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L’interdetto della restituzione della fede alla verità

Ethos e Destino La decisione dell’Origine

2. L’interdetto della restituzione della fede alla verità

Nel frattempo, l’obiettiva disponibilità dell’impianto iniziale di Severino per il disinnesco del tratto nichilistico della fede cristiana si è chiusa. Non solo in un senso passivo, attraverso il riconoscimento severiniano della legittima costatazione da parte della “Chiesa”, della incompatibilità del suo pensiero con il dogma (e con la teologia) del cristianesimo. Ma anche in un senso attivo:

attraverso la positiva denuncia del carattere irredimibile della deviazione cristiana (e in generale, di ogni fede attuale).

La re-tractatio severiniana dell’orizzonte aperto dagli Studi di filosofia della prassi9, considera tramontata questa possibilità. Gli sviluppi dell’apparire attuale della verità impongono di considerare inattuale quell’apertura. Non si dà attualmente nessuna figura della fede – ossia dell’anticipazione di una via della verità possibile – che non sia irrimediabilmente compromessa dall’alienazione della verità. Perché ogni fede, attualmente, è generata – non più semplicemente attratta – nel peccato originale (cioè nell’errore abissale) della fede nella nientità dell’essere dell’ente, i cui effetti avvolgono interamente la terra isolata, ossia irrimediabilmente separata dalla verità eterna.

In questa versione secolarizzata del peccato originale che ha corrotto la natura e la storia, si configura un piano del confronto in cui le cui posizioni appaiono rovesciate. Quando Severino stesso sollecitava la presentazione di una semantica metafisica e teologica in grado di assimilare la verità della sua istanza critica e di mostrare la più radicale congruenza del pensiero credente con la ragione veritativa, l’opposizione “dogmatica” era rigida e l’attenzione “teologica” pressoché inesistente. Nel momento in cui ha incominciato ad apparire il più sostanziale interesse dei teologi per la portata fondamentale della provocazione severiniana, Severino stesso – che pure è sempre rimasto interlocutore puntualmente attento e rispettosamente disponibile – ha formalizzato l’impossibilità definitiva di considerare il cristianesimo un interlocutore possibile per la testimonianza della verità incontrovertibile dell’originario. La fede cristiana non è più soltanto incompatibile con la verità ontologica nella sua configurazione attuale. In tale configurazione, essa va piuttosto iscritta – e perciò oltrepassata – nella sua alienazione totale. Questo giudizio la colpisce con tanto maggiore determinazione, quanto più essa mantiene – forse unica nella costellazione attuale – la pretesa di valere come verità assoluta. Questa pretesa è irrazionale: dunque, come la pretesa di ogni fede che appare nella cultura alienata, indotta a farsi valere soltanto come volontà di potenza. Dunque, come violenza: senza giustizia, senza giustificazione.

9 EMANUELE SEVERINO, Prefazione, in Studi di filosofia della prassi, cit.

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La sorpresa – ormai clamorosamente evidente nelle ultime scritture severiniane10 – sta nel fatto che il linguaggio della testimonianza delle implicazioni della verità, che accompagna questa chiusura, coincide con quello di una inedita apertura all’attesa messianica di un apparire redento che si iscrive nel profilo etico-escatologico della testimonianza cristiana. L’apparire della verità originaria dell’essere dell’ente, pur nella contraddizione che ha isolato la terra dalla verità, contempla la giustizia necessaria di un suo felice compimento nel cerchio di una terra salvata.

Questa apertura – in alcun modo deducibile dall’eterna verità dell’apparire finito – che necessariamente e equamente ogni determinazione dell’ente, giusto o ingiusto che sia – ripropone paradossalmente l’ineludibilità della dimensione credente intrinseca all’articolazione del senso della verità con la testimonianza della sua giustizia: indeducibile dall’onticità dell’essere, in ogni caso identico con sé stesso. Questa identità è l’unica giustizia ontica che l’ente conosce. Ma il destino della verità che si inoltra concretamente nella visione del suo riscatto dalla contraddizione del negativo etico che avvolge la fede escatologica nell’apparire autentico – cioè assiologicamente connotato – contraddice la rimozione della fede escatologica dalla struttura originaria. La fede introduce il motivo – necessario – della giustificazione assiologica del positivo e del superamento del negativo: in un senso trasversale e diverso rispetto al puro essere dell’ente e al puro costituirsi dell’apparire. Severino chiama “compito originario” questo progetto, assegnandolo alla necessaria ingiunzione di praticare la sua fede anticipatrice in coerenza con la verità manifesta. Ora, per coerenza di sistema, deve riconsegnare questo compito all’originario assoluto dell’essere e al destino immodificabile in cui esso vive: la libertà, la scelta, la decisione, la prassi umana non hanno alcun potere su di esso (se non quello di oscurarlo). Rimane il fatto che – strutturalmente ed epistemicamente – la fede nella positività assiologica di quel necessario destino di dispiegamento della gloria, che restituisce agli umani la gioia del suo eterno affermarsi nel cerchio dell’apparire che riscatta la terra isolata, è l’unico nome possibile per indicare la qualità etica di questo atteso riscatto. La decisione dell’origine – dovunque sia posta, è insuperabile struttura sintattica dell’ethos della verità. E questa posizione ha la forma dell’atto della fede nella giustizia della verità, che non appare incontrovertibilmente. L’effettività ontologica − la sua giustizia − non è immediatamente data con l’evidenza ontica della sua struttura logica: ma incontrovertibilmente esigita dal linguaggio che enuncia (testimonia) la verità come comandamento, ingiunzione, dovere intellettuale e compito responsabile.

Severino nega la necessità della fede nella verità, insistendo sul fatto che la sua manifestazione epistemica è la condizione necessaria e sufficiente della sua valenza assiologica. Ma per far valere questo nesso sintattico, non ha altro modo se non quello di confrontarsi con il linguaggio della fede.

10 Ma il repertorio di tutti i contenuti cristiani che riflettono l’alienazione della fede è già puntigliosamente evocato nella seconda parte del lavoro dedicato alla “Giustizia”, il cui primo capitolo – singolarmente illuminante – è dedicato al detto di Anassimandro, sul quale ritornerà brevemente tra poco: EMANUELE SEVERINO, Dike, Adelphi, Milano 2015.

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Nello stesso tempo, l’effetto di questa rimozione, che chiama in causa contraddittoriamente la fede – non voluta eppure necessariamente praticata – che associa all’apparire l’inapparente delle cose sperate, e illumina la fenomenalità argomentando l’invisibile. La stessa negazione di questa fede, che impegna l’argomentazione sul terreno della sua intenzionalità e dei suoi contenuti, involontariamente la afferma. In effetti, nessuna enunciazione della verità che deve essere viene al linguaggio senza essere avvolta nel linguaggio della fede nella giustizia che le deve corrispondere. La verità, separata dalla giustizia, è indifferente al dover essere: anche a riguardo di sé stessa. Il profilo originario di questo cerchio ontologicamente irriducibile della coscienza credente è il contenuto rimosso dell’indagine severiniana sull’originario. La riduzione del positivo e del negativo assiologico al positivo e al negativo ontico è il sogno della filosofia occidentale, che coltiva il progetto di potersi sottrarre all’incertezza insuperabile circa la giustizia dei propri affetti – che solo nella fede può riconoscere il proprio stabile fondamento, la propria bebaiote arche – coltivando la sua riduzione alla stabilità delle cose. Non è sfuggita a questa ambizione neppure la dottrina cristiana su Dio e sui trascendentali: irresistibilmente attratta dalla risoluzione del positivo assiologico al fondamento ontico della totalità, che ha cercato di ricondurre il male al non-essere entitativo falsamente apparente e il bene all’essere assoluto onticamente pieno di sé.

L’ontologia di Severino è l’ultimo passo possibile di questa rimozione, che accompagna l’ossessione del logos e del nomos greco in cerca della pura risoluzione ontica di aletheia e dike nell’on e on e nella perfetta apatheia del suo ethos. In questo modo, però, la filosofia di Severino è anche la testimonianza più radicale della conversione ontologica richiesta alla ragione teologica del cristianesimo, alla cui vocazione appartiene in primo luogo il pensiero testimoniale della decisione originaria dell’essere e dell’eterno destino dell’ente, come follia dell’affezione irrevocabile “del dio”

per il “non divino”. Nelle considerazioni seguenti desidero esplicitare brevemente questo assunto.

L’apertura della seconda fase severiniana è segnata da un decisivo incremento della sovrapposizione senza residui dell’originario eterno con il destino eterno, tematicamente declinata proprio nella prospettiva di una escatologia – o se si vuole, di una apocalittica – della verità, che assume i toni e il linguaggio della redenzione salvifica, cioè il riscatto della Terra isolata (dall’alienazione radicale del senso dell’essere) nella Terra salvata (la restituzione radicale della verità dell’ente), l’oltrepassamento dell’Io empirico nella gioia nell’Io destinale, il dissolvimento dell’angoscia nichilistica dell’essere alienato nello splendore della gloria dell’ente riconciliato.

Evidente è apparso a tutti il fatto che in questa nuova declinazione destinale della testimonianza della verità, lo scenario assuma i toni e i modi dell’escatologia cristiana. Questa evidenza è segnata, nondimeno, da un duplice paradosso. Il primo è che questo debito non sia in alcun modo riconosciuto:

adducendo il fatto che il senso dell’escatologia redentiva dell’apparire mondano è opposto a quello della fede cristiana. Il secondo è che la fonte di questo debito è ora definitivamente e totalmente

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consegnata alla contraddizione e all’errore: senza possibilità di riscatto ad opera di una radicalmente diversa interpretazione. Questo tratto escatologico-soteriologico del linguaggio della testimonianza della verità, non appariva in tutta la sua esuberanza nella originaria disputa sul teorema/dogma della creazione avviata da Ritornare a Parmenide11. E quindi, non ne appariva neppure la contraddizione rispetto alla tesi della pura eternità ontica dell’ente. Perché, ora, azzardarsi a chiamare “gloria” e

“gioia” l’eternità del destino della verità, necessaria e indecidibile? La necessità dell’eterno destino, dove anche la differenza del paradiso e dell’inferno è onticamente indecidibile, anche se ontologicamente conseguente all’inclusione dell’affezione assiologica del volere nella struttura originaria dell’essere, come può lasciarsi illuminare nelle figure assiologiche, desideranti, emozionali, di un “eterno paradiso della verità” e di un “entusiasmante spettacolo di gloria”?

“Parmenidismo per il popolo”? Eppure, Severino afferma ripetutamente che la volontà di giustificazione dell’ente sta a zero sullo scenario dell’apparire della verità dell’essere: la sua sottrazione al nichilismo le deve bastare anche come consegna al godimento. Le pure costellazioni del destino degli eterni sono indifferenti alle contaminate emozioni del desiderio dei mortali: e la verità necessaria ospita, necessariamente, anche ogni nefandezza e alienazione della giustizia dell’essere. Da sempre e per sempre l’apparire ontico è irrimediabilmente vulnerabile all’eterno ritorno degli opposti etici. Che cosa è realmente Destino, in questa rappresentazione della Necessità, doverosamente fedele all’apatheia del suo ethos testimoniale? Il compito della filosofia, del resto, ribadisce Severino, è quello di dare testimonianza alla verità, non quello di edificare la verità delle ragioni e non quello di consolare la sensibilità delle affezioni. L’indifferenza e la insindacabile ospitalità della filosofia che testimonia la verità, nei confronti degli eterni imperturbabilmente inclusivi del suo eterno spettacolo e della sua eterna contraddizione, non dovrebbe mantenere toni e modi più austeri e meno ammiccanti nei confronti delle inquietudini e delle attese dei mortali (che credono veramente di essere mortali) e dei nascenti (che credono veramente di nascere)?

Eppure, la testimonianza di Severino è iscritta in un ethos della Necessità della giustizia che non comunica affatto questa doverosa apatheia della verità del Destino. E questa non è certo l’ultima delle ragioni del fascino che, a dispetto di tutto il suo magistero, ha esercitato ed esercita sulla passione filosofica di intere generazioni di studenti.

L’audacia con la quale il sistema severiniano della verità si consegna – contraddittoriamente – al linguaggio della fede nella giustizia gli fa onore: sfida l’irrisione del puro folle, che ci richiama alla stoltezza dei nostri futili festeggiamenti per la morte di Dio, e annuncia la sapienza imperdibile degli eterni del sacro che contraddicono la ybris della nostra volontà di potenza sul bene e sul male, sulla vita e sulla morte (i due alberi “proibiti” dell’Eden, al cui interdetto è legata la nostra

11 ID., Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo. Nuova edizione ampliata, Adelphi, Milano 1982.

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“salvezza”)12. Severino si rifiuta di riconoscere questa fede: o meglio, si rifiuta di riconoscere come pistis i tratti dell’episteme che sostiene questo progetto. Questo è, però, secondo il mio parere, l’effetto di deriva della disattenzione della quale è fatto oggetto il cerchio più decisivo dell’alienazione occidentale: sicché attribuisco alla mancata discussione di questo tratto fondamentale la forzatura dell’intuizione severiniana che si concentra sul nichilismo che ne deriva, lasciando scoperto il lato della contraddizione che il tratto nichilistico della cultura occidentale incorpora nell’ethos della decisione circa l’origine che guida la sua teoria del fondamento. Il punto centrale della mia rilettura non è perciò la polemica con le deduzioni severiniane: è piuttosto l’individuazione del punto in cui si illumina – coerentemente e insieme sub contrario – la profonda convergenza fra la secolare rimozione della differenza fra il contenuto ontico e del significato etico della verità dell’essere che accomuna la tradizione della ricerca ontologia occidentale del fondamento. Il cerchio di questa contraddizione è più ampio, profondo e avvolgente, di quello del nichilismo che vi è contenuto. Il confronto con questa incompiuta elaborazione del nesso fra riduzione ontica dell’assiologico e deriva nichilistica dell’ontologico, di cui Severino rivela in recto e in obliquo la necessità di oltrepassamento, rappresenta un kairos unico per la stessa ragione teologica.