Il cristianesimo come alter ego folle del destino
5. Se il dolore è vero e reale
La seconda considerazione si riferisce al senso del dolore (e della morte, regina dei dolori) nel cristianesimo e nel destino, dunque alla differenza abissale che segna la loro “vicinanza”. Ove è chiaro che si tratta di un prolungamento/approfondimento del contenuto del precedente paragrafo (si rilevi che il cristianesimo da sempre vede nella sofferenza il centro dell’esperienza umana).
Il dolore come via crucis della Gloria e della Gioia.
19 EMANUELE SEVERINO, Oltrepassare, cit., p. 69.
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È ciò che con incomparabile potenza il cristianesimo annunzia, con riferimento prioritario alla figura del Cristo, l’uomo-Dio. Ma, imbevuto di nichilismo, si trova necessariamente a passare il segno. Chiariamo in che senso.
«La corruzione porta seco un danno», scrive Agostino (Confessioni, VII, 12), ove per “danno”
s’intende, grecamente, l’annientamento in cui la corruzione consiste20. Si tratta della radice del dolore, evidente della stessa “evidenza” del diventar nulla (di ciò che più ci sta a cuore).
Userei allora questa similitudine: come vere tracce indicanti il Nord è impossibile che, in quanto vere, guidino al Sud, così un vero dolore – e cioè un (creduto) vero annientamento (è qui che si passa il segno) – è impossibile che costituisca la via che conduce alla Gioia.
Ora il dolore è certo necessario alla concretezza della Gioia (come l’errore alla Verità), non però come vero e reale, ma come fede che esso si realizzi (e cioè non passando il segno), ancorché l’incubo in cui consiste il dolore sia certo a sua volta realissimo e, non di rado, atroce.
A questo proposito vale la pena di richiamare il celebre dialogo tra Ivan Karamazov e suo fratello Alësa21 e considerare il concetto di “eterna armonia”, cristianamente intesa, che, com’è noto e in opposizione al fratello, Ivan rifiuta. In che consiste? Nella cancellazione escatologica di tutte le sofferenze patite dall’uomo. Nel loro riscatto finale. «Esiste la revoca della sofferenza passata», scrive Benedetto XVI22.
Ebbene, diciamo, si tratta di capire, integrando in tal modo le ragioni appena esposte, che – stante l’ontologia su cui si innerva il cristianesimo – ciò è impossibile.
Non solo perché la felicità finale non può far sì che il dolore patito non sia stato patito, ma anche e soprattutto perché una vera Beatitudine non può esistere solo “laggiù”, “altrove”; non può non farsi cioè sentire in qualche modo anche qui e ora, coinvolgendo nella sua eterna verità onniavvolgente qualsiasi vicenda e perciò togliendo evidenza al dolore patito. Se gli uomini «già durante la sofferenza sono destinati alla beatitudine, questa destinazione stravolge la sofferenza e finisce col vanificarla»23. Laddove la realtà del dolore – in quanto annientamento (creduto) vero di ciò che sta a cuore – è lo spettacolo (creduto) immediato anche per il cristiano: ritenuto oggettivo, vero (rispetto a cui egli spera – ma ormai il lupo è entrato nell’ovile – in un contraddittorio riscatto).
Se e poiché c’è divenire (= diventar altro) non può esserci che divenire. Se e poiché c’è dolore (=
annientamento di ciò che amiamo), non può esserci che dolore. Stessa evidenza, identica inferenza.
20 Agostino non ha alcuna esitazione nel riconoscere, come cosa che va da sé, che la morte è «annullamento della vita»
(La città di Dio, Luigi Alici (a cura di), Bompiani, Milano 2015, p. 613).
21 Cfr. FËDOR DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, V, §§ 3-4.
22 J.A.RATZINGER – Benedetto XVI, Enciclica Spe salvi, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2007, § 43.
23 EMANUELE SEVERINO, Il muro di pietra, Rizzoli, Milano 2006, p. 72.
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Perciò Leopardi è il filosofo (errante) più profondo: l’autocoscienza stessa dell’Occidente (ormai fattosi planetario). Per il quale – detto in un linguaggio che non è il suo – la “felicità” non è che il momento ideale, dialettico negativo, della realtà in quanto Dolore.
K. Rahner ha scritto: «Moriamo attraverso tutta la vita e ciò che chiamiamo morte è in realtà la fine [con san Paolo: l’annientamento] della morte»24.
Diciamo: grande contraddizione e grande presagio! Contraddizione: la morte infatti non finisce con la propria morte in quanto annientamento; ché così anzi permane e paradossalmente trionfa; presagio: la fine della fede nella morte come annientamento, unitamente agli atroci spettacoli correlativi, è la fine – il tramonto – dell’isolamento: la vera Apocalisse, testimoniata dal linguaggio del destino della verità. (La quale verità, per altro, in quanto tale, «non solo non è il linguaggio, ma non è nemmeno il linguaggio che la testimonia. Il destino è destino, nonostante il suo esser testimoniato dal linguaggio»; esso che, in quanto «totalità della persintassi dell’essente»25, sussiste in sé oltre il linguaggio e cioè al di là della volontà di assegnare la parola al destino, “spezzando”
analiticamente, nel “via via” delle parole, tale sintetica totalità, solo nella quale ogni costante sintattica, per la sua relazione con tutte le altre, è concretamente incontrovertibile26).
Nello sguardo del destino si scioglie così l’enigma del che cos’è “uomo”. L’“uomo” è il dolore di Dio. Nel senso cioè che esso è la dolorosa persuasione alienata e folle di esser mortale, come tale destinato al nulla, alla superficie del suo stesso esser un Dio, come tale destinato a un cammino infinito nella Gloria della Gioia. (Ov’è chiaro che il termine “Dio”, che abbiamo mantenuto, non nomina più in alcun modo il Dominus dell’ἐπαμφοτερίζειν).
Ciò che la straordinaria figura di Cristo esprime in forma, al tempo stesso, contraddittoria e presaga.
(Come in fondo genialmente intuisce san Paolo – al tempo stesso, da presso e da lungi – quando scrive: «voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando il Cristo, nostra vita, apparirà, allora anche voi apparirete con lui rivestiti di gloria» (Col 3,3-4). Il destino, confermando/rovesciando, dice: «I mortali sono i morti, per i quali la morte non è un futuro, ma la loro stessa essenza […] non sono i nati ad attendere la morte, ma i morti ad attendere la loro nascita, ossia il sopraggiungere della terra che salva»27).
24 KARL RAHNER, Sulla teologia della morte. Con una digressione sul martirio, Lydia Marinconz (a cura di), Morcelliana, Brescia 1972, p. 78.
25 EMANUELE SEVERINO, La Gloria, cit., pp. 474-476.
26 «Il linguaggio che vuol designare il destino è “concetto astratto dell’astratto” (dove l’”astratto” è la parte e il “concetto astratto” è la separazione, l’isolamento [analitico] della parte da ciò [sintesi] cui essa è unita con necessità)», in ID., La morte e la terra, cit., p. 123. Ed è chiaro che, in quanto saputo come “concetto astratto”, dunque nello sguardo del destino, si tratta del concetto concreto del concetto astratto dell’astratto. Il delicatissimo tema relativo al nesso destino/linguaggio, è meditato da Severino in parecchie pagine delle sue “opere”. Ci limitiamo qui a richiamare, pressoché interamente dedicato alla questione, lo scritto ID., Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992.
27 ID., Oltrepassare, cit., pp. 693-694.
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