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Severino e la rivelazione cristiana

1. Il dolore e la morte

Severino ha costruito una soteriologia e una escatologia pienamente “laiche”, ma che attingono continuamente dal vocabolario cristiano. I temi della morte e del dolore, della redenzione e della salvezza, sono affrontati avendo sullo sfondo lo sviluppo del pensiero cristiano e occidentale, anche se in forma critica. L’uomo, secondo Severino, cerca continuamente rimedi e difese dalle forme più emergenti del diventar altro, che gli sono insopportabili, come la morte, il dolore, la sofferenza, l’inesorabilità del tempo. Le religioni (al pari della tecnica, che è la nuova religione) sorgono per

3 EMANUELE SEVERINO, Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, Milano 1995, p. 199.

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riparare il “danno” della temporalità, della fragilità, della caducità, della morte, che sono esperite come fonte di dolore sempre a motivo della follia dell’Occidente. Esperire la morte (e il dolore) come angoscia, paura, sofferenza dipende dalla volontà interpretante, dai significati, che derivano dalla fede nel divenire altro (la morte come cammino verso il nulla). Anche la fede nella risurrezione (come nella reincarnazione) è rimedio alla morte come annullamento; si tratta di una fede che nasce dalla volontà (di potenza) e non dalla verità incontrovertibile dell’essere ed è impossibile, perché crede che la stessa volontà possa essere presente in enti non identici, identifica ciò che non è identico (colui che è vivo, diventa nulla nella morte e poi ritorna risorto).

La morte, secondo il filosofo bresciano, non è annientamento o annullamento della vita ma compimento dell’uomo, della sua essenza: disvela la sua appartenenza al destino della verità/essere (infinito, Gioia, eternità). La morte come Gioia è frutto della liberazione dalla follia del divenire, dall’attaccamento a tale fede: «procedere verso la morte è procedere verso il primo concreto apparire della Gioia»4.

La comprensione cristiano-occidentale del dolore/morte, invece, afferma che la sofferenza è la via che porta a Dio, e trova in Dio (in qualcun altro) le ragioni e il senso; attribuisce ad essa un valore puramente strumentale, addirittura voluto da Dio, per giungere alla vita eterna. In questo modo il dolore e la morte sono “nulla”, perché dipendono da Dio, sono altro rispetto a quello che sono.

Anche da questo punto di vista, secondo il filosofo, il «cristianesimo è un grande specchio del nichilismo»5: la salvezza dal dolore è nel futuro, e viene pensata come relativizzazione, superamento, annullamento del dolore e della morte.

Già il pensiero moderno, filosofico e teologico (si pensi allo sviluppo della theologia crucis) – e qui concordo pienamente con Severino – reagisce a una comprensione consolatoria o doloristica del dolore e della morte, ridotti a «concime» della felicità futura. La teodicea classica, leibniziana, non regge più: «L’obbiezione più radicale, infatti, che il pensiero contemporaneo rivolge alla nostra tradizione culturale è appunto questa: che la volontà di dar senso al dolore, ponendola all’interno di una prospettiva metafisico-teologica, finisce con ridurlo a qualcosa di accidentale e di apparente»6. Invece, il dolore è reale («le lacrime sono vere lacrime»), irriducibile, irredimibile (cfr. la protesta di Ivan ne I fratelli Karamazov7: niente può riscattare la sofferenza di una bambina martoriata e sottratta alla madre). Severino fa propria tale protesta moderna, nei confronti della teodicea, ma colloca il senso del dolore nell’eternità degli enti: «il finito, nella sua essenza più profonda, è l’infinito, o, anche che noi siamo la Gioia»8. L’uomo soffre ma è sempre nella Gioia, anche quando non è avvertita:

4 GIULIO GOGGI, Emanuele Severino, Lateran University Press, Città del Vaticano-Roma 2015, p. 400.

5 EMANUELE SEVERINO, Pensieri sul cristianesimo, cit., p. 9.

6 Ibid., p. 266.

7 FËDOR DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, Baldini & Castoldi, Milano 2014.

8 Ibid., p. 270.

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l’uomo «patisce il dolore, essendone tuttavia già da sempre al di fuori, nella Gioia». La contraddizione del dolore è già sempre superata, a motivo dell’eternità degli essenti. Potremmo muovere l’obiezione:

dove si radica la verità incontrovertibile della Gioia, la sua evidenza nelle morti drammatiche, nelle sofferenze senza senso, nelle morti causate dalla malvagità?

In Dispute sulla verità e la morte (il volume è pubblicato nel 2018, poco prima della sua morte), il filosofo bresciano ritorna abbondantemente sui temi escatologici, sull’errore della morte come «annientamento delle cose e dei viventi»9. «La morte-che-annienta» (l’idea che la legna diventa cenere, e quindi muore, per richiamare la famosa metafora) è una maschera che nasconde il vero senso del morire, dato dal compimento della vita. Ritenere la morte come un diventare altro e, quindi, nulla, è violenza prima di tutto su se stessi: «L’orrore del diventare altro è, insieme, l’errore estremo, l’estrema follia»10.

La risurrezione cristiana fa parte di tale maschera, poiché la carne, il corpo prima di risorgere diventa nulla, anche se poi Severino ammette: «Eppure, sebbene profondamente sviante, quell’annuncio è una metafora del destino di ciò che, uscendo dalla manifestazione delle cose del mondo, non è diventato niente, ma eterno, e attende di ritornare, nella sua gloria»11. Con la “metafora”

cristiana Severino si è continuamente confrontato, da essa ha preso le distanze ma rimane il suo primo interlocutore: «I miei scritti non stanno andando verso il cristianesimo: vanno chiarendo il senso della nostra destinazione a una Gioia infinitamente più alta di quella che il cristianesimo promette a chi ha avuto fede in Gesù. Certo, rispetto alla crescente violenza del mondo, una società che adotti i valori cristiani è per tutti noi preferibile. Ma le preferenze non risolvono i problemi dell’uomo»12.

Nella storia dell’Occidente, l’angoscia della morte è rimossa con un’altra angoscia, quella del divenire. Perciò, la vera educazione alla morte, «regina di tutti i dolori», avviene nella misura in cui ci si libera dall’alienazione del divenire, e si riconosce l’eternità di ogni essente, di cui il morire è manifestazione: «l’eternità compete a ogni essente non perché esso è contenuto originariamente in un Dio, o perché la sua materia è eterna, o la quantità totale di energia dell’universo rimane costante, ma perché esso è quell’essente che è»13.

Severino accentua la differenza tra la sua comprensione del dolore/morte e quella cristiana.

Ebbene, la sua obiezione a una interpretazione strumentale e superficiale del dolore (dolorismo) è pertinente, coglie nel segno i limiti di una spiritualità o fede, che ha inteso la sofferenza o morte come

“concime” per l’eternità, soprattutto nella mediazione storico-spirituale e teologica. Nel messaggio biblico neotestamentario, in realtà, ci sono diverse interpretazioni del dolore (anche in tensione) ma

9 EMANUELE SEVERINO, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Milano 2018, p. 15.

10 Ibid., p. 135.

11 Ibid., p. 16.

12 Ibid., p. 83.

13 Ibid, p. 55.

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nessuna esaltazione o uso strumentale. Rispetto a una lettura punitiva del dolore (la dottrina retributiva), trasversale nelle pagine bibliche, domina invece una comprensione esistenziale e rivelativa della sofferenza (vedi il libro Giobbe). Il dolore e la sofferenza sono parte della vita, hanno dignità in sé, sono “necessari” nel senso che manifestano l’essere umano e la gloria di Dio. In essi, infatti, si esprimono, non come atto strumentale ma rivelativo, la presenza di Dio e la forza dell’uomo.

Nel capitolo 9 di Giovanni si racconta dell’incontro di Gesù con un cieco dalla nascita. Alla domanda dei discepoli: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?», Gesù risponde: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (Gv 9,2-3).

La morte, dal punto di vista cristiano, non è qualcosa di relativo a qualcos’altro ma è una esperienza che ha dignità in sé, accompagna la vita, le appartiene, è il suo compimento, come sostiene Severino. La morte di Gesù, nei racconti dei vangeli sinottici, viene presentata come il punto di arrivo della sua vita, l’integrale esistenziale di una esistenza donata, pur in tutta la sua drammaticità, perché non è la morte dell’eroe greco ma mors autem crucis. Nel quarto vangelo (Giovanni) il momento della morte viene scolpito con questa espressione: «È compiuto» (Τετέλεσται, Gv 19,30). La croce è presentata dall’evangelista come un trono di gloria: il re crocifisso appare in tutta la sua maestà. Nella morte si compie la salvezza, che non è redenzione dal dolore o dal male, ma nel dolore e nel male.

Nel cristianesimo non c’è nessun superamento del crocifisso ma la sua eternizzazione. Il corpo del Risorto è il vero corpo del Crocifisso: i testi biblici non parlano della risurrezione di Gesù come del diventare altro, perché il Risorto è presente con il suo vero corpo, che mangia, si lascia toccare, anche se compreso in una dimensione non diversa, ma piena, che Paolo codifica come un bell’ossimoro:

σῶμα πνευματικόν (1 Cor 15,44).