Uno dei gravi e grandi problemi che sembrano ostacolare il rapporto tra il pensiero di Emanuele Severino e il Cristianesimo è rappresentato dal tempo e dalla storia, che sono come indispensabili ambienti del Cristianesimo, e che invece sembrano dissolversi nella prospettiva dell’eternità del tutto e di ogni essente. Ma anche nell’essenza del Cristianesimo, l’importanza della dimensione dell’Evento storico è in realtà l’emergenza di una condizione metastorica nella quale il primato del Disegno eterno indica la realtà in senso pieno. E in questa condizione particolarissima dell’esistenza trova posizione una idea di durata che rappresenta appunto l’intensità dell’eterno nella successione del tempo: l’aevum. Ma occorre ambientare complessivamente questa idea. La linea è quella della possibile analogia con l’apparire scomparire degli eterni di Severino.
Ma procedo per gradi complessivi di inquadramento generale.
Come mi esprimevo in uno studio sul rapporto tra Severino e il Cristianesimo, dal titolo: Il pensiero di E. Severino nella prospettiva anagogica2, e al quale non posso non fare materialmente riferimento, il mio dialogo con Emanuele Severino è cominciato più di venticinque anni fa. Se dovessi presentare in modo schematico il mio approccio al suo pensiero e gli sviluppi che via via ha assunto, proporrei un riassunto di questo genere, sempre badando al tema del fondamento, ma in un quadro anagogico, cioè di teologia speculativa. D'altra parte, ora vorrei aggiungere una ulteriore considerazione, sempre nella linea di una analogia di proporzionalità, nella quale il concetto di
«eviternità», proprio della Scolastica medievale, ma rivisitato fondativamente, può rappresentare un ragguaglio interessante.
1 Giuseppe Barzaghi – Direttore della Scuola di Anagogia e Direttore e docente dello Studio Filosofico Domenicano.
2GIUSEPPE BARZAGHI, Il pensiero di Emanuele Severino nella prospettiva anagogica, «La filosofia futura», 2020, XIV, pp. 59-69.
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Il compito teologico
La Sacra Doctrina, cioè la teologia come scienza, è insieme una impressio divinae scientiae – cioè un'impronta mistica della stessa conoscenza che Dio ha di se stesso e tutto in se stesso – e un discorso argomentativo, cioè una esposizione dottrinale, una ricognizione razionale della rivelazione che Dio fa di sé e di tutto in sé.
Come discorso argomentativo, la Sacra Doctrina è un sapere radicalmente soprannaturale e formalmente naturale. È radicalmente soprannaturale perché il suo contenuto è la rivelazione divina, come tale indeducibile, indimostrabile e non evidente e dunque oggetto di fede. Ma esso è formalmente naturale, perché di quel contenuto si può dare una comprensione razionale, non dimostrativa ma intellettiva: per capire che cosa si crede, così da non correre il rischio di credere l'incredibile. Sotto questo aspetto, la Sacra Doctrina segue le dinamiche proprie del sapere filosofico, cioè le dinamiche della ragione.
Secondo Tommaso d'Aquino, la ragione rispetto alla fede ha tre compiti: istituire i praeambula fidei, dimostrazione dell'esistenza di Dio e dei suoi attributi; comprensione razionale della fede, cioè determinazione delle condizioni di possibilità o di intelligibilità del contenuto rivelato ed elaborazione di notificazioni analogiche dello stesso; ruolo apologetico.
Lo sguardo anagogico
Il dato fondamentale al quale tuttavia la Sacra Doctrina deve conformarsi è la dimensione eterna del contenuto rivelato: Dio comunica all'uomo nel tempo ciò che è sopra il tempo o, per meglio dire, secondo una dimensione espressiva temporale quoad nos ciò che è espresso metatemporalmente per se. Perciò, il discorso argomentativo della Sacra Doctrina, per essere adeguato all'oggetto metatemporale, dovrà conformarsi ad esso istituendo anzitutto le condizioni di possibilità prospettiche, cioè l'obiectum formale quo della considerazione. Questa prospettiva è tipica della Anagogia, cioè della speculazione sub specie aeternitatis, o ex parte Dei. E così si sta con Tommaso ma oltre Tommaso. È in questa prospettiva che il discorso severiniano pone le basi epistemiche, ma trova anche il proprio habitat.
Per quanto riguarda l'istituzione dei praeambula fidei, l'eternità dell'essente (per così sintetizzare il discorso severiniano) non ostacola l'affermazione di Dio, ma ne apre una via affermativa in qualche modo più diretta al successivo quadro anagogico. L'idea di Apparire infinito
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cui eternamente appaiono gli eterni è l'equivalente di ciò che nel linguaggio tomista è la scientia Dei visionis3.
Da questa posizione consegue il dato epistemologico argomentativo per il quale la premessa maggiore del sillogismo teologico di Sacra Doctrina, quella propriamente filosofica, cioè critica – dato che la premessa minore è di pura fede –, presenterà l'esigenza selettiva esclusiva della successione temporale e quella selettiva inclusiva della simultaneità degli essenti. Nel sillogismo teologico, la premessa minore è di fede rivelata, perché contiene il soggetto della scienza, che è il soggetto della conclusione (scientia est conclusionum); ed ha come predicato il termine medio o la definizione del soggetto, che lo inquadra prospetticamente: è l'oggetto formale quod consideratur, che in Sacra Doctrina è appunto la definizione di fede rivelata. La premessa maggiore, invece è filosofica, perché enuncia il criterio esplorativo della minore: il termine medio, che è l'inquadramento di fede del soggetto, viene ragguagliato secondo una esigenza selettiva, sia nel senso esclusivo che nel senso inclusivo. Si esclude ciò che contravviene alla natura del soggetto, cioè alla sua definizione come appare nella plausibilità metafisica, e si include ciò che può convenirgli sempre secondo la medesima determinazione metafisica. Si esclude l'assurdo e si include il plausibile o il necessario. In questo telaio selettivo gioca la visione sub specie aeternitatis, non come imposta ma come esatta dall'oggetto formale quo consideratur.
Questa impostazione è esatta dal tenore del contenuto rivelato, che appunto occupa il posto della premessa minore4. Per poter intendere affermazioni come quelle relative alla sussistenza di tutte le cose in Cristo perché per mezzo di lui tutto esiste (Col 1,15,18; Gv 1,3), oppure ancor più radicalmente la dimensione fondamentale della passione di gloria dell'Agnello immolato dalla fondazione del mondo (Ap 13,8) o della insipiente sapienza dei dominatori di questo mondo (1 Cor 2,8) ecc., occorre una visione metastorica della storia, una visione sub specie aeternitatis di quello stesso evento che accade nel tempo. Si tratta di una visione di struttura: questa è l'idea di Disegno che compare negli scritti neotestamentari. Per Disegno occorre intendere l'insieme delle linee strutturanti e non il progetto antecedente. Il Disegno creazionistico è una struttura (perché la stessa creazione è una struttura e non un moto produttivo), che non toglie la dinamica storica ma la inquadra nella simultaneità5. Faccio un esempio. Se mescolo il giallo e il blu ottengo il verde: questa è la dimensione storica. Ma se analizzo il verde vi trovo dentro il giallo e il blu: e questa è la dimensione metastorica
3 Ho toccato ed esposto questo punto in due scritti risalenti ormai ad una ventina d'anni fa:GIUSEPPE BARZAGHI, Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano, ESD, Bologna 1997; ID., Oltre Dio, ovvero omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la Deità, Barghigiani editore, Bologna 2000; ID., L’alterità tra mondo e Dio. Dibattito tra Emanuele Severino e Giuseppe Barzaghi, in EMANUELE MORANDI (a cura di), Per ripensare il nostro tempo: relazione, alterità e verità, Atti del Convegno di Filosofia (Modena, 16 maggio 1998), «Divus Thomas», 1998, III, pp. 58-81.
4 Cfr. GIUSEPPE BARZAGHI, Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Prefazione del Card. Giacomo Biffi, Edizioni Cantagalli, Siena 2003; ID., Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia anagogica, ESD, Bologna 2012 [in questa raccolta vi sono anche saggi risalenti agli anni tra il ‘90 e il 2000].
5 Cfr. ID., L’inseità redentiva della creazione, in Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia anagogica, cit.; ID., Creazione dal nulla o relazione fondativa, «Divus Thomas», 2015, II, pp. 102-121; ID., Lezioni di Dialettica, ESD, Bologna 2019.
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o eterna della struttura. In questa struttura il redentore e il peccatore sono insieme e sono nell’atto creatore che è la stessa essenza del Dio creatore, cioè il Dio creatore nella sua essenza.
Da ultimo, la stessa funzione apologetica risolve l'opposizione in una dimensione positiva. Il quadro speculativo severiniano viene considerato questa volta come un modo di intravedere qualcosa del discorso cristiano, a modo di sineddoche. Ciò che la speculazione severiniana descrive è l'essenza del Dio creatore, cioè l'Exemplar.
La mia operazione speculativa
Severino indica l'eternità del tutto e di ogni cosa, ma come situazione metafisica che esclude Dio. Beh, non vede Dio in sé e per sé, non vede l'atto creatore in sé e per sé. Anzi, appunto, lo nega.
Ma, in ciò che dice, anagogicamente si intravede l'essenza di Dio creatore. E dunque anche Severino la intravede. L'essenza di Dio creatore è la stessa essenza di Dio, o dell'Assoluto, ma con l'esplicitazione del riferimento creaturale ab aeterno. Dio, conoscendo la propria essenza, conosce tutte le realizzazioni similitudinarie della propria essenza che chiamiamo creature. Ma le conosce da sempre, in un istante atemporale. Se uno dovesse prendere alla lettera Parmenide, a cui Severino riallaccia il proprio discorso, interpretato anagogicamente, beh «la ben rotonda sfera» è come… la bolla di vetro di Natale (boule de neige)! Per cui quando ci siamo incontrati ad un seminario della facoltà di filosofia del San Raffaele io ne ho portata una. Mostrandogliela gli ho detto: sa qual è la differenza tra me e lei? Entrambi vediamo qui dentro la stessa cosa, ma io ammetto la sfera, lei non l’ammette. Ma quello che guardiamo è la stessa cosa perché la sfera è trasparente. E la sfera trasparente è la coscienza assoluta che è Dio. È l'autocoscienza assoluta nella quale c'è il trasparire delle cose che chiamiamo mondo, ex parte Dei. La Gioia assoluta, senza coscienza assoluta, non ha senso. Non si dà una Gioia in incognito...
Insomma, voglio dire che Severino intende Dio creatore nella sua essenza. Quando noi pensiamo a Dio creatore, pensiamo a Dio, all'atto creativo e al mondo. Ma se guardiamo dalla parte di Dio, non c’è un «fuori» di Dio. Le creature ab aeterno sono in Dio. E sono eterne. Sono gli eterni di cui parla Severino. Ogni singola sfumatura anche insignificante di essere è un eterno.
Se si considera il fondamento in sé e per sé, è l'essenza di Dio creatore nel modo precisato.
Se uno invece considera il fondante, allora pensa all'archè. C'è il fondante e c'è il fondato. Qui si tratta di prendere il fondato e di appiattirlo sul fondante. Fondante è attivo, fondato è passivo. Il fondante è causa, il fondato è effetto. Se io tolgo la forma attiva del fondante e quella passiva del fondato, chiudo tutto e considero il Fondamento. Questo è il fondamento in sé e per sé. Il fondamento chiude in se stesso anche le relazioni. Non è in relazione. È la relazione. È la relazione fondativa6. Ed è quello
6 Ibid.
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che io chiamo Exemplar. Ho tolto il concetto di causa esemplare, perché se dico causa esemplare introduco ancora la funzionalità. Se dico exemplar la funzionalità non c'è più. E dunque indico una dimensione di assolutezza, come nel caso della nozione di intenzionalità: il conoscere è atto del conoscente e del conosciuto, così che cognoscens in actu et cognitum in actu sunt unum et idem:
unico è l’atto del conoscente e del conosciuto. Al di fuori non si scappa.
Nell'exemplar ci sono anche le realizzazioni similitudinarie dell'essenza di Dio. Si considera la realtà non come il derivato, ma così com'è nella sua dimensione onninclusiva che è l'eternità di Dio. Che non si aggiunge alla creatura perché la creatura non aggiunge nulla a Dio. La creatura non è Dio perché è la realizzazione similitudinaria della sua essenza. Ma è nulla come aggiunta a Dio:
questo è il significato dell’ex nihilo, come ripeto sempre7.
In questo modo le creature sono gli eterni di Severino e l’essenza di Dio è l’apparire infinito.
Nella essenza di Dio creatore tutte le cose sono eterne; vedendone una si vedono tutte le altre, e sono strettamente legate tra loro, fosse anche soltanto un sospiro. Dicendo che tutto è eterno e quindi tutto è collegato e niente è isolato, Severino non sta guardando l’atto creatore, ma l’essenza di Dio creatore. Spesso Severino è come se inquadrasse la creazione con una fisionomia quasi fantasiosa o antropomorfa8. Ma l’idea di creazione non è l’atto di produzione com’è la produzione di un tavolo!
Quando parla di creazione, san Tommaso dice che è una pura relazione9. È vero che noi esprimiamo la creazione come un atto di produzione dal nulla di tutte le cose, però, se io prendo questa proposizione, san Tommaso la analizza così: Dio è immutabile; produrre implica un mutamento, e io devo escludere questo mutamento in Dio. Perché? Perché l’agire di Dio è Dio, e se Dio è immutabile, l’agire di Dio è immutabile. Dunque devo togliermi dalla testa che sia quel produrre così come cade nella mia esperienza. Allora se io prendo il «produrre» e tolgo il moto al produrre, mi resta solo la relazione produttore-prodotto. Vado a vedere il prodotto: sta a vedere che non c’è mutamento dalla parte di Dio, ma c’è mutamento dalla parte della creatura, cioè del prodotto. Ma risponde san Tommaso: se la creatura è dal nulla, il nulla può mutare? Il nulla non c’è! Non è come un pezzo di legno sul quale intervengo per dargli una forma, mutandolo rispetto al suo stato precedente. Il nulla non c’è e dunque non muta. Allora, se la creazione è produzione dal nulla, ex parte Dei è immutabile perché coincide con la stessa sostanza divina, ex parte creaturae esclude il mutamento della creatura perché non ha nulla appunto di presupposto. La creatura è posta tutta e totalmente nell’atto e con l'atto creatore immutabile di Dio e che è Dio.
7 Cfr. ID., Lo Sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, cit.; ID., Lo Sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia anagogica, cit.
8 Cfr. ID., Dialettica. Dire Dio attraverso il mondo e dire il mondo attraverso Dio, «Divus Thomas», 2018, II, pp. 242-249, 270-278.
9TOMMASO D’AQUINO (san), Summa Theologiae, I, q. 44.
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Allora questa produzione in che cosa si risolve? Si risolve in una pura relazione. La relazione ha tempo? No, la relazione non ha tempo perché i relativi sono simultanei. Questa pura relazione è di dipendenza tutta e totale dalla parte della creatura, e quindi è reale dalla parte della creatura, ma è di ragione dalla parte del Creatore. È di ragione dalla parte del Creatore perché non si aggiunge a Dio, perché Dio non può mutare. Quindi la relazione di creazione è reale dalla parte della creatura, di ragione dalla parte del Creatore, ma nella simultaneità. E quindi c’è solo un problema di dipendenza.
E Severino chiederebbe: perché ci dev’essere questa dipendenza di tutte le cose da Dio? Risposta:
beh, se la questione della dipendenza fa difficoltà, basta chiarire che dipendenza vuol dire che le cose sono collegate tra loro, connesse. Se le cose sono collegate tra loro, la destra dipende dalla sinistra e la sinistra dalla destra, il che non vuol dire che la destra produca la sinistra, ma che sono insieme tra loro e non posso isolarle l’una dall’altra. Posso dunque togliere l’idea di questa dipendenza vedendo la correlazione totale.
Però, si dirà, se vedo la correlazione totale, beh, il primato di Dio svanisce. Ma se io vedo la correlazione totale, è come se io volessi istituire un discorso filosofico nel quale, per togliere la contraddizione del venire dal nulla e del tornare nel nulla, per togliere questo divenire come annullamento o come entificazione, dovessi ammettere l’eternità di tutti gli enti, i quali sono tutti simultaneamente insieme. Quest’ultima è la tesi di Severino: gli eterni sono sempre tutti insieme. Ora, se io prendo questa posizione, io posso dire che quello che Severino mi sta indicando è l’essenza di Dio creatore: non Dio creatore, ma l’essenza di Dio creatore. Sta guardando l’essenza di Dio creatore senza badare a Dio creatore. O, se si vuole, sta considerando il mondo in Dio senza considerare Dio, come se considerassimo la Gioconda di Leonardo nell’anima di Leonardo o meglio ancora negli occhi di Leonardo, senza considerare Leonardo. Cosa vuol dire? Se io considero Dio creatore pongo l’accento sull’atto con il quale Dio pone nell’essere le creature, o la relazione di dipendenza tutta e totale dal Creatore; ma se io vado a vedere l’essenza del Creatore non vedo l’atto creatore ma il modo con il quale Dio concepisce se stesso in quanto Creatore, cioè concepisce la propria essenza come similitudinariamente rappresentata da quelle che chiamiamo creature. Ma non così che poi ci siano le creature. Non è che Dio prima pensa come farle o poi le fa, ma nella simultaneità di ciò che chiamiamo atto creatore, in quanto anch’esso è identico all’essenza divina, cioè non le si aggiunge ma le si identifica sostanzialmente.
Bene, lasciamo perdere l’atto creatore e vediamo invece l’essenza di Dio creatore: tutte le creature Dio le vede nella propria essenza come realizzazioni similitudinarie della sua essenza, cioè Dio vede tutto se stesso in tutte le creature e in ogni creatura, così che, in questo suo sguardo, io vedo il telaio delle relazioni tra le creature, e tutte sono simultaneamente presenti e tutte godono dell’eternità, fosse anche un sospiro. Tutto ciò che noi chiamiamo creatura, lì è rappresentazione similitudinaria dell’essenza di Dio. Non è l’essenza di Dio ad essere rappresentazione similitudinaria
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della creatura, ma la creatura è rappresentazione similitudinaria di Dio! L’essenza di Dio, così intesa, è l’Exemplar10.
L’Exemplar è la struttura metafisicamente originaria. E su questo punto, per ben tre volte, Severino ha detto di essere d’accordo11.
Mi basta questo. Perché? Perché a questo punto, io posso prendere la filosofia di Severino come mythos e far vedere dentro il quadro anagogico, cioè della Rivelazione sub specie aeternitatis, cosa vuol dire cristianamente quel mythos filosofico12. Perché anche il mythos parlava velatamente.
Era il logos che faceva vedere che dentro quella struttura c’era qualcosa di razionale al di là della immagine che lo significava. Così con il logos anagogico o il Sovra-logos, io posso benissimo dire
10 Così l’ho presentato in GIUSEPPE BARZAGHI, Il fondamento teoretico della sintesi tomista. L’exemplar, ESD, Bologna 2015, anche in ID., L’originario. La culla del mondo, ESD, Bologna 2015.
11 Si consideri l'apprezzamento di convergenza su questo punto tra me e Severino nel dialogo che abbiamo avuto a Bologna, nel giugno 2015, durante un seminario di teoretica. La registrazione si trova in GIUSEPPE BARZAGHI, Dialogo tra Emanuele Severino e Giuseppe Barzaghi, «Accademia del Redentore», 27 gennaio 2017,
<http://www.accademiadelredentore.it/blog-it/Dialogo-tra-Emanuele-Severino-e-Giuseppe-Barzaghi--1259.html>. Cfr.
GIUSEPPE BARZAGHI, Dialettica. Dire Dio attraverso il mondo e dire il mondo attraverso Dio, cit. In questo stesso numero di «Divus Thomas» si trova anche la trascrizione di quella conversazione (pp. 242-249; 270-278).
12 La filosofia è il logos, cioè il discorso fondativo. Se la filosofia-logos smarrisce la propria mens fondativa, allora passa alla condizione di mythos, cioè diventa narrativa. La differenza tra narrazione e discorso sta nella assenza, in quella, e nella presenza, in questo, del perché fondativo. La mens è il cuore del logos: se il logos smarrisce la mens, smarrisce la propria caratteristica. La mens è la mensura, la meditazione, il calcolo, la valutazione razionale. Un discorso-logos senza mens è narrazione. Alcuni esempi. I manuali «ad mentem Sancti Thomae Aquinatis» o «iuxta principia Sancti Thomae Aquinatis» mantengono il logos filosofico, la mens appunto. Ma se ci si limita alle 24 tesi del Sillabo tomista, questo è mythos, perché non c'è la mens, cioè la fondazione. Nella storia della filosofia, la filosofia è mythos, perché tende a sapere se sia vero che Aristotele ha sentenziato in un certo modo, ma non se ciò che ha sentenziato Aristotele sia vero. Così, tutto è dogma e i dogmi sono le opinioni principali dei filosofi e delle Scuole. È come se in geometria uno sapesse che il triangolo ha la somma degli angoli interni pari a due retti, ma non sapesse dimostrarlo. È un apparente logos geometrico, perché manca la mens, ed è mythos! La filosofia, divenuta mythos, va oltrepassata, ma in una prospettiva anagogica,
12 La filosofia è il logos, cioè il discorso fondativo. Se la filosofia-logos smarrisce la propria mens fondativa, allora passa alla condizione di mythos, cioè diventa narrativa. La differenza tra narrazione e discorso sta nella assenza, in quella, e nella presenza, in questo, del perché fondativo. La mens è il cuore del logos: se il logos smarrisce la mens, smarrisce la propria caratteristica. La mens è la mensura, la meditazione, il calcolo, la valutazione razionale. Un discorso-logos senza mens è narrazione. Alcuni esempi. I manuali «ad mentem Sancti Thomae Aquinatis» o «iuxta principia Sancti Thomae Aquinatis» mantengono il logos filosofico, la mens appunto. Ma se ci si limita alle 24 tesi del Sillabo tomista, questo è mythos, perché non c'è la mens, cioè la fondazione. Nella storia della filosofia, la filosofia è mythos, perché tende a sapere se sia vero che Aristotele ha sentenziato in un certo modo, ma non se ciò che ha sentenziato Aristotele sia vero. Così, tutto è dogma e i dogmi sono le opinioni principali dei filosofi e delle Scuole. È come se in geometria uno sapesse che il triangolo ha la somma degli angoli interni pari a due retti, ma non sapesse dimostrarlo. È un apparente logos geometrico, perché manca la mens, ed è mythos! La filosofia, divenuta mythos, va oltrepassata, ma in una prospettiva anagogica,