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Il nulla, dunque, venendo ad essere restituito alla parzialità del singolo umano che vive, scrive Cavarero, è nuovamente inscritto nella “vita infinita e vibrante” del mondo, la quale “rimane invece un luogo, intoccato dal nulla”418. La metamorfosi inarrestabile della vita, lo vince e si fa lo sfondo in cui esso non ha luogo. Poiché né prima né dopo l’inizio della vita dell’individuo, c’è il nulla, ma ancora vita, c’è una vita che inizia l’inizio, che a sua volta è stata iniziata al mondo e quella che innumerevoli volte si è incarnata nelle singolari esistenze.

Cavarero sostiene che la memoria che dimora nella carne, riporta alle sequenze infinite di madri, sino al ricordo del pre-umano, e così facendo fa dell’animale simbolo del femminile e quest’ultimo del divino.419 Potremmo aggiungere che attraverso questo rimembrare, il corpo stesso diventa simbolo del divino, della vita dai quali è stato separato.

L’adesione immediata ed incosciente ad una vita, che non è saputa e che non sa, rappresenta il valore simbolico più evidente del legame che unisce le madri e i nati, attraverso la vita della carne. Solo questo potrebbe forse conciliare, come avviene negli animali, in modo indolore l’esistenza individuale e la vita infinita. Tuttavia, non possiamo ignorare il fatto che tale incoscienza nell’uomo non si dà e semmai vi sia stato un distinguibile momento originario in cui a l’umano è toccata tale felice incoscienza, quell’attimo non può certo ritornare ora. Il problema sembra privo di soluzione. Eppure forse la vita stessa, avanza Cavarero, “divinità che splendidamente non sa né di sé né di altri” nel luogo in cui “le tocca di sapere, forse allora pretende che quel suo originario splendore, trovi nel discorso delle figlie nomi (ri) conoscenti”.420

In merito a questa questione, Muraro si appella alla metafora del “cerchio di carne”, con cui intitola uno dei capitoli de L’ordine simbolico della madre. In questo capitolo, Muraro tematizza il problema del senso dell’essere, il quale per non annichilirsi e cadere nel nulla, invoca il pensiero. La filosofa ritiene che tale dimensione di pensiero, in cui si costituisce il senso, si chiami metafisica, finendo per conferire un significato più ampio a quest’ultima rispetto a Cavarero, che rimane piuttosto fedele ad Arendt nel ritenere che la metafisica sia il pensiero inaugurato dalla filosofia classica e che pone un punto di vista esterno a quello terreno, in seguito alla separazione

417 Ivi, p. 124. 418 Ivi, p. 121. 419 Ivi, p. 124. 420 Ivi, p. 125.

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tra il mondo concreto e quello ideale. Secondo Muraro, questa sarebbe una forma di metafisica, responsabile di aver lasciato insensato e abbandonato al non-essere una parte di essere che ha bisogno di senso per rientrare nella sfera della dicibilità. A questo pensiero è necessario opporre un altro pensiero metafisico capace di ricostruire questo senso e di far essere l’essere. Per questo motivo, sottolinea la filosofa: “C’è un problema del senso dell’essere che non si risolve con il mero attaccamento alla madre e alla vita che ci ha dato.” E aggiunge: “È necessario il pensiero perché il presente ci sia presente, è necessario di-mostrare l’esperienza e far essere l’essere”.421 Secondo lei, solo quando nella parola si esprime il senso della coincidenza tra logico e fattuale, l’essere vero riflette il senso dell’essere.422 In altre parole, perché esperienza e godimento mantengano il loro valore e possano assumere significato, esse devono essere mediate e dunque pensate, istituendo un rapporto circolare e medianico tra empiria e pensiero. In questo rapporto non vi è mai identità completa, poiché ciò comporterebbe la rigidità dei confini del reale, inoltre la mediazione non è mai indipendente dall’immediato e quest’ultimo non è ridotto a mero scarto del pensiero, ma agisce sempre in esso. Tale mediazione circolare comprende la convivenza di anima e corpo in un essere intero e dotato di senso. La dicibilità del vero, dunque, in quanto radicata nel corporeo, non è mai slacciata dal contesto, poiché essa si forma così come le persone nascono e imparano a parlare, ovvero a partire dalla prospettiva creatrice costituita da madre e figlio o figlia e dentro il cerchio che il rapporto tra corpo e parola disegna.423

Uno dei nomi, direbbe Cavarero, con cui chiamare l’essere, almeno quello che definisce l’umano, è unicità, un altro è pluralità. Ciascun umano viene, infatti, ad essere unico, all’interno di una dimensione mondana che per costituzione è plurale: “Non l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra”.424

Unicità, non viene qui evocata a caso, ma proprio perché essa emerge solamente in una vita incarnata in un corpo unico che dalla natalità intraprende la sua singolare storia, inaugurando un’altra irripetibile esistenza, radicata nel mondo. Proprio in quanto intesa in termini corporei è “l’unicità che caratterizza lo statuto ontologico degli esseri umani”, inoltre essa viene manifestata anche in un orizzonte in cui ciascuno si espone agli altri, si mostra nell’orizzonte politico dell’apparire, rivolgendosi inevitabilmente allo sguardo altrui: “apparire significa sempre parere agli altri”.425

Per gli uomini questo non avviene solamente perché si appare in termini passivi, al modo degli oggetti (avviene anche in questo senso), ma costoro sono mossi da un vero e proprio impulso espositivo:

421

L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, op. cit. p. 74. 422 Ivi, p. 75.

423 Ivi, p. 76-83.

424 H. Arendt, La vita della mente, trad. it., p. 99. 425

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Essere vivi significa essere posseduti da un impulso all’autoesibizione che corrisponde in ognuno al dato di fatto del proprio apparire. Gli esseri viventi fanno la loro apparizione come attori su una scena allestita per loro426

La condizione mondana dunque, che corrisponde sempre ad una esistenza incarnata in un corpo, se da un lato ci definisce unici, dall’altro e per la stessa ragione, ci consegna all’esposizione all’altro e dunque alla relazione con lui. L’ontologia umana dell’unicità è di conseguenza anche quella della pluralità427.

Adriana Cavarero, prende ad esempio il mito di Eco e della sua metamorfosi per esprimere l’importanza della corporeità nell’espressione di quell’unicità che è indispensabile per instaurare un dialogo. In questo caso, del corpo, viene presa particolarmente in considerazione l’espressione vocale che gli è propria, in quanto voce che solo dalle sue corde vocali può uscire. Eco, la ninfa loquace, si rende colpevole di aver distratto Giunone chiacchierando, mentre le altre ninfe seducono Giove. La dea si vendica condannando la ninfa a ripetere per l’eternità le parole degli altri, rinviando loro l’ultima parte delle loro frasi. In questa ripetizione, la ninfa, non può naturalmente interloquire, perché impossibilitata a prendere l’iniziativa per rispondere con discorsi propri, né può iniziare una conversazione.

L’incontro con Narciso decreta definitivamente la sua triste fine. La ninfa vedendo la bellezza di costui se ne innamora, ma quando lui, invitandola ad avvicinarsi dice “Qui riuniamoci”, lei risponde con un compromettente e apparentemente sfacciato “uniamoci”428

. Narciso la fraintende (sarebbe meglio dire che si fraintende) e scandalizzato rifiuta con sdegno la proposta così come il suo avventato abbraccio. D’altronde egli è capace di amare solo se stesso. Forse proprio per questo non ha capito che a rispondergli non è stata Eco, ma che quell’”uniamoci” arrivava da se medesimo. Egli aveva il compito di semantizzare i suoni che Eco emetteva, perché solo così lei avrebbe potuto rivocalizzare il logos, con la sua voce incapace di dare significato da sola. Invece, il giovane ha dialogato con se stesso, non riconoscendo nella voce dell’altra i propri discorsi, fraintendendo le proprie parole e scambiando per dialogo ciò che in realtà non è stato che un monologo. Tipico di Narciso.

426 Ivi, p. 101.

427 L’ontologia della pluralità, non ha nulla a che fare, come chiarisce Cavarero, con il tema del pluralismo come molteplicità delle identità comunitarie. (ivi, p. 209)

428 Cavarero si rifà alla traduzione delle Metamorfosi di Ovidio, di P. Bernadini Marzolla dell’edizione Einaudi, Torino, 1994. Nella traduzione del volume precedentemente citato, curato da N. Scivoletto, lei risponde “riuniamoci”, ma il senso ottenuto non cambia. Tuttavia ho preferito adottare la traduzione della parola proposta da Cavarero, poiché più incisiva.

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Eco, in seguito al rifiuto del suo amato, deperisce fisicamente, sino a che del suo corpo non rimangono che impersonali pietre, sassi, rupi.429 Disincarnata la ninfa diventa eco. La voce con cui lei rimanda alle persone le parole da loro proferite, non è più la sua, ma diventa “pura voce di risonanza senza corpo. Senza più bocca, né ugola, né saliva, senza più sembianza umana, la bella ninfa si sublima in una mineralizzazione del vocalico.”430

Se prima, la sua voce singolare aveva confuso Narciso, facendogli credere che lei gli avesse risposto di sua iniziativa, ora questo non si ripeterà più, perché privata del corpo, Eco si è annichilita in un impersonale suono palleggiato dal rimbombo.

La nientificazione del corpo è così la dissoluzione definitiva di una unicità che, in quanto eco, la voce di Eco non possiede. La voce di Eco non è infatti la sua voce, non possiede un timbro inconfondibile, non segnala una persona unica. In ottemperanza al fenomeno fisico dell’eco, essa ripete anche il timbro della voce altrui.431

Cavarero si propone di riabilitare la funzione positiva di Eco, nella ricostruzione del legame tra

logos e suono vocale. Eco, in questa prospettiva, appare come colei che regala il godimento della

ripetizione vocalica, diventando il ritmo sonoro dei discorsi, ovvero ciò che gli conferisce musicalità e attribuendo di nuovo potenza alla voce che sempre si espande nel logos.432 Ciò

consente non solo di ristabilire l’unicità espressa dal vocalico, ma di ricongiungere nuovamente quest’ultimo al semantico.

Voce, ricorda la filosofa, deriva dal latino vox, e il primo significato vocare, verbo che con questo sostantivo condivide la radice, è invocare, dunque anche l’etimologia della parola rivela l’intrinseca facoltà della voce di mettere in relazione. Ogni voce è per un orecchio ed espone all’altro, inoltre, richiama la sua presenza, appellandosi a lui. Se la voce è invocazione, la sua iniziale espressione, la sua prima convocazione ha luogo nel momento della nascita, come invito all’ascolto e alla cura, come richiesta di accoglienza al mondo che già c’è. Il primo dialogo inoltre è propriamente vocale, in esso la relazione è una danza tra voci che si chiamano e si rispondono, che si invitano a partecipare a turno al primo discorso musicale. Nel legame primitivo che si costituisce per via sonora risiede la comunicazione primaria e la condizione fondamentale di ogni possibilità di comunicare.

Ogni dialogo è possibile ed ha luogo solamente nella materializzazione fisica, nella presenza carnale. Nella vita imprescindibile del vivente soltanto è possibile comunicare e ciò avviene

429 Ovidio, Metamorfosi, a cura di N. Scivoletto, De Adgostini, Novara, 2013, vv 339-510. 430 A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, op. cit., p. 182.

431 Ivi, p. 183. 432

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innanzitutto e primariamente attraverso la voce, il cui stretto legame con la vita è testimoniato dal fatto che il primo vagito è sostenuto dal primo respiro, ed esso garantisce che il nuovo arrivato vive. Voce e nascita sono entrambe manifestazioni dell’unicità di ciascuno, attraverso le quali ogni umano si espone all’altro e al mondo.

Sin dalla scena materna, la voce manifesta l’esser unico di ogni essere umano e il suo spontaneo comunicarsi secondo i ritmi di una relazione sonora. In questo senso, l’orizzonte ontologico dischiuso dalla voce, ovvero quella che vogliamo chiamare l’ontologia vocalica dell’unicità, si oppone in modo perentorio alle varie ontologie degli enti fittizi che la tradizione filosofica nel corso del suo sviluppo storico, nomina via via come “uomo”, “soggetto”, “individuo” Ciò che li accomuna è sintomaticamente il progetto di prescindere dall’unicità (nel lessico metafisico si potrebbe piuttosto dire dalla particolarità e dalla finitezza) di quegli esseri umani di cui sarebbero forma universale.433

La tradizione metafisica contrappone il pensiero e il soggetto universale che pensa, al singolo vivente che parla, per salvare l’umano dalla caducità e dalla finitezza. Se in questo percorso di salvezza e preservazione di quanto dell’uomo è supposto immortale la voce viene negata, è perché questa si radica nel corpo, il quale appartiene al mondo e al processo diveniente in cui le cose periscono.

Il pensare, contrapposto all’azione e al parlare, viene inoltre associato alla visione. L’importanza del vedere, come spiega Arendt in Tra passato e futuro, emerge prepotentemente nel mito della caverna di Platone, in cui risulta essere l’attività principale degli uomini434

. Ciascuno viene misurato e qualificato dalla sua capacità di vedere, perché essa, in modo particolare, definisce la loro umanità. Detto altrimenti, tali sono gli uomini perché vedono e la loro natura divina permette loro di accedere alla verità attraverso la vista. Tuttavia il vero essere che risplende alla luce del sole fuori dalla caverna, viene visto dal filosofo non attraverso gli occhi del corpo, ma attraverso quelli dell’anima, che sono pensiero, poiché l’uscita dalla caverna segna anche il passaggio dalla dimensione materiale mondana percepita dai sensi della carne a quella delle immateriali essenze contemplate spiritualmente435.

Se lo sguardo, impone la presa di distanza e non implica necessariamente la reciprocità della relazione, la voce, al contrario, è “sempre e irrimediabilmente relazionale” e anche quando non ne ha l’intenzione “vibra nell’aria colpendo l’orecchio altrui”436

. Secondo Cavarero, la voce diventa, in questo senso, un elemento decisivo per una strategia antimetafisica, valida per fondare un’ontologia dell’unicità. Ridefinire il logos come parola musicale, infatti, significa anche ricondurlo alla

433

Ivi, p. 189.

434 H. Arendt, Tra passato e futuro, p. 68 e 158-9.

435 A. Cavarero, Note arendtiane sulla caverna di Platone in Hannah Arendt, a cura di S. Forti, Mondadori, Milano, 1999, p. 207.

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concretezza dell’esistenza umana, in cui esso risuona nella pluralità di voci uniche e tra loro relazionate.

Non si tratta, secondo la prospettiva offerta da Cavarero, di recuperare la voce come puro suono, ovvero tale e quale l’ha resa il pensiero metafisico, in quanto residuo dell’umano, abbandonato all’immediatezza empirica privata di significato, ma di ritessere come fa Penelope ciò che è stato disfatto. Ciò che dovrebbe essere recuperata è infatti l’interezza dell’esistenza umana che può esprimersi nella parola sonora, riscoprendo la voce nell’ambito del discorso, radicando il logos nel corpo. Fra voce e parola, sussiste un legame essenziale, che è lo stesso che fa si che l’anima esista nell’incarnazione in un corpo. Questo legame, secondo Cavarero, è rappresentato in modo speciale dalla figura della madre, poiché lei è sia voce sia parola, e si presta per prima a comunicare a partire dal suono delle sue corde vocali, trasmettendo il senso originario non solo della voce, ma anche della parola.

La parola, nella sua essenzialità acustica, ha appunto come il cuore un’anima ritmica. Il che significa che fra voce e parola, fra la corporeità ritmata del vocalico e l’espressività del dire, c’è un legame intrinseco e sostanziale. La figura materna è precisamente il tramite che, nella vita di ognuno, incarna questo legame per cui, per così dire, in nome del padre reagisce il logocentrismo metafisico. Ella è voce e parola, o meglio, è il senso originario della voce in quanto destinato a farsi senso essenziale della parola.437

Non esiste lingua senza musica, ricorda Cavarero, ogni lingua ha degli accenti, delle cadenze speciali che contribuiscono alla costituzione di senso dei discorsi. Il senso del vocalico rende possibile e condiziona il logos stesso. La voce, dunque, non può essere ridotta alla funzione di uno strumento, che veicola il significato già concluso nell’astrattezza della parola non detta, nei significati ideali delle parole pensate, al contrario, nella musicalità medesima, risiede un senso. Se così non fosse, il vagito del neonato si ridurrebbe alla manifestazione di un bisogno biologico. La sua posizione di dipendenza, inoltre, che, per quanto in lui sia estrema, non risiede solo nella fragilità dell’infante, ma anche nella condizione umana di esposizione costitutiva all’altro, verrebbe in seguito oscurata in nome dell’emancipazione del soggetto.438

La comunità politica moderna, dimentica della primaria condizione umana e della relazione con la madre, denuncia Cavarero, si basa sull’esistenza di un soggetto pensato come autosufficiente e libero, sottratto alla dimensione relazionale che invece ne evidenzierebbe anche la costitutiva

437 A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, op. cit. p.196. 438

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dipendenza. Siffatto individuo non sarebbe vincolato agli altri costitutivamente, ma solo secondariamente, poiché per natura esso è concepito senza legami, competitivo e indipendente.439

Cavarero, al contrario, come Arendt, ritiene che la politica nasca tra gli uomini e che per questo non abbia nulla a che vedere con l’Uomo, ovvero con quel soggetto universale di cui si presume l’autosufficienza.440

Per sostenere questa tesi, si appella ad Arendt, la quale non solo mette in evidenza lo stretto legame che sussiste tra politica e linguaggio, ma soprattutto lo considera secondo una prospettiva diversa rispetto alla tradizione del pensiero politico. Parlare, sostiene Arendt, per definizione significa occupare la dimora della politica, non tanto perché nel linguaggio risiede la possibilità di esprimere significati inerenti alla sfera politica, ma poiché comunicare significa necessariamente istituire un legame con l’altro ed esporgli la propria unicità, convocandolo a fare lo stesso. La parola, e non la voce sola, qualifica la rivelazione di sé all’altro come politica, e tuttavia, tale parola è sempre costitutivamente sonora e solo in quanto tale è garante di unicità e la espone nel dialogo. Politica per Arendt, scrive Cavarero, è appunto quello spazio materiale, condiviso, in cui ciascuno si esibisce agli altri attraverso le azioni e i discorsi, esprimendo la propria capacità di iniziativa. Dunque se l’unicità si rivela già nell’apparire del corpo e nelle manifestazioni sonore della voce, essa assume valenza politica nel momento in cui prende forma in discorsi e azioni e in uno slancio consapevolmente esibitivo. Siffatta politica, secondo Cavarero, risponde al compito di dare forma alla condizione relazionale che si inscrive nella sfera ontologica propria dell’umano.441

Politica non è dunque la capacità di parlare del bene, del giusto e di tutto ciò che concerne la sfera politica in senso stretto, ma la parola che dà luogo all’“autorivelazione del chi”442. In questo senso ad avere valenza politica non è tanto il detto, ma piuttosto il dire, ovvero non solo la parola in sé, ma l’agire dei parlanti stessi che comunicano, esprimendo la propria irripetibile esistenza. L’iniziativa che si rivela nello mostrarsi anche attraverso la comunicazione, di cui Eco è stata privata, è altro sinonimo di azione politica, in quanto esprime una forma di libertà umana, che consiste nell’iniziare qualcosa, dando vita al nuovo, all’interno di un condizionamento dato. In un certo senso ogni iniziativa, ogni cominciamento che un individuo mette in atto a partire dal già esistente, è il riflesso della sua nascita. Infatti essa, che per ogni nato è l’inizio, per chi esiste già è iniziativa che dà alla luce il nuovo. La natalità è, dunque, condizione di ogni capacità di iniziativa, ed ha avuto luogo per iniziativa altrui. Inoltre essa coincide con il primo apparire della propria unicità al mondo e allo sguardo altrui ed è quindi, anche in questo senso, la condizione di ogni agire

439 Ivi, p. 202-3. 440 Ivi, p. 208. 441 Ivi, p. 205-6. 442 Ivi, p. 207.

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politico. Il segno inequivocabile della prima esposizione al mondo, la prima forma di invocazione rivolta all’attenzione altrui, è un pianto, di cui solo l’aspetto vocale emerge potentemente; solo la voce del bambino, di quell’appello, può essere ascoltata e dunque assumere significato. Qui il vocalico e il semantico sono ancora inseparabili e in questo luogo si radica la condizione di ogni forma di comunicazione e di politica.

La voce, dunque, che è espressione del corporeo, può assumere un ruolo di sovversione e