Ethos e Destino La decisione dell’Origine
3. Il cerchio alienato dell’extra-territorialità di Dike
Il commento al detto di Anassimandro illustra persuasivamente la connessione con l’inizio della filosofia che contraddice la signoria di Dike, lasciandosi distrarre dalla riduzione del problema del tragico alla questione del rapporto dell’uno e del molteplice, dell’immutabile e del diveniente.
Problema affatto secondario. La soluzione è sfiorata da Anassimandro, dove Dike compare per l’ultima volta come arbitro, all’inizio della parabola discendente al termine della quale riapparirà come ancella dell’essere, trasformata in dikaiosyne che lo giustifica invece di imporgli la sua ingiunzione etica. Nello stesso tempo, la struttura dell’origine messa in luce da Severino rappresenta l’ultimo passo possibile di questa rimozione, che cerca nell’anaffettività ontica dell’essere la perfetta identità del vero in cui si risolve senza residui anche il giusto. In questo modo, l’immediata auto-contraddittorietà di quella rimozione viene definitivamente alla luce della struttura originaria della
“verità”, alla quale Severino stesso lealmente si concede, assumendo – contraddittoriamente e al tempo stesso necessariamente – i tratti e il linguaggio della “fede” che le corrisponde.
12 Eccellenti e non convenzionali puntualizzazioni su questo coinvolgimento del sistema severiniano con questo profilo discriminante della “fede” cristiana nel quadro la “fede” occidentale (che ne dipende e, al tempo stesso, se ne distacca), in: LAURA CANDIOTTO, L’eternità dell’essere, una soteriologia?, in Charis, cit., pp. 17-36; INES TESTONI, Morte e indicazione di eternità di Emanuele Severino. Dal cambio di paradigma etico alla rivoluzione morale, in Charis, cit., pp.
175-192. Per il puntuale inquadramento dell’escatologia severiniana nei testi della sua progressione teoretica: GIUSEPPE GRIS, L’escatologia del destino. L’apocalisse del linguaggio nell’opera di Emanuele Severino, Schibboleth, Roma 2020.
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Nella filosofia occidentale la giustizia non è più un destino eterno della verità trascendente, essa è un aggiustamento a scadenza del riconoscimento reciproco. Non è più Dike, è dikaiosyne (che è tutt’altra cosa)13.
Di qui l’ambiguità di una tradizione condannata all’inclusione etica del linguaggio assiologico e alla rimozione formale della sua struttura veritativa. Il negativo ontico (l’alterità, la differenza, il divenire, la scomparsa) viene così a valere – surrettiziamente, ma alla fine anche epistemicamente – come negativo assiologico: diversamente l’episteme della verità non avrebbe persuasività di nomos della giustizia, come pretende l’ingiunzione, o il compito, di cercare sempre la verità, prima di tutto.
Nello stesso tempo, il negativo assiologico, che deve servire alla persuasione di un’ontologia della verità che deve salvare dall’angoscia e dalla colpa, come anche dalla precarietà e dalla finitezza, non può vantare alcuna autonomia rispetto al cerchio della manifestazione e della affermazione onto-logica della verità come pura manifestazione della conformità del logos al chreon (del “come è” al
“come deve”). Il rimosso ritorna continuamente, tuttavia, e ad ogni ritorno, si presenta con un di più di sentimento e di risentimento, che incoraggia alla sua più feroce espulsione. La gnosi ebraico-cristiana eterodossa ingaggia una lotta senza quartiere, e nell’intenzione senza eccezione, nei confronti della materia, del corpo, del sesso, della natura, della politica. L’ontologia filosofica e teologica assorbono questo conflitto nella tendenziale omologazione del negativo ontico con la finitezza deprecabile, con la vergogna morale, con la dissoluzione mortale. Non esiste alcuna ragione epistemica – né morale – per questa scivolosa equivalenza che abita l’ontologia occidentale dell’ente.
E tanto meno nel logos cristiano della creazione, incarnazione, risurrezione e nuova creazione.
Il punto di rottura e di sutura del collasso al quale la verità è condotta dalla sua pretesa di requisire la giustizia dell’ingiunzione, invece di onorare la sua sensibilità per il senso, si può osservare nello straordinario testo severiniano del commento al detto di Anassimandro che annuncia il problema.
Nella ri-lettura del frammento, da parte di Severino, a fronte di quella di Heidegger, la parola di Anassimandro mostra proprio questo: il corpo della filosofia dell’essere mostra di essere in procinto di chiudere definitivamente il varco alla conciliazione della verità e della giustizia, abbandonando le due – la verità ontologica e la giustizia etica – al loro separato destino. (E all’inesausto tentativo di risolvere e dissolvere la seconda nella prima). Dike, in quanto custode dell’esser sé dell’ente è necessaria, ma anche adikia, ossia l’esser-sé che si separa, lo è. Il punto di
13 Storia obliata e, ormai, scarsamente frequentata, nonostante la ricorrente attenzione dell’antropologia filosofica del diritto per la teologia politica della secolarizzazione. Per riaccendere l’interesse in questa direzione: E.A.HAVELOCK, Dike. La nascita della coscienza, Laterza, Roma-Bari 2003; ANNA JELLAMO, Il cammino di Dike. L’idea di giustizia da Omero a Eschilo, Donzelli, Roma 2005. La teologia dal canto suo è singolarmente latitante in proposito: nonostante il rilievo paolino della dikaiosyne tou theou e la tematica cruciale del giudizio escatologico, la trattazione della giustizia di Dio continua a frequentare (con imbarazzo) il profilo giuridico della giustizia assoluta e ne elude l’approfondimento enfatizzando la visione romantica dell’amore assoluto. La ricomposizione ontologica della giustizia e dell’amore rimane lontana.
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sovrapposizione è appunto l’esser-sé dell’ente, che nessuno può negargli: né all’interno dell’unità dell’essere né fuori di essa, in base al fermissimo principio che vieta ad ogni essente di essere altro e di diventare altro, nullificandosi. La chiave – osserva giustamente Severino – è il duplice senso della necessità (kata chreon): che però, in Severino, ormai, si risolve nella identità ontica dell’esser-sé, che non si distingue dal vincolo etico dell’ingiunzione. Se comunque l’ente, in quanto ente, non abbandona in nessun caso la condizione dell’esser-sé, come può l’ingiustizia essere imputata a una delle due condizioni (la separazione)? Evidentemente, la differenza è nel modo di separarsi: ma allora essa varrebbe anche per il modo di unirsi, che non deve contraddire la giustizia dell’esser-sé, che rimane da difendere anche all’interno dell’Uno. Proprio questo è il sintomo che questa differenza ontologica – la modalità etica – è l’orizzonte del lettore moderno, e pertanto il punto di caduta a cui viene ricondotto il testo (che già non sa più spiegare realmente perché Dike impone di espiare la separazione, dopo averla permessa; o come la separazione sia avvenuta, nonostante l’occhiuta vigilanza di Dike). Il testo originario era iniziato con una dichiarazione programmatica di grande interesse:
Nel mondo greco, la parola dike, si riferisce all’inizio alla dimensione giuridica, e prima ancora, religiosa. Ma la filosofia porta alla luce un significato essenzialmente più profondo di questa parola. Si può dire che l’avvento della filosofia coincida con l’avvento di questo significato. Dike viene a significare l’incondizionata stabilità del sapere. E richiede la stabilità incondizionata dell’essere, che riguarda tutto ciò che l’uomo può pensare e può fare. Secondo (seguendo) essa si svolge l’intera storia dell’Occidente. Dike è chiamata da Aristotele il principio più stabile14.
Dunque, l’intera storia dell’Occidente si svolge secondo Dike: ma il tema di Dike, ormai, coincide semplicemente con il separarsi e il riunirsi degli essenti, con il problema ontico dell’uno e del molteplice. Problema? Quale problema? Il problema del molteplice è un problema greco. Per la creazione biblica è una festa dell’essere. Il problema del diveniente è un problema greco. Per la Bibbia è la bellezza dei viventi.
Nel commento di Severino, l’adikia è comunque il separarsi: e per la loro adikia le cose devono “espiare la pena” secondo l’ordine del tempo, e “pagare il fio” della loro separazione.
Lasciamo per il momento in sospeso la denuncia del carattere nichilistico che affligge l’interpretazione della physis (genesis e phtora delle cose come nascita e morte che significano venire dal nulla e andare nel nulla): che non è neppure il focus del frammento, dove dike e adikia si giocano semplicemente in rapporto al ri-congiungersi e al separarsi. Ma appunto, quale rapporto? Perché mai Dike, nella sua sovrana custodia, è incapace di resistere alla separazione, ovvero consente il prodursi dell’adikia, per poi imporne l’espiazione? Si tratta forse del gioco sadico di Dike, che favorisce il peccato in nome della dignità dell’essere-sé a cui dell’ente avrebbe eternamente diritto, per poi godere
14 EMANUELE SEVERINO, Dike, cit., p. 17.
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dell’espiazione infinita di una separazione che dovrebbe contraddittoriamente annullarsi nell’Uno?
Certo, conosciamo molti modelli teologici paurosamente ispirati da questa spiegazione della creazione come glorificazione auto-riferita e della redenzione come espiazione impossibile. Se Dike fosse semplicemente il principio fermissimo e innegabile dell’identità dell’essere con sé stesso non muoverebbe un dito in favore della separazione: ovvero, la separazione sarebbe impossibile, in qualsiasi senso nichilistico o non nichilistico, perché sarebbe immediatamente autocontraddittoria.
Dunque, l’ente si può separare, in qualche modo continuando a realizzare il fermo principio dell’esser-sé che non lo può abbandonare, e che esso non può abbandonare anche se assurdamente potesse volerlo, perché la necessità dell’esser-sé può avvenire secondo giustizia o secondo ingiustizia:
fermo restando il fermissimo principio. Esiste evidentemente una complicità della suprema giustizia con l’avventura della separazione dell’ente, che in sé corrisponde alla sua destinazione di esser-sé, che niente gli può negare. Ed esiste un modo giusto e un modo ingiusto di essere incluso nell’Uno e di essere separato dall’Uno. Il kata chreon della verità formale dell’ente non è lo stesso kata chreon della giustizia concreta dell’ente. L’avventura dell’ente, secondo questo nesso, non nega la necessità dell’esser-sé, che non può coincidere con l’esser niente o con l’esser altro. Nello stesso tempo deve essere iscritta nel linguaggio della colpa e della violenza, dell’espiazione e del riscatto, la necessità che il modo dell’esser-sé unito nell’Uno e dell’esser-sé separato dall’Uno, corrisponda alla qualità dell’essere unito e separato secondo giustizia.
Nel frammento di Anassimandro, questa esplicitazione della modalità e della qualità è ormai solo implicita, perché il processo di fusione della verità e della giustizia in un solo linguaggio astrattamente ontico è già avviato. Dike non è ancora divenuta semplicemente il nome della
“dimensione giuridica” dei rapporti (come lo sarà dikaiosyne, da Aristotele). Dike rimane qui, appunto, alla soglia del suo tramonto, la figura misteriosa della custodia del dover essere dell’ente come deve secondo la giustizia del suo modo di essere nel legame con la decisione dell’origine.