizio.

Sul codice del 1865, come già accennato, si abbatté un fiume di critiche, soprattutto dalla dottrina 55, sin dai suoi primi anni di età anche perché il sistema

53 V. P.FERRUA, Oralità, p.140: “La portata della norma poteva, tramite un’interpretazione

logica, essere estesa sino a consentire la lettura delle dichiarazioni scritte per colmare lacune manifestatesi con la deposizione orale, risolvendosi queste pur sempre cangiamenti o variazioni; ma non al punto di indurre il teste ad assolvere l’obbligo di deporre in pubblica udienza con una sbrigativa e psicologicamente forzata conferma dei verbali istruttori…”

54 In merito il ministro Finocchiaro-Aprile, dominus del codice di procedura penale del 1913,

affermò che: “se la legge proclamava ad alta voce la necessità della prova orale, la prassi

giurisprudenziale la riduceva ad una formale sfilata di testimoni innanzi al giudice, con nessun altro ufficio che quello di confermare, spesso senza neppure ripetere, qualche volta senza neppure comprendere, la deposizione già fatta, che non passa nell’atto scritto con quella stessa naturalezza con la quale viene resa”, Cfr. P.FERRUA, Oralità, p.141

55

Oltre a F.CARRARA, si pensi a L.LUCCHINI che, drasticamente, afferma: “Ormai lo sanno

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processuale appariva irrispettoso dei diritti individuali ed inefficace nella tutela della difesa sociale 56: infatti, per quanto non sprovvisto di un dibattimento pubblico ed orale, il primo codice italiano rimaneva, comunque, sbilanciato in favore di una fase istruttoria allergica al contraddittorio.

Il codice era nato vecchio57, cosa che allontanava l’Italia dalla maggior parte degli altri paesi europei che erano riusciti a rinnovarsi, anche dal punto di vista legislativo, in proporzione ai progressi del tempo, dotandosi, il più delle volte, di valide forme di contraddittorio anche nel primo stadio del procedimento; inoltre si innestò un’antitesi di scuole 58

che, per quanto si concentrasse principalmente sul diritto penale sostanziale, ebbe importanti ripercussioni anche sul piano processuale: da una parte si schieravano i c.d. “positivisti”, capeggiati da Cesare Lombroso, i quali, influenzati da presunte tecniche scientifiche, rifiutavano la distinzione tra sistema inquisitorio ed accusatorio, sostenendo che si potesse arrivare all’accertamento della colpevolezza tramite lo studio della fisionomia del cranio e di altre caratteristiche fisiche dell’accusato.

Tale corrente di pensiero paventava continui ritardi nei processi a causa delle garanzie individuali e dell’oralità, considerata superflua ed arretrata, al contrario della documentazione scritta, indispensabile per la clinica criminale 59; in tale quadro non sorprende che, ai loro occhi, il codice del 1865 avesse solo bisogno di un ulteriore rafforzamento della logica inquisitoria.

illogico, di più inefficace si possa immaginare”, in I semplicisti (antropologi, psicologi e sociologi) del diritto penale, Torino, 1886, p.254

56 P.FERRUA, Oralità, cit., p.145 57 Così F.CORDERO in Guida, cit. p.94 58

M.CHIAVARIO, Il diritto processuale italiano ed i suoi quattro codici, cit., p.152

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Dall’altra parte, invece, si schieravano personalità come Francesco Carrara e Luigi Lucchini, esponenti della c.d. scuola classica che criticavano aspramente la segretezza delle indagini istruttorie che, con troppa facilità, filtravano nel dibattimento compromettendo oralità e contraddittorio.

I fautori del sistema accusatorio si dividevano, a loro volta, tra coloro che sostenevano la necessità di una rigorosa osservanza dell’oralità, spingendo verso la totale soppressione della fase istruttoria, come fase autonoma del processo. Essa doveva essere sostituita da una semplice inchiesta preliminare di parte, irrilevante ai fini della decisione, che conducesse all’esercizio dell’azione penale. Poi c’erano coloro che, pur sottolineando l’importanza dell’elemento orale nel processo, non ne contestavano il dualismo tra fase istruttoria e dibattimentale, sollecitando l’attuazione del contraddittorio anche nella fase istruttoria, cosa che avrebbe offerto una più solida base ai dibattimenti, specie di Corte d’assise, rendendoli, altresì, più celeri ed efficaci.

In questo scenario si aveva la sensazione che il codice del 1865 avesse carattere provvisorio anche a causa del mancato coordinamento tra la normativa processuale penale e quella sostanziale, in parte spiegabile con la mancata abolizione, per oltre vent’anni, della pena di morte 60

; nonostante questo esso restò in vigore per quasi mezzo secolo.

Il primo impulso per l’approvazione di un nuovo codice di procedura penale derivò dall’unificazione della legislazione penale sostanziale, avvenuta nel 1889 con il codice Zanardelli, ma i lavori che ne conseguirono furono più volte interrotti dal sopravvenire di crisi ministeriali fino al 1898 quando, l’allora

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M.CHIAVARIO, Il diritto processuale italiano e i suoi quattro codici…, cit., p.153: solo la Toscana, al momento della promulgazione del codice del 1865, aveva già abolito la pena di morte

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ministro della difesa, Finocchiaro-Aprile nominò una commissione che modificasse il codice di procedura penale del 1865.

La commissione ministeriale, non senza qualche difficoltà, raggiunse l’accordo sulla struttura mista del processo, fissandosi il duplice obiettivo di ridurre o quanto meno alleggerire il carattere rigidamente segreto della fase istruttoria e di tutelare maggiormente l’oralità, potenziando l’iniziativa di parte nell’escussione dibattimentale.

Sul primo punto la commissione fissò dei criteri affinché si distinguessero il c.d. processo informativo, affidato alla polizia giudiziaria sotto il controllo del pubblico ministero, dal processo istruttorio di competenza dell’organo giurisdizionale: sotto questo aspetto, un’iniziativa importante fu l’introduzione del principio della par condicio tra accusa e difesa anche durante la fase istruttoria, in totale controtendenza rispetto ai dettami del codice del 1865.

Per quanto riguarda l’oralità, la commissione, oltre a limitare i casi nei quali si poteva ricorrere alla lettura delle deposizioni dei testimoni, delineò alcuni criteri che assicurassero un più corretto rapporto tra le parti ed il giudice per l’escussione dibattimentale come, ad esempio, l’approvazione del principio secondo il quale i testimoni ed i periti fossero esaminati direttamente dalle parti e non, come accadeva in precedenza, con l’intermediazione del presidente del collegio, già peraltro influenzato dalla lettura del fascicolo istruttorio.

I criteri elaborati dalla commissione furono sottoposti, nel 1900, all’esame di