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Cristianesimo come la più alta sapienza isolata

Il cristianesimo come alter ego folle del destino

1. Cristianesimo come la più alta sapienza isolata

Richiamandomi al nesso (necessario – secondo il destino della necessità) chiarito da Emanuele Severino ne La morte e la terra2 fra terra isolata dal destino e pura terra (= la terra che appare nel destino non contrastato dall’isolamento nichilistico), onde ogni evento della terra isolata si fonda sulla terra non isolata o pura, rispetto alla quale non è tutt’altro, ma l’esito stravolto di un corrispondente essente non isolato; e considerando che ciò vale per qualsivoglia essente, dunque anche per ogni forma di sapienza isolata dal destino (dalla filosofia greca, alla scienza moderna, all’Illuminismo, all’Idealismo, al Comunismo… ), alla luce insomma di questa corrispondenza fra terra isolata e terra pura, tento – nel saggio Presagi del destino. Emanuele Severino e il cristianesimo3 – di mostrare che fra tutte le forme di sapienza della terra isolata, il cristianesimo è la più simile al destino della verità (di cui i “cosiddetti” libri di E. Severino sono la testimonianza).

Questo stesso – il destino stesso, cioè – ma, radicalmente stravolto in quanto preso nella rete sfigurante dell’ontologia greco-nichilistica che, del tutto condivisa, il cristianesimo si porta in seno.

In contrapposizione, direi che la sapienza meno simile al destino, agli antipodi dunque, nell’isolamento, rispetto al cristianesimo è costituita dal pensiero di Leopardi e Nietzsche.

Tra questi due estremi, si dispiegano tutti i medi da cui è costituita la cultura e la civiltà occidentale, ormai planetaria.

Il cristianesimo, dunque, complessivamente considerato come la sapienza della terra isolata, nell’abissale distanza, più simile al destino della verità. Lo sforzo più disperatamente proteso ad affermare l’eternità di ogni essente nella Gioia, sulla base della persuasione preliminare – e fatale! – del diventar nulla e da nulla. (Non per caso, direi, nell’Opera severiniana ci si imbatte non di rado in preziose immagini tratte dalla grande miniera cristiana, per illustrare in forma metaforica, perciò più immediatamente fruibile, la spaventosa complessità concettuale del destino).

1 Fabio Farotti – Docente al Master Death Studies & the end of life all’Università Degli Studi di Padova.

2 EMANUELE SEVERINO, La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011.

3 FABIO FAROTTI, Presagi del destino. Emanuele Severino e il cristianesimo, University Press, Padova 2021.

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Il cristianesimo dunque che, se per sé preso è contraddizione (duplice: 1. rispetto alle proprie premesse ontologiche greco-nichilistiche; 2. rispetto al destino), assunto invece come non separato dal destino (suo necessario retroscena, come di ogni cosa), ne è anche il più alto presagio.

Si tratta della tesi di fondo del saggio: il cristianesimo come contraddizione e presagio (il più alto).

Anche ogni altra forma di sapienza isolata stringe necessariamente un nesso di similarità col destino (= esprime, immersa nella follia, il destino o qualche suo tratto), ma, diciamo, complessivamente, restandone più remota e aliena: “meno simile”.

E però il “cristianesimo” non si presenta come una sapienza compatta e univoca; anzi, come ben si sa, estremamente variegata e spesso duramente conflittuale.

Di qui il problema. Tra le forme di “cristianesimo” così diverse e contrastanti quali la (sua) storia ci mostra, quale privilegiare come la più simile, nella distanza incolmabile, al destino?

In fondo abbiamo già risposto: quella meno segnata dalla coerenza nichilistica che necessariamente, per altro, gli urge dentro, e dunque quella in cui, nonostante tutto (e cioè contraddittoriamente), l’impegno di assegnazione dell’eternità gioiosa ad ogni cosa è massimo. Sino a raggiungere persino i corpi individuali (nella resurrezione finale). Questo il criterio del privilegiamento: il “cristianesimo” nella sua forma più contraddittoria e perciò meno rispettosa delle proprie premesse greche – quasi non ci fossero, nel mentre che pure sono riconosciute con viva potenza – circa la “certezza inconcussa” riguardo all’”esperienza” intesa come ciò in cui si mostra con evidenza il diventar nulla e da nulla (donde un Dio che crea ex nihilo, il dolore come vero annientamento, e il libero arbitrio dell’uomo, analiticamente implicante l’ancor nulla del futuro).

Daccapo: lo sforzo più potente (rispetto a ogni altra sapienza della terra isolata, Oriente incluso) di affermare l’eternità di ogni cosa, restando totalmente immersi nella persuasione del divenire come creazione e annientamento. Sì che proprio esso che, a suo modo (e cioè alla rovescia), ci indica la via, proprio esso è destinato necessariamente a perderla (a non trovarla sin da principio né mai) e ad annunziare che Dio è morto: speculativamente parlando è il cristianesimo stesso infatti (e, alla sua radice, la Grecia) che parla in nome della “verità” (= della coerenza della follia) in Leopardi e Nietzsche.

Dunque non il cristianesimo demistificato (demitizzato) e cioè progressivamente svuotato rispetto alle sue più grandi intuizioni (i “dogmi”), ove l’alibi dello spazio da riconoscere allo “spirito”

– che poi a ben vedere è sempre lo “spirito del divenire” –, liberandolo dalla lettera e dal mito, finisce per ucciderlo proprio nella sua presaga grandezza.

Allora quello più tradizionale e “dogmatico” (da S. Paolo, suo “fondatore”, ad Agostino e Tommaso, sino ai più grandi papi del nostro tempo: Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), quello cioè che fermamente sostiene la trascendenza di Dio e il suo essere atto puro, l’incarnazione

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storica del Figlio, la sua nascita dalla vergine Maria, la sua morte (reale, storica) e la sua resurrezione (non metaforica!), la provvidenzialità della storia, l’idea di “uomo” come figlio di Dio, l’Apocalisse, il Giudizio Universale e la resurrezione dei morti (imprescindibile!) e anzi dell’intera Natura.

Quello più tradizionale, s’è detto.

Ma anche e non di meno, aggiungiamo, il cristianesimo mistico-negativo, in cui certe intuizioni vertiginose (si pensi anzitutto al profondissimo Eckhart, cui è dato ampio spazio nel testo) eliminano bensì, tendenzialmente, il “dualismo” (contraddittorio) della tradizione e par dunque che inclinino all’ontologismo moderno (Spinoza, Hegel), ma in modo tale anche da avvertire, indovinare, straordinariamente presentire un’indicibile dimensione “altra”, infinita; entro di “noi”, in cui consisterebbe il nostro più vero “io” – di là dal nostro stesso “esser uomo”, dal suo “volere” e

“sapere”. Così il Grund der Seele in Eckhart – il fondo dell’anima4 – può ben richiamare e corrispondere, nella terra isolata, all’Io del destino; allo stesso modo e analogamente, la Gottheit – l’Uno, la Divinità (Divinidad, dice san Giovanni della Croce), infinitamente più profonda di Gott (Dio) – di là da “Dio” medesimo5, dal suo operare e dal suo stesso essere in relazione al mondo, può a sua volta esser assunta come segno e presagio, sia pur strozzata dall’isolamento, di una inaudita totalità infinita ed eternamente inviolabile – alludiamo all’apparire infinito testimoniato dal destino, in cui ogni ente è davvero, eternamente, se stesso 6. (Il che non significa affatto che il frate domenicano Eckhart, probabilmente il più grande dei mistici, pur processato per eresia, intendesse negare la prospettiva ortodossa – la “vera fede” –, che anzi, prima di morire, conferma appieno).

Laddove, per restare al misticismo, grandi lampi presaghi di destino non si rintracciano, a nostro parere solo all’interno della prospettiva filosofico-speculativa di esso (Böhme, Eckhart, come la straordinaria Margherita Porete), ma anche in quello più facilmente – ma erroneamente – riducibile a privato feeling, in cui consiste il cosiddetto misticismo “sentimentale”, soprattutto e in particolare femminile: da Angela da Foligno a Giuliana di Norwich a Maria Maddalena de’ Pazzi…, formidabili

“medium” (talvolta semianalfabete) capaci delle vertigini metafisiche più sorprendentemente presaghe (rispetto al destino della verità e della sua Gloria).

4 «Qui il fondo di Dio è il mio fondo e il mio fondo è il fondo di Dio. Qui io vivo del mio proprio, come Dio vive del suo proprio. Chi mai un attimo guardò in questo fondo –, per questo uomo mille marchi di fulvo oro coniato sono quanto un soldo falso» In hoc apparuit charitas Dei in nobis, in MEISTER ECKHART, Le 64 prediche del tempo liturgico, a cura di L. Sturlese, Bompiani, Milano 2014, p. 711.

5 «Perciò preghiamo Dio [Gottheit: l’indicibile Abisso al di là dell’”essere”: si pensi all’Uno di Plotino] di diventare liberi da Dio [Gott: il “Dio” oggettivo, storicamente variante, foggiato a nostra immagine, strumento dei nostri desideri e persino in quanto “padre” o addirittura come trinitario fondamento creatore]» (Beati pauperes spiritu, in ID., Sermoni tedeschi, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 1988, p. 133). Come si sa la chiave d’oro del pensiero eckhartiano (se lo ricorderà Heidegger) è il “distacco” (Abgeschiedenheit, Gelassenheit): da sé stessi anzitutto (corpo e psiche), ma anche da ogni rappresentazione, come tale idolatrica, di “Dio”.

6 «L’attualità suprema» (EMANUELE SEVERINO, La Gloria, Adelphi, Milano 2001, p. 64); «l’infinita concretezza del Tutto […] al di là di ogni infinito dispiegamento della terra e dunque dell’Immenso [stesso] della terra che salva, degli infiniti altipiani della gloria della Gioia […] la Gioia che sovrasta ogni terra è destinata a mantenersi all’infinito in questo suo sovrastare» (ID., Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, pp. 586-7); «l’inesauribile concretezza del Tutto» (ibid., p. 680).

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