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Diotima di Mantinea è una sapiente sacerdotessa, una straniera che insegna a Socrate molte cose sull’amore, come egli stesso racconta nel Simposio di Platone. La donna, maestra del noto filosofo, riesce a condurre quest’ultimo al suo sapere, in modo tale che egli lo raggiunga percorrendo con lei ogni singolo passo e che lo comprenda pienamente. Il percorso che i due intraprendono assieme, secondo i seguenti insegnamenti di Socrate, è un percorso di allontanamento dalle cose caduche del mondo che, divenendo, oscillano tra l’essere e il non essere. La loro sapienza si rivolge alle cose eterne, non afflitte dalla mortalità e dalla finitezza delle cose mondane, ma che da sempre sono e per sempre rimarranno nella loro immutabile condizione.

Cavarero dedica a questa figura l’ultimo capitolo di Nonostante Platone, in cui nelle prime pagine, mette in risalto il fatto che Diotima, che è una donna e inoltre straniera, è ritenuta essere la maestra del suo maestro, ed è la sapiente per eccellenza di uno degli elementi centrali della dottrina platonica. Si tratta dell’ascesi conoscitiva della filosofia attraverso l’eros, che, spinta dal nobile desiderio rivolto alla bellezza nella sua più dignitosa veste di modello eterno, conduce alla contemplazione delle idee. Platone, scrive la filosofa, tratta nel Simposio di argomenti per lui fondamentali, attraverso la voce di una donna.

Il femminile, rileva Cavarero, non è centrale per la semplice presenza di Diotima come voce sapiente, ma anche per il ruolo della metafora della gravidanza e del parto: giungere alla conoscenza e formulare discorsi veri è simbolicamente associato al mettere al mondo. Socrate, allievo di Diotima, da lei ha appreso l’arte dell’insegnamento, che non consiste nell’indottrinamento o nell’introduzione di conoscenze nella mente dell’altro, come se essa fosse un contenitore da riempire, ma appunto in una forma di accompagnamento che ricorda molto l’arte delle levatrici: la

maieutica. In questo modo il maestro aiuta l’interlocutore a partorire conoscenze vere di cui la sua

anima è già gravida. In altre parole, oltre al fatto che la sapiente maestra di Socrate e Platone è una donna, il tema della maternità diventa simbolicamente importante, infatti, da un lato il filosofo è considerato come la madre del proprio sapere e dall’altra in quanto insegnante, deve imparare ad agire come una levatrice. La filosofia si appropria mimeticamente delle capacità riproduttive e di quei saperi, tutti femminili, legati all’esperienza del parto. Dunque conclude Cavarero:

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il filosofare di Socrate e di Platone appaiono contrassegnati da una volontà mimetica dell’esperienza femminile. Il maschio gravido e partoriente, così come il maschio che fa la levatrice, sono la figura emblematica della vera filosofia359

L’effetto mimetico è ampliato, scrive Cavarero, dal fatto che il discorso della donna, viene riportato da Socrate, il quale, per parlare dell’amore, decide di non trattare la questione direttamente, ma di riportare un suo dialogo con la maestra e di trasmettere gli insegnamenti di quest’ultima. Ciò avviene all’interno di un altro dialogo, quello tra filosofi ad un banchetto, inscenato dal Simposio. Platone dunque parla attraverso le parole che attribuisce a Socrate, il quale a sua volta si fa voce di un discorso di Diotima. Questo artificio, denuncia la filosofa, crea una confusione di prospettive e sovrappone il punto di vista di Platone a quello di Diotima. Certo, una donna, per di più straniera, non avrebbe potuto essere presente e parlare direttamente ad un banchetto di filosofi, nemmeno se sacerdotessa, e questo potrebbe legittimare il bisogno di ricorrere all’artificio mimetico. L’effetto ottenuto da Platone, sarebbe quindi, quello di far enunciare ad una donna la propria dottrina. Perché, si chiede Cavarero? Secondo lei, la scelta di Platone non sarebbe casuale, né l’effetto mimetico si spiega solamente con la necessità dovuta alla sua assenza. Infondo, Socrate, che da lei ha imparato, avrebbe potuto semplicemente trasmettere quelle che oramai erano divenute anche le sue conoscenze, senza riportare il dialogo avuto con lei. Si tratterebbe piuttosto di un “gioco simbolico sottile e ambiguo”360

, suggerisce Cavarero, che vuole una voce femminile a legittimare un discorso filosofico eretto a partire da una prospettiva tutta maschile. Ironia della sorte, tale discorso, al contempo, esclude le donne dal suo sapere. In questo consisterebbe quello che lei suggerisce essere il matricidio originario, che vuole espropriare le donne del potere di generare appropriandosi del lessico della gravidanza, mortificando la potenza materna delle madri, in funzione di una prospettiva metafisica sul mondo.

Che Platone intendesse consapevolmente appropriarsi di tale potenza non sembrerebbe così evidente dal testo platonico medesimo, né che egli abbia voluto suggerire che una sapiente donna stesse all’origine di questo discorso e che legittimasse questa appropriazione per infliggere una doppio sopruso sul femminile. Tuttavia, anche DuBois supporta questa ipotesi e sostiene che esista nell’intera opera platonica un progetto metaforico, il quale mira a definire la centralità dell’uno come maschile e a legittimare la posizione centrale del filosofo maschio. L’appropriazione della riproduzione farebbe dunque parte di questo progetto, nella misura in cui al filosofo, attraverso la mimesi del femminile, si giungerebbe ad attribuire anche la maternità. L’esito dell’incorporazione di alcuni tratti del femminile porterebbe paradossalmente non solo a collocare i suoi poteri nel

359 A. Cavarero, Nonostante Platone, op. cit. p. 98. 360

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maschile ma anche ad escludere la donna dal vero amore e al contempo dalla conoscenza della verità.361 D’altro canto, spiega DuBois, il desiderio manifesto dell’appropriazione del femminile, mette in questione l’autonomia e l’autorità del maschile, inoltre apre un gioco erotico che sposta i confini e indebolisce i margini delle identità sessuali.362 Il risultato tuttavia rimane sempre quello dell’appropriazione, quasi che il gioco dialettico, il quale attraverso la differenziazione permette di arrivare all’unione simbiotica del congiungimento, venga giocato tutto all’interno di un’identità che alla fine si rivela e si afferma sempre come maschile.

Conferire all’insegnamento il valore del mettere al mondo e all’avere raggiunto la sapienza il valore di una maternità ha innegabilmente un peso simbolico rilevante. Inoltre, che Platone abbia trasferito il discorso della procreazione e della generazione dal piano corporeo del mondo diveniente a quello ideale del mondo delle cose eterne e divine è altrettanto significativo. Non più il corpo è fecondo; ma l’anima, non più la vita corporea si rigenera, lasciando che il vecchio perisca per essere sostituito dal nuovo, come vorrebbe apparentemente Diotima ad un certo punto del suo discorso, bensì le anime feconderanno altre anime e il generato sarà un figlio eterno. Quest’ultimo però per definizione è paradossalmente l’ingenerato e immortale, poiché da sempre è e per sempre sarà e di cui l’anima da sempre era feconda. L’esperienza del corpo femminile e dell’arte della levatrice viene assimilata e inglobata dall’anima maschile.

Questo rappresenta un altro elemento che appartiene al percorso di allontanamento dal mondo denunciato da Arendt. Esso, secondo lei, si radica nel pensiero metafisico platonico, che inaugura la gerarchia in cui viene privilegiata la contemplazione. Ciò conduce alla negazione delle radici mondane della condizione umana e dunque a svalorizzare tutte le attività che si svolgono in essa, tra cui appunto la procreazione corporea. In Vita activa, Arendt scrive che la filosofia politica di Platone, mira a riorganizzare in modo utopistico la vita della polis, sulla base di criteri idealistici a cui solamente il filosofo può accedere. Ne segue che la vita contemplativa, essendo il luogo in cui il sapiente si accosta al sapere ideale che gli fornirà gli strumenti intellettuali idonei a regolare le attività politiche, sarà considerata superiore rispetto alle attività radicate nel mondo. Queste ultime, dal canto loro, si devono adeguare ai modelli ideali che il filosofo contempla, ma saranno sempre condannate a rimanere imperfette rispetto ad essi.363

361 P. DuBois, Il corpo come metafora, trad. it. p. 231-2. 362 Ivi, p. 235.

363

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In Tra passato e futuro, Arendt riprende il mito della caverna364, narrato da Platone nella

Repubblica, per chiarire come egli intendesse il rapporto del filosofo con le attività mondane e

quale visione volesse trasmettere circa la condizione umana nel mondo. Innanzitutto, le attività umane appartengono ad una realtà, da lui rappresentata metaforicamente dalla caverna, fatta di “tenebre e confusione”, che deve essere abbandonata da tutti coloro che aspirano “all’essere autentico”.365

La contemplazione, viene opposta all’azione, aggiudicandosi il primato su ogni attività, perché solo un “<<vedere>>, muto e immobile”366 può garantire l’accesso alla verità. Infatti, se, secondo il mito della caverna, il filosofo, ovvero colui che riesce a liberarsi dalla condizione originaria in cui era legato, si innalza al mondo luminoso delle idee, uscendo dall’oscurità sotterranea in cui ha sede l’umana esistenza, è proprio per accedere all’immutabile verità, ovvero all’essenza dell’essere che nella caverna è invisibile. Questa verità, dunque, non può essere conosciuta mentre si è immersi nel flusso della vita terrena, caratterizzata dalle attività comuni e dalle relazioni umane. Il filosofo deve tuttavia fare ritorno tra gli uomini, e per orientarsi nel loro mondo così caotico, porta con sé l’insegnamento di tali idee. Esse, che per natura rappresentano la verità dell’essere, condotte nella realtà imperfetta, diventano criteri, unità di misura su cui si devono misurare le cose del mondo.

Se le eterne idee si fanno modello dei comportamenti umani e delle attività, dei giudizi politici e morali, ciò avviene solamente dalla prospettiva umana che guarda dal mondo. Il filosofo, capace di trascendere questa dimensione, sa che esse sono molto di più e le contempla per accedere alla pura verità, ma in quanto uomo che vive tra gli uomini, egli stesso è costretto a ricorrere ad esse come criteri ideali, per orientarsi nel mondo e per condurre gli altri uomini.367

La funzione primitiva delle idee non era di regolare o altrimenti ordinare il caos delle cose umane, bensì illuminarne le tenebre con uno <<smagliante splendore>>. Per sé le idee non hanno assolutamente nulla a che vedere con la politica, l’esperienza politica o il problema dell’azione; sono di esclusiva pertinenza della filosofia, dell’esperienza contemplativa, della ricerca del <<vero essere delle cose>>.368

Secondo Arendt questa differenza tra idee che fungono come metri di misura per l’azione umana e per il suo giudizio, dall’idea in quanto espressione di essenza dell’essere, si rivela anche nella differenza tra l’idea suprema e quelle che da essa derivano. L’idea suprema viene rappresentata da Platone soprattutto come il bello in sé, e solo negli scritti politici della Repubblica, come il bene in sé. La bellezza, certamente è più adeguata ad esprimere l’idea suprema, come risulta dal Simposio,

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Platone, Repubblica, trad. it, libro VII, vv. 514-520.

365 H. Arendt, Tra passato e futuro, trad. it. T. Gargiuolo, Garzanti, 1991, p. 41 366 Ivi, p. 68.

367 Ivi, p. 152-3. 368

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in cui il filosofo può mettere a frutto la fecondità della propria anima solamente se circondato dal bello.369

Platone, dunque, inaugura la metafisica attraverso la duplice negazione da un lato delle attività maschili che concernono la vita politica e le azioni eroiche compiute in guerra e dall’altro la riproduzione e la cura dei corpi. Con le prime, svolte nella dimensione pubblica dell’apparire, la filosofia condivide il logocentrismo e l’allontanamento dal corpo, nella misura in cui tali attività vengono svolte nell’indipendenza maschile dai bisogni carnali, soddisfatti attraverso l’attività domestica di donne e schiavi. Il lavoro dimestico, infatti, si traduce nella dedizione prevalentemente femminile a soddisfare i bisogni del corpo ed è pertanto indegno di essere visto, relegato all’ombra dell’intimità familiare. Tuttavia la riproduzione, esperienza anch’essa tutta femminile, ha anche qualcosa di divino che avvicina l’uomo all’immortalità. Il filosofo, trascende la dimensione mondana e le sue scissioni, non solo innalzando il logos maschile dalla politica alla contemplazione, ma anche integrando in quest’ultima l’attività riproduttiva, attraverso l’effetto mimetico delle metafore della procreazione. Il filosofo, che sempre è maschio, realizza dunque nel proprio modo di condurre la vita, la completezza dell’umano, di cui diventa il modello per virtù ed eccellenza. Tuttavia, per raggiungere il compimento di questa unità perfetta, egli ha superato le contraddizioni che caratterizzano il mondo incarnato e concreto opponendogliene uno di ideale.