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Socrate nel Fedone parla della morte, in occasione dell’imminenza della propria e cerca di convincere i suoi compagni di non aver ragioni di esserne tristi. 185La morte infatti, dice, è proprio lo stato di immutabilità a cui aspira il filosofo nelle sue ricerche, poiché quest’ultimo vuole la libertà dell’anima dal corpo e questo altro non significa se non morire. Platone dunque, per voce di Socrate, associa la filosofia alla morte e l’attività di ricerca filosofica allo slegarsi dell’anima dal corpo come liberazione. Essa, allontanandosi dalle cose corporee, mondane, si avvicina agli oggetti eterni. Platone è piuttosto esplicito, così recita la traduzione di Giovanni Giolo: “C’è il rischio che

183 Ivi, p 27- 28.

184 Platone, Fedone in Apologia, Simposio, Fedone, trad. it. p. 239-240. 185

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coloro che praticano correttamente la filosofia non facciano capire agli altri che la loro autentica occupazione è quella di esercitarsi al morire o all’essere morti”186

La morte, come abbiamo visto, consiste nel distacco dell’anima dal corpo, attraverso il quale l’anima, assume la propria autonomia dal mondo materiale:

Distacco dell’anima dal corpo, che altro? E non è questo lo stato della morte, vale a dire il corpo che, staccatosi dall’anima, se ne sta da solo presso di sé e l’anima, a sua volta, separata dal corpo, se ne sta da sola presso di sé? Non è vero che la morte è proprio questo?187

L’esigenza che l’anima si allontani dal corpo è un’esigenza legata alla ricerca di verità, infatti, quest’ultima risiede lontana dalle cose del mondo mutevole e corruttibile, essa appartiene al mondo delle idee eterne e immutabili. Il corpo inganna l’anima nella sua ricerca di verità, poiché esso assilla l’essere umano con i suoi bisogni e i suoi limiti terreni e spinge verso ciò che è mutevole e precario.188

Ecco perché il filosofo nutre il “massimo disprezzo del corpo”189

e cerca di purificare l’anima dai bisogni materiali, allontanandola il più possibile dal corporeo. Di conseguenza, questo modo di coltivare l’anima, la allontana dalla vita stessa, o almeno quella mondana, poiché questa è legata al corpo e dipende da condizioni materiali e da processi biologici. Tutto ciò che sostiene e nutre la vita è fuggevole e di breve durata.

Come sostiene Hannah Arendt, tra le cose del mondo, le meno durevoli sono proprio quelle che servono a sostenere il processo vitale. Quest’ultimo logora le cose, le fa scomparire: tutto ciò che riguarda la vita è caduco.190 Il lavoro umano finalizzato al mantenimento della vita deve rispondere ai bisogni del corpo, deve sottostare alle necessità materiali, è legato al condizionamento della carne. Per questo a svolgere tali attività presso gli antichi erano gli schiavi; libero era colui che poteva occuparsi delle attività pubbliche o, secondo i filosofi, colui che, destinava la propria vita all’attività contemplativa e alla ricerca della verità. La libertà e la verità sono dunque da essi associate alla morte, quanto l’inganno e la necessità alla vita.

In questa distinzione tra il lavoro come attività necessaria e legata al processo biologico vitale e l’attività politica come libera, ritorna la separazione tra sfera domestica e sfera pubblica: la prima legata alle necessità del corpo, luogo della riproduzione e la seconda legata alla realizzazione piena

186

Ivi p. 197. 187 Ivi, p. 198.

188 M. Foucault , L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, trad. it., p.93. 189 Platone, Fedone in Apologia, Simposio, Fedone, trad. it., p. 200. 190

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dell’essere umano in quanto razionale e libero. Coloro che venivano impiegati per svolgere i lavori utili alla sussistenza della vita, in quanto impossibilitati a raggiungere la sfera della libertà e delle attività pubbliche, non venivano considerati propriamente umani, la loro natura era più vicina a quella animale, appartenevano ad una specie animale superiore, ma pur sempre animale. Umano era l’uomo libero, il cittadino maschio e adulto.191

Non solo gli schiavi venivano esclusi dalla seconda dimensione di esistenza, quella che determinava i criteri della definizione dell’umano, ma, anche le donne. Infatti, la nostra Penelope vive la propria intera vita nelle sue stanze a tessere con le ancelle, mentre Ulisse, eroe epico, viaggia alla scoperta del mondo.

Se il corpo rende schiavi, dunque, il filosofo deve esercitarsi a slegare l’anima dal corpo, in altre parole, deve allenarsi a morire dominando sul corpo e rendendosi indipendente da esso. In questo modo l’anima, che per natura appartiene alle cose immutabili, può preservarsi in quanto tale e sopravvivere alla morte del corpo permanendo nella sua integrità originaria. La vita contemplativa è una preparazione alla morte, in quanto consiste nel proteggere l’anima dalla corruzione del mondo materiale e dal processo biologico del morire:

se l’anima si distacca pura, senza portare con sé nulla del corpo, perché durante la sua vita, essa, per ciò che dipendeva da lei, non ha avuto nulla da spartire con il corpo, ma anzi lo ha fuggito ed è rimasta raccolta in se stessa, mantenendo costantemente questa condotta (e questo è proprio dedicarsi alla filosofia e prepararsi serenamente a morire) allora questo modo di comportarsi non è forse una preparazione alla morte? 192

Prepararsi alla morte e a vivere una condizione in vita che è simile alla morte, significa allo stesso tempo imparare ad essere immortali. Le cose muoiono nel corso del processo vitale. È nella vita che vi sono i due fenomeni della comparsa e della scomparsa dall’apparire, come dice Arendt: la nascita e la morte sono due momenti che caratterizzano l’inizio e la fine della vita dell’individuo, quella inserita in un percorso lineare e unidirezionale. La nascita e la morte sono l’apparire e lo scomparire dell’individuo.193

Ebbene questa morte, legata al processo vitale degli individui e dei loro corpi, viene concepita come scomparsa definitiva, la morte intesa come condizione in cui l’anima si stacca dal corpo e diviene indipendente e libera, in altre parole “pura”, è invece l’immortalità. L’anima è divina, immutabile e immortale e bisogna averne cura come a qualcosa che non appartiene per natura alle cose corporee, ma divine, eterne. Infatti, paradossalmente, il corpo, sostiene Platone, è vivo quando animato, ovvero, quando dotato di anima. Quest’ultima è portatrice di vita, è colei che fa vivere la

191 Ivi, p. 18-61.

192 Platone, Fedone in Apologia, Simposio, Fedone, trad. it. p. 233. 193

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carne, essa dunque, non può accogliere la morte, pertanto è immortale. In quanto principio vitale, l’anima per essenza non può morire.194

Dunque se l’anima si stacca dal corpo, si vive, certo, una sorte di morte, ma non quella dell’anima medesima, poiché essa è immortale, ma quella del corpo. Coltivare l’anima, significa disprezzare la carne al punto di consegnarla alla morte, sottraendola all’anima che deve risultare da questa divisione integra e pura, ci dice Platone.

Proprio questo non riesce a fare l’astuta Penelope, lei che tesse di giorno e disfa la notte, rifiuta di separare anima e corpo in modo definitivo, li scoglie per poi riunirli. Cavarero, nella metafora utilizzata da Platone attraverso la figura di Penelope, coglie l’occasione per parlare di una possibile alleanza di corpo e mente di cui la tessitrice si fa simbolo. Come abbiamo visto, in Penelope, la

metis si radica in un’esperienza di ordine pratico e si manifesta grazie ad una abilità manuale.

L’intelligenza di Penelope, innanzitutto, non è votata alla morte, ma alla vita, poiché le attività in cui la mette in atto sono quelle domestiche della cura: non dimentichiamo che ciò che le permette di escogitare l’inganno della tela è il bisogno di tessere il sudario di Laerte. In secondo luogo, la sua intelligenza, come vedremo successivamente in modo più approfondito, non produce cose immortali e immutabili, ma, evidenzia Cavarero, si attua nella ripetitività di un gesto, nella reiterazione che rimette in piedi la stessa situazione riproducendola di volta in volta, con un movimento fisico e la trama dell’ingegnoso inganno.195

Non spalanca un tempo di cose immobili e durature, l’esangue tempo del pensiero, ma tesse un tempo di ripetizione cadenzata dove l’opera delle mani, giorno per giorno invera la metis: il suo effetto di scacco rispetto alla situazione e il suo guadagno di un luogo di significazione propria rispetto alla tessitrice. Perché nella metis di Penelope non c’è l’eterno che per sempre rassicura, ma piuttosto una ripetizione che rischia il suo durare nell’attenzione di ogni gesto, nello sguardo complice di ogni ancella.196

Cavarero sottolinea un elemento apparentemente secondario: in Platone, l’assurdo per il filosofo è di ricucire quanto è stato separato, ovvero l’anima dal corpo, al contrario, per Penelope assurdo è disfare di notte quanto ha tessuto durante il giorno. Infatti, sostiene la filosofa, il compito di Penelope, è di tessere, in questo consiste la sua grande abilità, non il disfare197. Quest’ultimo è dovuto ad una situazione contingente, è uno stratagemma che la donna utilizza per trasformare una situazione da sfavorevole a favorevole.198 Dunque Penelope tesse, ci dice Cavarero e nella logica inversa di Platone, questo tessere assume un carattere negativo, poiché consiste nel rilegare anima e corpo. Se lei fosse un filosofo, si dedicherebbe solamente al disfacimento, alle disgiunzioni e alle separazioni, ma poiché è una donna tesse e se disfa è solo a causa di una situazione particolare e

194

Platone, Fedone in Apologia, Simposio, Fedone, trad. it. p. 285.

195 A. Cavarero, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica. ,op. cit., p. 28. 196 Ivi, p. 28.

197 Ivi, p 31-32. 198

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grazie alla sua singolare astuzia, con cui peraltro viola i confini di genere e non adempie il suo compito di madre e moglie.

Il filosofo scinde l’interezza del singolo, in corpo e parte intelligente dell’anima, il nous. Le due componenti hanno natura e origini assolutamente differenti e la loro unione è temporanea, consiste soltanto nella vita dell’individuo, destinata a perire. Tale unione, che ha origine nella nascita, è per l’anima il frutto di una caduta, che la costringe ad una prigione199

. Nascere è dunque un evento negativo, il quale corrompe con la mortale carne, ciò che per natura è divino e immortale, l’anima noetica, distraendola dall’attività contemplativa, quella che le spetta massimamente e che determina le virtù umane.200

La filosofia è affine alla morte, dice Cavarero, essa sottrae la morte dalla vita, astraendole una dall’altra e facendo della nascita la prima tappa del processo del morire. La vita dell’anima si distingue in un certo senso da quella del corpo, poiché questa altro non sarebbe che il processo del morire, mentre quella viene elevata all’immortalità: il principio di vita risiede nell’anima e laddove è presente, è assente la morte. Ecco perché, proprio venendo in vita, il corpo si dirige verso la morte e proprio giungendo alla morte esso libera l’anima alla vita immortale che le spetta. Esistono quindi due modalità di vita, entrambe connesse alla morte in modo diverso: la prima è quella dell’anima, che non ha inizio, né fine, ma che dura eternamente. Questa è la vita vera, l’altra è quella del corpo, caduca, legata alla nascita e alla morte.201 La prima è connessa alla morte in quanto si raggiunge con la morte della carne, l’altra perché consiste in un lento morire. La nascita dunque è imprigionamento, è l’entrata in una situazione di condizionatezza carnale, in cui l’anima anima il corpo, che altrimenti sarebbe morto, come suo principio di vita, ma perde la propria integrità, mentre la morte è l’apertura della vera vita, è liberazione dell’anima dalle necessità materiali. Per natura l’anima è vita eterna, essa assume i caratteri della caducità e della mutevolezza soltanto in quanto entra, o meglio cade nel corpo, che diventa, da questo punto di vista, il principio di morte, in quanto è ciò che rende mortale. La morte appartiene al corpo e se moriamo è solo a causa del fatto che siamo nati. Bisogna morire, sembra dire Platone, per poter vivere eternamente.

Nella metafisica platonica, sostiene Arendt, si verifica un’inversione tra condizione di vita e di morte, o detto con parole sue un “rovesciamento dell’ordine del mondo omerico”202 che sposta il principio vitale dal corpo all’anima e che segnerà tutto il pensiero occidentale e le sue gerarchie

199

Platone, Fedone in Apologia, Simposio, Fedone, trad. it. p. 237 e A. Cavarero, Nonostante Platone. Figure femminili

nella filosofia antica. , op. cit., p. 33.

200 A. Cavarero, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica. ,op. cit., p. 33. 201 Ivi, p. 34.

202

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riguardanti le attività umane: la contemplazione, infatti, diventerà l’attività superiore a tutte le altre, in quanto condizione di morte sulla terra che spalanca le porte all’eternità ultraterrena. Con le seguenti parole, la pensatrice descrive il significato che lei coglie nel mito della caverna di Platone:

Non la vita dopo la morte, come nell’Ade di Omero, ma la vita ordinaria sulla terra, è localizzata in una “caverna”, in un mondo sotterraneo; non è l’anima l’ombra del corpo, ma il corpo l’ombra dell’anima; e il movimento privo di sensibilità, attribuito da Omero all’esistenza senza vita dell’anima dopo la morte, è attribuito all’affaccendarsi insensibile degli uomini che non lasciano la caverna dell’esistenza umana per contemplare le idee eterne visibili nel cielo.203

Ecco perché dal punto di vista di Platone, è più assurdo che Penelope ritessa ciò che ha disfatto, piuttosto che disfi ciò che ha tessuto: la sua logica è inversa a quella omerica. D’altra parte, Penelope è donna e tessitrice e non può fare l’esperienza del filosofo, il suo ruolo è quello di occuparsi dei corpi, non delle anime e tuttavia il corpo di Penelope non è separato dalle facoltà del pensiero. Quest’ultimo, al contrario, viene ricondotto alle cose terrene e reintegrato con il corpo, o forse da questi per lei non si era mai separato. Penelope, avanza Cavarero, mantiene vivo il legame tra ciò che la filosofia cerca di dividere:

Ella tiene unito ed intricato ciò che la filosofia separa, riconducendo a questa vita, segnata da nascita e morte, il pensare. Tiene unito ed intricato il mondo della vita umana come l’unico mondo reale, lasciando che i filosofi persistano nel loro voler abitare il sopramondo.204

Come abbiamo precedentemente visto infatti, Penelope, non solo tesse e disfa, ma questo suo operare è frutto di un’intelligenza pratica, capace di mettere in atto un’abilità tecnica, manuale. Penelope pensa, ma non contempla come Socrate e Platone vorrebbero, poiché il suo ragionare è contestualizzato, mai alienato dal mondo dell’esperienza concreta, anzi, esso è totalmente radicato in questa e si esprime sempre in contesto materiale.