• Non ci sono risultati.

Un pensiero altro rispetto alla “follia dell’Occidente”?

Severino e la rivelazione cristiana

2. Un pensiero altro rispetto alla “follia dell’Occidente”?

Un secondo “varco” di confronto riguarda la grande critica che Severino muove al cristianesimo storico: la saldatura ontologica con il destino nichilistico della filosofia greca. Lo sviluppo storico della fede cristiana è lo specchio della follia dell’Occidente. In questa critica costante di Severino colgo una questione teologica cruciale, soprattutto nell’epoca contemporanea, in cui il cristianesimo diventa sempre meno occidentale e sempre più mondiale, ovvero inserito in altre matrici culturali. Sono possibili, pensabili, legittime altre inculturazioni della rivelazione, altre mediazioni filosofiche diverse da quella greca, che rimane la prima grande e “necessaria” inculturazione delle verità cristiane?

La questione richiama subito alla mente il noto discorso di Benedetto XVI, dove il pontefice sostiene «la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul

119

fondamento della Bibbia»14. Rimarca la sintesi unica tra «spirito greco e spirito cristiano». La concordanza profonda è data dalla nozione di λόγος: Dio agisce «con λόγος», si comunica come ragione. Il prologo di Giovanni ne è la conferma autorevole: «Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος». L’incontro tra spirito greco (“nel senso migliore”, precisa Benedetto XVI) e cristiano non è stato un caso ma «una necessità intrinseca», un avvicinamento già presente nella testimonianza biblica, anche veterotestamentaria (letteratura sapienziale, in primis), un fattore decisivo per la divulgazione della fede. Si tratta dell’incontro profondo tra fede e ragione, o meglio dell’analogia tra Dio e la ragione umana, che tuttavia non toglie le dissomiglianze (viene citato il concilio Lateranense IV). Il Dio di Gesù Cristo non si mostra e non ci comunica in modo arbitrario o addirittura contrario alla ragione ma come λόγος, anche se il suo essere Amore “sorpassa” la conoscenza. Il Dio biblico è Aγάπη-Λόγος.

Questa la tesi del teologo e papa Benedetto XVI.

Ma questa è la tesi più contestata dal filosofo bresciano, il quale si mostrò disponibile al confronto qualora si cambiasse la “scacchiera” greca su cui poggia il cristianesimo. La questione, come già accennato, è rilevante per il cammino del cristianesimo al di fuori del vecchio continente, anche solo partendo dalla semplice constatazione che il 70 % dei cristiani non è più in Occidente e incontra il Vangelo con altre Denkformen. Sono possibili altri innesti filosofici rispetto a quello greco?

Per cercare di rispondere riprendo un dialogo interessante e a tutto tondo avvenuto tra Severino e Panikkar15. Il colloquio apre uno scenario inedito nel rapporto tra il cristianesimo e Severino, perché porta il filosofo a dialogare con altre matrici culturali rispetto a quelle occidentali.

Sappiamo infatti che egli si è confrontato quasi esclusivamente con il cristianesimo tomista e neoscolastico, chiaramente legato al pensiero greco. Probabilmente era la mediazione filosofica che intercettava maggiormente la critica severiniana, in essa vi vedeva un pensiero coerente, strutturato, con cui potersi confrontare, il cristianesimo diffuso, soprattutto in passato, a livello catechistico e popolare16. Non dimentichiamo che molte posizioni teologiche, soprattutto moderne, si sono poste oltre, per non dire contro, la mediazione aristotelico-tomistica del cristianesimo. La teologia barthiana, dialettica, aveva tacciato di Anticristo la filosofia scolastica, perché attingeva al Dio dei filosofi greci occultando il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.

Ma veniamo al dialogo tra Severino e Panikkar. Il volume ha il pregio dell’essenzialità: i due pensatori sintetizzano in maniera cruciale le proprie posizioni per metterle a confronto. Iniziano dalla

14 JOSEPH RATZINGER – BENEDETTO XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, in Incontro con i rappresentanti della scienza. Discorso del Santo Padre (Università di Ratisbona 12 settembre 2006).

15 Cfr. RAIMON PANIKKAR,EMANUELE SEVERINO, Parliamo della stessa realtà? Per un dialogo tra Oriente e Occidente, a cura di Milena Carrara Pavan, Jaca Book, Milano 2014.

16 È il cristianesimo che ha segnato fin dalla nascita Severino (come per ogni cristiano delle nostre terre). Ricordo che in occasione di un convegno a Padova egli mi chiese di poter visitare con una guida la Basilica di S. Antonio, perché il papà da piccolo lo portava spesso a Padova nella Chiesa del Santo. Ricordo la sua ammirazione e fascino per la bellezza delle opere visitate.

120

presentazione delle loro visioni del mondo. Severino parla subito della follia dell’Occidente, radicata nella fede del “divenire altro”, e quindi nel non-essere. La “Follia”, radice delle varie forme psichiche di follia, è la «fede in ciò che è impossibile che sia». Tale fede trova la sua consacrazione nel cristianesimo, secondo cui l’uomo vuol diventar come Dio (simboleggiato dal cibo eucaristico).

L’esistenza degli Dei o Enti immutabili colma i vuoti lasciati dalla fede nel divenir altro, che richiede delle realtà da cui si proviene e in cui si diviene. Questo è il «sottosuolo del nostro tempo», la «fede che domina il Pianeta». La tecnica (e si suoi sottosistemi: economia, finanza, media, eserciti, sanità) è la conseguenza di tale follia: è il super-strumento di cui si servono capitalismo, religioni (cristianesimo e Islam), stati per dominare, realizzare i propri scopi, realizzare la volontà di potenza, senza nessun limite. La convinzione che gli enti siano nulla giustifica la possibilità di annientarli (l’omicidio).

La follia, ribadisce Severino, domina indiscussa l’Occidente ma anche l’Oriente (qui nella sua forma pre-ontologica)!

Panikkar condivide la lettura severiniana sulla volontà di potenza che segna la storia dell’Occidente. Contesta però l’affermazione che la Grecia sia il punto di partenza anche dell’Oriente, aggiungendo che in Occidente stesso ci sono registri diversi. L’India non ha consacrato il divenir altro (che è giustamente alienazione) ma il divenire se stessi, e questa non è alienazione. Non ha voluto cambiare, modificare (non sono questi i paradigmi dell’Oriente). Precisa, inoltre, che l’Eucaristia non è diventare Dio ma diventare pienamente se stessi: mangio il pane non per diventare pane ma perché questo diventi me. Inoltre, divenire non significa sempre e solo divenir altro.

L’intento di Panikkar è in realtà quello di mostrare una certa vicinanza tra Oriente e Severino, maggiore di quanto pensi il filosofo italiano, che, con franchezza osserva Panikkar, rischia di leggere l’Oriente con categorie occidentali. Ancora, il teologo/filosofo indo-europeo afferma che «la Realtà deve essere la danza del possibile»17 e non può piegarsi ai canoni del principio razionale di non-contraddizione. L’impossibile non vuol dire irreale, secondo l’Oriente. La (non) contraddizione non è il criterio di Verità. Il pensiero non va ridotto al pensiero logico, alla coerenza logica.

Severino risponde riprendendo l’obiezione al principio di non-contraddizione, e ricordando che lo stesso Kant afferma l’impossibilità o la non certezza di conoscere la cosa in sé. Tale principio appartiene alla storia della follia occidentale, come evoca la metafora efficace della rete e del mare (simboli del pensiero e della realtà). La rete non avanza la pretesa di pescare tutto il mare, perché qualcosa sfugge, giustamente (i pesci più piccoli della rete). Quindi c’è un mare che sfugge e un mare che non sfugge. Ma se ci fosse una super-rete che abbracciasse il mare, tutto, senza fargli violenza, che esprimesse “la vocazione interna del mare”, allora saremmo in grado di dire che non può esserci

17 ID., Parliamo della stessa realtà, cit., p.12.

121

allo stesso tempo (è in contraddizione) il mare che sfugge e il mare che non sfugge. Quel tipo di pensiero (la super-rete) coincide con la realtà.

Panikkar prospetta, a fronte di un tale discorso, il rischio che il pensiero diventi uno strumento, una tecnica per dimostrare l’intelligibilità del reale. La “contra-dizione” non è “contra-essere”. La cosa in sé di Kant non è la realtà ma una concettualizzazione della realtà. È necessaria, perciò, una

“dimensione mistica” del filosofare, del pensare (capace di tenere insieme anche i contrari, ciò che appare illogico): non basta la rete concettuale (o super-rete) per avvicinarsi alla realtà. L’opposizione non è contraddizione. La visione cosmo-te-andrica di Panikkar permette di tenere insieme realtà irriducibili l’una all’altra (cosmo, Dio e uomo), ma che costituiscono una unità, per cui la realtà cosmica è unita a quella umana e divina. Questa la differenza principale rispetto alla comprensione duale dello spirito greco.

Severino ritiene che nonostante le distanze tra i due mondi (Occidente e Oriente) ci sia una solidarietà sotterranea profonda, la stessa fonte anche se poi sono due fiumi diventati estranei. La meditazione orientale rimane pur sempre un esercizio della volontà, una tecnica (yoga) che, se non controlla la natura (Occidente), vuole controllare l’anima.

Il confronto tra i due pensatori non intende operare conciliazioni indebite: si muovono ciascuno dentro un proprio sistema coerente, che lascia trasparire più divergenze che convergenze.

Eppure, nel rispetto delle distanze e tensioni, feconde, ci sono almeno due punti di contatto strutturali, a mio avviso: la categoria di eternità e la concezione non-violenta del pensiero.

Il primo elemento di vicinanza riguarda l’eternità delle cose, del tutto. La temporalità degli enti è strettamente legata all’eternità, secondo Severino. La visione cosmo-te-andrica di Panikkar lo attesta continuamente. Gli stessi testi biblici neotestamentari parlano di una eternità che è già presente mediante la nozione del Regno, di una beatitudine già posseduta, della provvidenza che si prende cura e mantiene le piccole cose («i capelli del vostro capo sono tutti contati», Lc 12,7). Severino si premura di precisare che la sua nozione di eternità non corrisponde pienamente a quella dell’induismo, dove eterno è l’atman (l’io grande), ma non l’io piccolo dei singoli uomini, del loro corpo (che invece viene considerato nulla). Questa visione risente del pensiero greco, platonico, che contrappone lo Spirito eterno, sopra, e le cose passeggere, sotto, destinate a passare, irrilevanti. A questa obiezione, Panikkar risponde che l’eternità non è statica, e che il tema del corpo o dell’io piccolo va compreso dentro la visione complessiva orientale retta dall’idea del dharma. La sua visione cosmo-te-andrica prende sul serio la materia e il corpo, e ogni realtà. Le differenze tra i due pensatori, Severino dialettico e razionalizzante, Panikkar dialogico ed esistenziale, non vanno contrapposte ma lette come una mutua fecondazione, senza che l’una si imponga sull’altra. Entrambi parlano dell’eternità di ogni realtà, del valore infinito anche della cosa insignificante, del nesso tra temporalità ed eternità.

122

È abbastanza facile scorgere l’eco del pensiero filosofico-mistico di Meister Eckhart, secondo cui la creazione non è il passaggio dal nulla all’essere ma la manifestazione di Dio nell’anima.

Severino ebbe a dire che «se il cristianesimo affermasse l’eternità nel senso indicato nei miei scritti, allora essi sarebbero gli scritti più cristiani che esistano»18. E critica la nozione di creatio ex nihilo, che ha fatto propria l’idea del diventar altro da sé del mondo greco: rivela una mentalità creativa e distruttiva, che vuole modificare le cose. Tutto lo sviluppo del mondo occidentale, economico, tecnico, scientifico, politico, capitalistico, è determinato dalla volontà di creazione, di potenza creativa e in sé distruttiva (per creare una casa distruggo un prato), semplicemente per il fatto che gli enti diventano nulla, sono nulla.

La nozione di creazione è – provando a reagire a Severino – differenziata nel mondo biblico.

Il racconto di Genesi non parla di una creazione dal nulla, ma dal kaos al kosmos; parla di una creazione legata alla parola (dabar) di Dio, che esprime un pensiero eterno di Dio sul mondo. La creazione dell’uomo non è dal nulla, ma a immagine e somiglianza di Dio, nel senso che c’è una eternità dell’essere umano. L’inno ai Colossesi (cap. 1,15-16) afferma che il Verbo incarnato è

«immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose». Tutto è stato creato in Lui e tutto sussiste in Lui (non c’è qualcosa che ritorna nel nulla). La creazione in senso biblico non esprime una volontà creatrice/distruttrice, ma una sussistenza eterna di tutte le cose in Dio (e non una dipendenza che “annulla” le cose). Tutte le cose (gli enti) non sono pensate come esposte al nulla ma come partecipi dell’essere del Dio, sono – e qui riprendo Panikkar - «una cristofania, una manifestazione dell’avventura cristica di tutta la realtà incamminata verso il mistero infinito»19. Il cosmo, l’uomo e Dio sono pensati insieme: «tutto l’universo è chiamato a condividere la perichoresis trinitaria, precisamente in Cristo e per mezzo di lui»20.

L’incontro millenario del cristianesimo con il mondo orientale (ovviamente con tutte le questioni teologiche implicate) non ha solamente recepito un cristianesimo ellenico ma ha anche, mi pare di poter dire, “de-ellenizzato” alcune nozioni greche, dal punto di vista antropologico, criticando la comprensione dualistica della fede (temporalità-eternità, anima-corpo, materia-spirito, finito-infinito, persona), e teologico. Del resto, anche l’inculturazione greca del cristianesimo, attestata dai grandi concili dei primi secoli (con al vertice quello di Calcedonia del 451 d.C.) non ha significato un semplice travaso del cristianesimo del primo secolo (quello dei testi biblici) nella cultura greca, ma ha operato anche una de-ellenizzazione (rivisitazione) di alcune categorie tipicamente greche (come quella di creazione e di persona), anche se poi il legame tra cristianesimo e pensiero greco si è consolidato con la Scolastica. Nei primi grandi concili è avvenuto allo stesso tempo un processo di

18 Ibid., p. 41.

19 RAIMON PANNIKAR, Cristianesimo. Una cristofania (1987-2002), II, Jaca Book, Milano 2016, («Opera Omnia», III), p. 739.

20 Ibid.

123

ellenizzazione (necessaria in chiave apologetica, primariamente) e de-ellenizzazione della fede (si pensi alla nozione biblica di corpo, difesa dai Padri della Chiesa contro l’eresia gnostica, tipicamente greca). La controversia ariana ha introdotto nel Credo niceno-costantinopolitano una espressione che cambia il pensiero greco della creazione: “generato e non creato”, parlando del Figlio. Parla di una generazione eterna, che si differenza dalla creazione in senso greco. Il cristianesimo fin dagli inizi è apparso al mondo greco come follia (l’affermazione di un Dio crocifisso) e come non credibile, come è ricordato in Atti 17,32: «Quando sentirono parlare della resurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: “Su questo ti sentiremo un’altra volta”». Paolo si rende conto che sarebbe stato vano pensare di diffondere il cristianesimo mediante la sola sapienza greca. Lo stesso Benedetto XVI, sempre nel discorso di Ratisbona, parla di purificazione del patrimonio greco, anche se riserva la nozione di de-ellenizzazione per inculturazioni successive (la Riforma, la teologia liberale, l’incontro del cristianesimo con il pluralismo contemporaneo). Ritiene sbagliata e imprecisa la tesi che «la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture». È infatti, secondo il pontefice, impossibile tornare a una inculturazione previa perché il Nuovo Testamento è stato scritto in greco e in contatto con lo spirito greco (presente anche nel Primo Testamento). Il legame con lo spirito greco appartiene alle decisioni iniziali della fede, e sono imprescindibili per la sua comprensione. Non per questo sono da ritenersi esclusive. L’enciclica Fides et ratio – l’unico documento magisteriale dedicato interamente al rapporto tra filosofia e teologia – afferma il ruolo fondamentale ma non esclusivo dell’inculturazione greca, lasciando aperto il contributo di ogni pensiero (cfr. FR nn. 72-73). Il principio della teologia, infatti, non è un determinato pensiero ma la Parola di Dio (il Verbo) rivelata nella storia, che entra in circolarità non con una filosofia rispetto a un'altra ma con la ragione del credente. Si afferma l’eccedenza ovvero la non identificazione materiale della Parola di Dio (rivelazione cristiana) con un determinato sistema o linguaggio filosofico, anche se siamo consapevoli che non esiste un Vangelo disincarnato, non mediato da una cultura.

Un secondo elemento che, a mio avviso, avvicina Severino e Panikkar è quello del pensiero non violento, che non si impone sulla realtà (come la tecnica) ma fa in modo che sia la realtà (l’essere) a emergere. Il primato della verità dell’essere rispetto alla verità dei significati dati dall’uomo, dell’ontologia sull’etica, della verità come manifestazione e non come prodotto dell’uomo, è espressione di un pensiero incontrovertibile non perché è posto dalla ragione con violenza, ma perché è fedele all’essere, rispecchia l’evidenza dell’essere, ed è quindi contrario a ogni volontà di potenza.

Fides et ratio afferma che la grande sfida della ragione è «quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento

124

che la sorregge. Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella comprensione della Rivelazione»21. Un pensiero ontologico non violento rappresenta senza dubbio per la teologia l’opportunità di rivisitare alcune categorie (“religione assoluta”, “verità assoluta”), che possono avere favorito il legame tra potere e fede. Il concilio Vaticano II ha elaborato e assunto come paradigmi imprescindibili per la forma (verità) del cristianesimo nella modernità/mondialità le categorie di dialogo e di libertà (si pensi a due fra i testi più discussi del concilio, Nostra Aetate e Dignitatis humanae).

Severino afferma che la religione (tra cui il cristianesimo) è errore ed orrore dell’umanità, per il pensiero violento generato dalla stessa nozione di fede, intesa come volontà di verità (non riconoscimento della verità in quanto tale). Una affermazione molto forte. Eppure, un confronto serio con tale critica è fecondo, perché mette in guardia dal nesso diabolico e persistente di potere-sacro, e permette di riscoprire la radice non-violenta del cristianesimo, che ha al centro non il Dio della forza ma della Croce. Le religioni, specie quelle di rivelazione, hanno alimentato derive assolutistiche, volontà di dominio, visioni autoritarie del mondo. Nessuno nega effetti storici drammatici di tali derive, e il fatto che le religioni, purtroppo, siano state e siano strumento di potere e di violenza. C’è un legame tra violenza e sacro che appartiene alla storia religiosa. È da porre la domanda: il nesso religione e violenza è costitutivo, strutturale oppure strumentale, contingente? Il nucleo autentico di una religione genera veramente violenza e intolleranza? Il confronto dell’Occidente, culturale e religioso, con l’Oriente secondo la prospettiva della non-violenza potrebbe illuminare e servire molto alla «purificazione della memoria».