Ethos e Destino La decisione dell’Origine
1. La dialettica della possibilità veritativa della fede
La vicenda del rapporto del pensiero di Emanuele Severino con il cristianesimo mostra una singolare parabola di inclusione/esclusione della reciproca ospitalità, che si riflette in una sorta di simmetrica inversione di attenzione2.
Sin dall’inizio, la tesi della contaminazione originaria della fede cristiana con una radicale deviazione della filosofia greca, che l’ha condotta alla falsificazione teologica della verità ontologica, è radicale. La tesi è nota. La metafisica greca è nata sul fondamento della negazione dell’eternità dell’ente, necessariamente implicata nella opposizione radicale dell’essere al nulla: la fede cristiana nella creazione, formalizzata nella cifra speculativa della creatio ex nihilo, attesta la ellenizzazione speculativa della teologia cristiana (che Severino indica semplicemente come “fede”, perché così l’ha conosciuta attraverso la teologia di scuola). Questa ellenizzazione è il principio di una corruzione speculativa della fede, la quale, argomentando sul presupposto di un fondamento nichilistico, si sviluppa come storia della fatale contraddizione della verità dell’essere, che finisce per dominare,
1 Pierangelo Sequeri – Preside emerito e docente del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia.
2 Data la natura di questo contributo, onorato dall’invito a collocarsi nel contesto di un colloquio organizzato dalla Facoltà teologica del Triveneto, ho scelto di praticare una sostanziale economia della documentazione e dei riferimenti bibliografici relativi alla produzione e alla recezione delle tesi severiniane. Punto all’illustrazione di una ipotesi di lettura e di interpretazione di merito del confronto, con la modesta ambizione di offrire un modello di estrapolazione teorica e critica della virtuale fecondità filosofica e teologica della frequentazione del pensiero di Emanuele Severino.
L’accresciuto interesse per questo pensiero e per questo confronto, dispone oggi di una saggistica di grande qualità, che sarebbe ingiusto raccogliere o selezionare sbrigativamente. Mi limiterò, con l’occasione, ad indicare qualche testo particolarmente risonante con l’enfasi che attribuisco ad alcuni argomenti. Per la ricostruzione basilare delle fasi storiche e dei nuclei teoretici del confronto fra il pensiero severiniano e la fede cristiana, rinvio senz’altro alle limpide restituzioni di LEONARDO MESSINESE, Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino, ETS, Pisa 2010; Né laico né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia, Dedalo, Bari 2013; ID., Nel castello di Emanuele Severino, Schibboleth, Roma 2021. Un’ampia e utile panoramica di “commenti” al magistero di Severino, ad opera di colleghi e allievi, si può leggere in: ID., Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Bruno Mondadori, Milano 2005; MARIO CAPANNA,MASSIMO DONÀ,L.V.TARCA (a cura di), Charis. Omaggio degli allievi a Emanuele Severino, Schibboleth, Roma 2019, («Zeugma. Lineamenti di filosofia italiana»).
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attraverso la metafisica conseguente all’errore nichilistico, l’intera cultura occidentale (e poi, per irradiazione, attraverso l’eredità che la trasferisce alla scienza e alla tecnica, la cultura globale).
Nel contesto degli anni ’60, per la verità, la critica nei confronti della ellenizzazione del cristianesimo era già piuttosto diffusa in teologia. La critica severiniana, però, che si iscrive apparentemente in questo solco, già aperto dal confronto della teologia con la Destruktion heideggeriana, appare in radicale controtendenza con i motivi dominanti della critica teologica alla metafisica classica e alla contaminazione ellenistica della ragione teologica.
La critica teologica dominante concerne essenzialmente il debito contratto dalla teologia cristiana con gli assoluti metafisici, che irrigidisce l’idea della natura divina e dell’essere trascendente, mortificando ad un tempo la dimensione storica della rivelazione e l’alterità radicale di Dio rispetto all’immobilità della sostanza assoluta dell’essere. La critica teologica, insomma, si rivolge per così dire agli eccessi del pensiero eternalistico dell’eredità metafisica, che avrebbero condotto l’ermeneutica della fede alla mortificazione del finito: fino a compromettere, attraverso la rigida opposizione dualistica della storia e dell’assoluto, della creaturalità e dell’eternità, l’originalità della visione cristiana di Dio. Questa originalità risiederebbe precisamente nella logica dell’incarnazione, che unisce indissolubilmente il Logos eterno di Dio con la condizione storica della creatura, purificando al tempo stesso la sua riduttiva iscrizione nell’autoreferenzialità dell’Ente assoluto. La testimonianza di Severino sorprende la stessa teologia e filosofia cattolica, anzitutto perché essa si muove criticamente – a sua volta nel segno di una radicale de-ellenizzazione del cristianesimo – contro l’intenzione teologica del superamento della metafisica ellenistica: ossia, la rivalutazione della finitezza e della storicità dell’ente. L’eternità e l’immutabilità dell’essere, che Severino estende ad ogni determinazione dell’ente, contesta questo presupposto: la finitezza e la storicità dell’ente, iscritte costitutivamente nel passaggio dal nulla all’essere e viceversa, non valorizzano affatto l’ente: consacrano, piuttosto, la sua interpretazione nichilistica, ossia la sua sostanziale identità col nulla. Il passaggio è inconcepibile, perché il nulla non è niente che possa diventare essere e che l’essere possa a sua volta diventare. L’essere “nulla” non è mai stato: né mai potrà esserlo, in nessun senso.
L’imbarazzo della comunità teologica nel confrontarsi con questa linea di pensiero era comprensibile: teoreticamente e culturalmente. Teoreticamente, perché il dogma della fede nella creazione, e la metafisica che lo aveva assimilato, si esprimevano correntemente sulla base dell’evidenza logica del non essere totale che precedeva (e virtualmente potrebbe seguire) l’essere creato (a fronte della potentia Dei absoluta). Culturalmente, perché, in un mondo cui la teologia stava ricuperando gli eccessi di una metafisica razionalistica dell’Essere assoluto, che mortificava il realismo dell’esperienza storica della creatura finita, nella quale Dio stesso ha deciso di essere coinvolto fino all’incarnazione del Figlio, un pensatore, dall’interno dell’istituzione cattolica,
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affermava l’evidenza incontrovertibile dell’eternità di ogni cosa. E contestava al cristianesimo, adattato sin dall’inizio a questa rimozione, di essere cresciuto sulla contraddizione della verità assoluta.
Era già diventata difficile, nel contesto delle nuove filosofie della finitezza e della storia, la dimostrazione “razionale” dell’esistenza di Dio come Essere assoluto ed eterno. Contrastare il nichilismo e salvare un minimo di metafisica, rilanciando l’assolutezza dell’essere dell’ente fino a questo punto, anche al di là delle ragioni che raccomandavano la salvaguardia del dogma, sembrava davvero eccessivo. E persino apologeticamente controproducente, a fronte di una filosofia dell’immanenza che incalzava da ogni lato la ragione teologica, accusando la pervasività occulta dei suoi assoluti di inquinare e compromettere il realismo e la dignità dell’esperienza concreta della realtà disponibile al pensiero umano. La teologia e la filosofia di scuola, impegnate già per loro conto a ricondurre il “nulla” originario del mondo al non-essere dell’ente “relativo” alla differenza da Dio, erano spontaneamente incoraggiate a ricondurre la critica severiniana agli eccessi di una deriva panteistica che era già in repertorio nell’apologetica classica3. La nuova teologia, d’altro canto, era sorpresa dal fatto di doversi confrontare criticamente con un interlocutore filosoficamente anomalo rispetto al canone post-hegeliano della filosofia occidentale: difendere l’assolutezza trascendente di Dio nel contesto della nuova filosofia anti-idealistica della finitezza è una cosa; argomentare questa difesa impugnando l’assolutezza eterna dell’ente, è tutt’altra cosa. La teologia, anche la più aperta al confronto con le tesi filosofiche radicali a riguardo della metafisica occidentale (Kierkegaard e Nietzsche, Heidegger e Wittgenstein), non aveva attrezzi adatti a discutere questo rovesciamento di prospettiva. Mentre la teologia – non senza reazione critica da parte della filosofia cattolica e della teologia scolastica, in nome della metafisica tradizionale – andava riscoprendo biblicamente la storicità dell’essere di Dio, come verità suprema della sua incarnazione nostrae salutis causa, Severino denunciava il tradimento della teologia che abbandonava la verità eterna di ogni cosa al tarlo del nichilismo senza speranza, nel quale la salvezza della verità era radicalmente perduta.
3 Nonostante la nota distinzione tomistica fra l’eternità del mondo come durata, razionalmente ipotizzabile, e la sua effettiva iscrizione entro il cerchio di un inizio e di una fine, consegnata alla fede dalla rivelazione (Cfr. TOMMASO D’AQUINO (san), S.Th. I, 46, 2), nelle prime fasi della discussione (per lo più filosofica), non è questa la strada principale imboccata dal confronto critico. Nello stesso senso, scarsa attenzione viene dedicata alla possibilità di riconoscere un tratto di verità della impostazione severiniana, nella ripresa della tradizionale concezione della preesistenza delle “cose”
nel cerchio assoluto dell’essere, come “idee” divine che rimangono inattuali come enti mondani, fino a che non vengono messe in scena nello spazio e nel tempo mondano, nella libertà e nella potenza specifica dell’atto creatore di Dio. Desidero ricordare, a questo proposito, la presentazione del saggio con cui Severino esplicita la svolta neo-parmenidea del suo pensiero, che Sofia Vanni Rovighi, in qualità di Direttore, propone di leggere in questa chiave conciliante (cfr. EMANUELE SEVERINO, Ritornare a Parmenide?, «Rivista di Filosofia Neoscolastica», 1964, LXI, pp. 137-175). Non svilupperò, in questa sede, lo spunto. Nondimeno, l’ipotesi di una lettura ontologicamente proficua dell’ontologia severiniana che percorra lo spunto di una “duplice verità” dell’ente, con la sua faccia rivolta a Dio e la sua faccia rivolta al mondo, che disinneschi, identificandole, il “dualismo platonico”, ma nello stesso tempo, accetti, differenziandole, la dialettica dei
“doppi pensieri” (I. Mancini, P. Florenskij) necessaria all’integrità e alla giustizia del vero ce decide l’origine e la destinazione, ispira complessivamente la mia lettura critica. Cfr. GIUSEPPE BARZAGHI,M.E.CERRIGONE et al., Ai confini della contraddizione: Tommaso d’Aquino, Florenskij e Severino, Insedicesimo, Savona 2021.
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In ogni caso, nella fase in cui il confronto critico sulla compatibilità fra il pensiero di Severino e la dottrina della fede si polarizza sulla questione dogmatica dell’idea della creazione (e contestualmente sulla tematica della concezione cattolica tra sapere della fede e sapere della ragione), la denuncia dell’alienazione nichilistica del cristianesimo lascia comunque ancora spazio, in Severino, ad un’ermeneutica della possibile emancipazione filosofica della fede cristiana: sia come fides quae sia come fides qua.
Negli Studi di filosofia della prassi4 la forma della fede rappresenta un’autentica possibilità pratica per l’incremento della verità: naturalmente, a condizione che essa non si definisca in connessione con un significato che contraddica l’attuale evidenza dell’incontrovertibile (e delle sue implicazioni necessarie). In quello scritto, la figura epistemica dell’aver fede appare ancora come possibilità non immediatamente autocontraddittoria – anzi, a certe condizioni, veritativamente giustificata – dell’essere nella fede in cui l’essere nella verità rimane concretamente avvolto. La ricerca della verità, imposta dallo scarto fra il suo apparire attuale e l’orizzonte della totalità, impone perciò di apprezzare la possibilità di percorrere la strada di quella forma dell’aver fede che appaia promettente per la riduzione della contraddizione fra l’apparire formale e l’apparire concreto della verità dell’intero (differenza ontologica costituiva della finitezza, messa a punto ne La struttura originaria5). La coscienza credente, in tale prospettiva, azzarda la scelta pratica – inevitabile, se si svuol eseguire il compito della ricerca veritativa, ossia l’espansione della sua evidenza concreta – attraverso la decisione di affidarsi alla promessa di una possibile rivelazione della verità più ampia del suo attuale occultamento. Il significato che rappresenta questo incremento deve apparire rigorosamente possibile: non tanto dal punto di vista di una soggettiva persuasione, bensì dal punto di vista della sua oggettiva incontraddittorietà con la dimensione già manifesta dell’incontrovertibile.
Questa struttura formale del rapporto fra nomos della verità e logos della fede6, a ben vedere, configura un ethos (e un pathos) della ricerca della verità infinitamente più largo della ratio fidei naturalistica e metafisica immaginata dalla philosophia naturalis della teologia di scuola. Più largo, dico, precisamente in rapporto alla cruna dell’incontrovertibile severiniano, dell’ingiunzione e
4 Cfr. EMANUELE SEVERINO, Studi di filosofia della prassi, nuova edizione ampliata, Adelphi, Milano 1984, («Scritti di Emanuele Severino», III).
5 Cfr. ID., La struttura originaria, ristampa anastatica, La Scuola, Brescia 2012.
6 Intendo così, con termini miei, la forma pratica della coscienza credente istruita dagli Studi di filosofia della prassi, della quale ho cercato di prospettare il vantaggio anche teologico in ordine alla costruzione di un modello formale di corretta giustificazione epistemica della intrinseca partecipazione della forma fidei alla fondamentale costituzione antropologica della ratio veritatis che regola l’approccio al compito originario. Un compito, per altro, che può essere concepito unicamente nella forma di un’ingiunzione etica originaria: indeducibilmente iscritta nella manifestazione dell’originario come verità (che non è affatto immediata, bensì mediata dal linguaggio) e non decostruibile a partire dalla riduzione della verità alla manifestazione dell’incontrovertibile identità dell’essere (che pure ne rappresenta la condizione necessaria ma non sufficiente, come chiarirò più avanti). Mi permetto di segnalare, per il lettore interessato ad approfondire analiticamente la possibilità di valorizzare, all’interno della ragione teologica, il modello formale delle possibili correlazioni fra “essere nella verità” ed “essere nella fede” messe a punto negli Studi severiniani: PIERANGELO SEQUERI, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 20135, pp. 429-465.
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dell’argomentazione, che è infinitamente più stretta di quella attribuita dalla scolastica alla ragione naturale.
L’area della verità che può essere accertata – fenomenologicamente e logicamente – come sottratta all’immediata auto-contraddizione della sua negazione, infatti, è minima. Per quanto essa appaia, nell’inventio severiniana delle implicazioni della semantizzazione dell’essere come opposizione costitutiva al nulla, di enorme portata per la re-tractatio dell’ontologia occidentale (e della cultura conforme), la sua estensione è limitata. Essa, pertanto, si ritrae significativamente dagli eccessi metafisici della risoluzione di ogni certezza dell’esser noto nell’incontrovertibilità dell’esser vero.
In questo orizzonte, di per sé, lo spazio della verità possibile della fede – ossia dei paradossi cristiani della creazione e dell’incarnazione, della redenzione e della risurrezione, che coinvolgono l’intimità di Dio (nell’eterna generazione del Figlio) fin “da prima della creazione del mondo” e il lavoro dello Spirito per la destinazione della creatura (“che geme i dolori del parto”) – si fa enormemente ampio. L’incontrovertibile della verità eterna dell’ente non è in grado di includerlo: ma nemmeno di escluderlo. La teologia, pur impegnata nella riduzione dell’area degli assoluti che il formalismo essenzialistico aveva iscritto nella metafisica della natura, non ha approfittato di questo varco. Il confronto/conflitto polarizzato dal tema della creatio ex nihilo, in ogni caso, nonostante il varco inizialmente lasciato aperto da Severino, non coinvolge la comunità scientifica dei teologi: la quale, fatte salve le conosciute eccezioni, non ha considerato cruciale la portata del confronto con la provocazione severiniana. E perciò non ha ulteriormente scavato questo solco e non ha seminato su questo terreno. Ora, a distanza di tempo, ci si può legittimamente domandare se il cristianesimo, che lamenta oggi il pervasivo e totale congedo culturale – e persino catechistico – dalla dimensione dell’eterno – può trascurare questa provocazione per l’affinamento e il chiarimento della origine e della destinazione eterna della creatura finita. Quella stessa comunità, infatti, nonostante le ripetute provocazioni alla radicale ripresa della discriminante escatologica della verità cristiana, che periodicamente si accendono nel ‘900 teologico, ha lasciato inevaso proprio il compito dell’ontologia della creazione che vi doveva corrispondere7, contribuendo così alla irrimediabile estenuazione della predicazione corrente sulla destinazione della vita8.
7 Una recente puntualizzazione dei termini di questa ripresa: MASSIMO EPIS (a cura di), Parola dell’origine. Il mondo e la storia nella prospettiva della creazione, Glossa, Milano 2021.
8 Sia permesso rimandare, per l’illustrazione di questo assunto, a PIERANGELO SEQUERI, La rifondazione dell’escatologico cristiano nella teologia del ‘900 e nella proposta sistematica di G. Moioli, Presentazione a GIOVANNI MOIOLI, L’Escatologico cristiano. Proposta sistematica, Glossa, Milano 1994 («Lectio»), pp. 9-33.
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