si gioca su un’altra scacchiera
4. La sua rigorizzazione ontologica nella Teosofia di Rosmini
È ciò che si è impegnato a fare per primo lo stesso Antonio Rosmini. Ciò che, infatti, balza evidente agli occhi nel possente impegno speculativo da lui profuso nella Teosofia – com’egli precisa nella Prefazione – è la messa in luce della «necessità di un “intelligibile eterno contenente le cose tutte” […] che non ebbe mai e non può avere altro nome, che quel nome che gli impose il Cristianesimo, che lo fece conoscere all’uomo che per natura l’ignora, il Verbo di Dio»14. In conseguenza di questo assunto, Rosmini muove programmaticamente dall’esplicazione
11 Cfr. ad esempio, TOMMASO D'AQUINO (san), Summa Theologiae, I, q. 45, a. 7 ad 3um; cfr. anche ibid., a. 6 corpus.
12 Ibid., I, q. 15, a. 2 corpus.
13 Ibid., ad 3um.
14 ANTONIO ROSMINI, Teosofia, X, Istituto di Studi Filosofici – Centro Internazionale di Studi Rosminiani – Città Nuova Editrice, Roma 1998 («Opere di Antonio Rosmini», I), Prefazione, p. 49.
42
dell’intelligenza ontologica della co-originarietà dell’Unità e della Trinità nell’Essere infinito e, di conseguenza, dell’unità e della molteplicità nell’essere finito. Egli s’impegna così a pensare l’ontologia dell’unità dell’E/essere “dopo” o “in contemporanea” con quella della o, meglio, dalla Trinità. E lo fa formulando una «legge ontologica» ch’egli definisce «universale»: «non c’è nulla, né l’uno, né l’essere, né l’ente, che non abbia il suo altro almeno dialettico». Tale legge – secondo Rosmini – esprime «il principio della molteplicità nell’essere; tuttavia non ispezza l’essere e non gli toglie l’esser uno, ma mostra che in lui c’è un ordine, una moltiplicità organata, che è l’altro dell’uno, e che lungi dal distruggere l’uno lo costituisce sussistente»15.
A fondamento dell’ontologia, dunque, vi è per Rosmini il principio dell’Essere Uno infinito sussistente in quanto per sé contemplante l’altro di Sé in Sé e al-di-là o “fuori” di Sé, ma destinato in quanto tale a essere uno nell’Uno. Ora, una tale ontologia dell’Essere Uno contemplante in Sé l’alterità come condizione della sua stessa sussistenza e unità non può che essere un’ontologia trinitaria: in quanto l’Essere Uno che in sé contempla l’altro senza “ispezzare” l’unità, ma in sé organandola a sussistenza, è precisamente il Dio che, in obbedienza alla rivelazione, la tradizione cristiana ha chiamato “Trinità”. Dal quale deriva, in altra forma – quella della creazione –, ma sempre e solo in obbedienza alla “legge ontologica universale”, la molteplicità degli enti finiti per sé destinata all’unità.
È questo, in definitiva, il quomodo sit in riferimento all’essere che in prima istanza Rosmini s’impegna a mostrare per rinvenire – scrive – «la via di spiegare l’antinomia dell’uno e de’ molti;
mostrando che non involve contraddizione»16. Il che implica l’esercizio di un’impregiudicata ontologia capace di «aprire il seno profondo dell’essere, e diligentemente riguardare tutto ciò che ne’
suoi più riposti visceri si nasconde, per quanto è dato all’inferme nostre pupille: questo solo potendoci dare quella notizia e teoria che noi cerchiamo dell’intima costituzione e primordiale ordine dell’essere stesso»17. Essendo evidente che l’«aprire il senso profondo dell’essere», compito proprio ed autonomo dell’ontologia, è positivamente orientato dall’evento in cui – per la fede – l’Essere stesso ha estroverso verso il creato le sue stesse viscere: nell’inaudito del farsi carne del suo stesso Λόγος sino all’abbandono patito in croce. Così entrambi i percorsi dell’intelligenza dell’unità di Dio, quello filosofico e quello teologico, possono reciprocamente fecondarsi nell’istituzione di una pertinente ontologia.
In quale senso, dunque, l’Essere uno infinito è in definitiva – per usare il linguaggio di Rosmini – in e per se stesso distinguentesi in tre forme co-originarie in cui soltanto sussiste come tale, e cioè appunto come l’Essere? La mossa teoretica di Rosmini, ispirata dalla luce della
15 ID., Teosofia, Parte I: Ontologia, Libro II, L’essere uno, Sez. V, Cap. VIII, n. 676; cit., p. 648.
16 Ibid., Proemio, n. 200; cit., p. 207.
17 Ibid., n. 201.
43
Rivelazione, ma in sé autonomamente eseguita in chiave ontologica, è racchiusa in questa sintetica affermazione: «1. Iddio [e cioè l’Essere uno infinito] non conoscerebbe e non amerebbe perfettamente se stesso, se se stesso inteso, e se stesso amato non sussistesse. 2. Quando il se stesso inteso, e il se stesso amato non sussistessero, ci sarebbe della materia in Dio, ossia dell’indeterminato; perché l’oggetto dell’intelletto che non sussiste è indeterminato e imperfetto; e il termine dell’amore che non sussiste è pure indeterminato e imperfetto»18.
Tale affermazione fa emergere tre elementi per sé qualificanti un’ontologia trinitaria così organata: 1) l’Essere uno infinito, in quanto sussistente, non può come tale concepirsi come indeterminato, perché se tale restasse sarebbe in sé contradditorio; 2) la determinazione dell’Essere uno infinito comporta per sé la sussistenza dei termini che come tali lo determinano; 3) tale determinazione va pensata nella prospettiva della conoscenza e dell’amore che l’Essere Uno infinito ha di Sé per e in Se stesso. Ciò significa che l’Essere uno infinito per sé deve potersi conoscere come quel conosciuto che è la Parola dell’Essere ovvero l’Essere stesso in quanto Parola, e deve potersi amare come quell’amato che è l’Amore dell’Essere ovvero l’Essere stesso in quanto Amore. In questo modo, l’ontologia per sé semplicemente apofatica dell’Essere uno infinito (prima della sua communicatio per via di Rivelazione) in quanto del tutto «indeterminatum» di cui parla Tommaso d’Aquino19, risulta trinitariamente compiuta grazie alla determinazione trinitaria dell’Essere come Parola e come Amore. Determinazione qui significando, nel linguaggio di Rosmini, i due «termini»
propri dell’atto dell’Essere uno infinito in quanto tale: il conoscersi sussistendo come conosciuto e l’amarsi sussistente come amato. La ragione ontologica della verità trinitaria dell’Essere uno infinito, che è Dio, risulta dunque così esposta:
avendo l’atto intellettivo per oggetto se stesso, se quest’oggetto dell’intellezione rimanesse solo un termine e ultimo punto dell’intellezione e non sussistesse di sussistenza propria e personale, l’intellezione non sarebbe infinita e perfettissima, poiché l’essenza divina che è la cosa intesa, non sarebbe pienamente intesa, perché l’essenza divina intelligente sussiste, e la cosa intesa non sussisterebbe, e però la cosa intesa come intesa non sarebbe l’essenza divina, ma una sua similitudine o idea.
Ma la similitudine o idea non fa conoscere pienamente la cosa qual è in se stessa.
Per conoscere adunque pienamente la cosa in sé esistente è necessario che essa come intesa sussista, ossia che l’atto intellettivo sia tale che non produca solamente un semplice oggetto a se stesso, ma un oggetto pari alla cosa che vuole intendere. E poiché la cosa che l’intellezione divina vuole intendere è se stessa tutta qual è personalmente esistente, è necessario che la cosa intesa come intesa abbia un’esistenza personale pari alla stessa essenza intelligente; e così si abbiano due persone aventi l’una e l’altra la stessa intellezione. E lo stesso […] della terza persona
18 ID., Teosofia: Frammenti VI, n. 2930, cit., p. 195.
19 In effetti, quando Tommaso tratta in prima istanza dell’unità dell’essere di Dio ne tratta non nel registro catafatico del quomodo sit, ma in quello apofatico del quomodo non sit: a significare – almeno implicitamente – che prima della trattazione delle Persone non è possibile dire qualcosa in positivo dell’unità di Dio, perché solo lo è in negativo: in quanto
«negatio divisionis», nel senso che «unumquodque, sicut custodit suum esse, ita custodit suam unitatem» (TOMMASO D'AQUINO (san), Summa Theologiae, q. 11, a. 1), e così accade – maxime – in Dio, essendo Egli «Ipsum esse subsistens, omnibus modis indeterminatum» (Ibid., q. 11, a. 4).
44 che è la stessa essenza che esiste personalmente come essenza amata per la
perfezione dell’atto dell’amore. […] così consegue lo stesso se si considera che l’atto intellettivo volitivo di cui parliamo è l’essere stesso il quale non può avere per termine del suo atto che essere perché è tutto e solo essere indivisibile e illimitabile20.
Una volta raggiunto questo fondamentale guadagno in riferimento all’Essere uno infinito, che come tale sussiste nella trinità delle sue forme per sé sussistenti (cui la teologia cristiana dà il nome di “persone”), il che non toglie la sua unità ma la costituisce come tale determinandola nella verità stessa del suo essere, si riaffaccia – osserva Rosmini – «una questione della più alta importanza: quale sia l’origine della pluralità degli enti [finiti]». Infatti,
quando la mente speculativa può dall’uno, senza alcun salto, discendere ai molti, trovando nell’uno stesso la ragione e la causa di questo passaggio; e quando del pari le è dato d’ascendere dai molti fino all’uno, che li contiene e li spiega; allora ella s’acquieta sodisfatta, e crede sapere. In questo doppio movimento dunque, o se così meglio piace chiamarlo, in questa doppia azione del pensiero, che va incessantemente da’ molti all’uno, e dall’uno ai molti, senz’arbitrio, ma per una continua necessità di ragione, consiste la vita intellettiva dello speculatore: la scienza poi consiste nel vedere i molti nell’uno, e l’uno ne’ molti senza contraddizione, né confusione, né distruzione de’ due termini21.
Ora, è precisamente un’ontologia trinitaria dell’Essere uno infinito nelle sue tre forme sussistenti che offre la ragione della molteplicità degli enti finiti nel loro riferimento primo ed ultimo, protologico ed escatologico, all’Uno dell’Essere infinito che è per sé Trino. Così illuminando il senso ontologico della preghiera di Cristo che intrinsecamente connette, nel suo avvento di Parola di Dio fatta carne e nel dono dello Spirito Santo (la Claritas ovvero la Gloria) “senza misura” (cfr. Gv 3,34), l’unum sumus di sé col Padre e l’ut unum sint in nobis di tutti gli essenti. Il discorso, a questo punto, sarebbe assai vasto ed esigerebbe tutta una serie di attente articolazioni. Basti dire che l’effettuazione nell’essere degli enti finiti da parte dell’Essere infinito, Uno e Trino, rinviene la sua ragione ontologica ultima – scrive Rosmini – in quanto si dà come «effettuazione dell’infinito nel finito»: così che il mondo, nella sua realtà determinata, essendo il «termine» dell’atto con cui Dio pone il suo essere “fuori” di Sé come altro, risulta «una moltitudine di enti, che non acquista unità se non per l’unità del fine divino [cui è destinato] che è Dio stesso, ossia l’infinito partecipato»22: e ciò in modo che l’Essere infinito increato e l’essere finito creato siano tra loro trinitariamente relati “senza separazione e senza confusione”. Il mondo cioè – per dirlo con rapida metafora – è costituto da una
20 ANTONIO ROSMINI, Teosofia, Parte I: Ontologia, Libro III, L’essere trino, Sez. VI, Capitolo IV, n. 1310, cit., Tomo III, pp. 164-165.
21 ID., Teosofia, Libro II, L’essere uno, Proemio, n. 198; cit., Tomo I, p. 206.
22 ID., Teosofia, Parte I: Ontologia, Libro III, L’essere trino, Sez. VI, Cap. V, n. 1394: cit., Tomo III, p. 281.
45
molteplicità di “parole” in cui liberamente e gratuitamente si rifrange nella creazione l’unica e sussistente Parola, che è in Dio ed è Dio (cfr. Gv 1,1), al fine d’invitarle – tali molteplici parole – ad essere ricapitolate in sé, Parola fatta carne, in virtù del Soffio di libertà e amore dello Spirito. Secondo la preghiera dell’unità del Cristo: «ut dilectio, qua dilexisti me, in ipsis sit, et ego in ipsis» (Gv 17,26).
Spiega Rosmini:
coll’incarnarsi [del Verbo] […] è avvenuto, che la creatura, l’Uomo, sia stato fatto Dio, e così sia un oggetto degno dell’amore di Dio. Essendo infinito dunque quell’amore infinito, conviene ch’egli si porti in tutti gli oggetti che possono esser degni di lui anche per sé finiti, e il portarsi di questo amore in tali oggetti, è un crearli.
Per partecipazione poi dello Spirito di Cristo anche altri uomini sono chiamati “Déi”
nelle sacre carte. Manifestum est autem, dice S. Tommaso, quod aliquis ex participatione Verbi Dei fit Deus participative, e così anche altri uomini sono oggetti degni dell’amore di Dio, e però doveano essere predestinati a divenir conformi a Cristo, ed esser creati. In tal modo anche questi altri uomini entrano a costituire il fine concreto del Mondo, e sono amati per se stessi, perché informati da Cristo23.