Nell'affrontare la questione Cristianesimo ed Emanuele Severino: quali possibilità di confronto?2 va considerato come ciò tra cui si intende verificare la possibilità o l'impossibilità di
«confronto» si presenta con due differenti profili e statuti: nel caso del «cristianesimo» si tratta, in prima approssimazione, della bimillenaria vicenda storica della comunità (del popolo) formata da quanti hanno aderito alla Rivelazione attestata dalle scritture bibliche ebraico-cristiane e avente il suo centro in Gesù Cristo, di cui fa parte anche la chiesa cattolica con la sua vita e il suo pensiero magisteriale, teologico e sapienziale; nel caso di «Severino» si intendono (sempre in prima approssimazione) i pensieri consegnati nei molteplici scritti e in alcuni interventi orali (conferenze e interviste ora disponibili sul web) del filosofo bresciano (1929-2020) noto per l'originalità e l'acribia della sua filosofia e della sua dialettica. In entrambi i casi si tratta di due entità o forme d'essere in sé stesse diversamente complesse, in cui in diverso modo coabitano identità e differenze e l'identità della differenza. Il problema che ci sta innanzi è quello di individuare dei criteri e metodi condivisibili con i quali confrontare le due «realtà» (cui tra l'altro vanno riferite due diverse forme del sapere, la filosofia e la teologia – che non si identifica col cristianesimo, della cui vicenda fa parte –, tra le quali intercorre un rapporto a sua volta complesso) in modo che, affinché il confronto sia effettivo, l'una non prevarichi a priori sull'altra e ciascuna delle due, mentre critica e si lascia criticare, si veda riconosciuta nel proprio statuto veritativo.
Quanto si dirà qui intende essere soltanto un passo iniziale, se non preliminare, in questa direzione. Poiché Severino è intervenuto in diverse occasioni sul tema cercheremo anzitutto, riprendendone alcune affermazioni, di ricostruire il senso del suo discorso sul cristianesimo. A fronte del discorso severiniano metteremo quindi in luce, operando una scelta data l'impossibilità di farlo in toto, alcuni tratti fondamentali dell'autocomprensione del cristianesimo stesso. Per riflettere infine su quali possibilità/impossibilità emergano per il confronto che si vorrebbe costituire.
1 Mons. Roberto Tommasi – Professore di Filosofia alla Facoltà Teologica del Triveneto.
2 Questo contributo è nato entro il seminario di studi interuniversitario su Cristianesimo ed Emanuele Severino: quali possibilità di confronto?, <http://www.fttr.it/cristianesimo-e-emanuele-severino-quali-possibilita-di-confronto/>.
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Severino e cristianesimo
«Voi siete errore ed orrore»: queste sono le parole che Emanuele Severino mi rivolse il 28 settembre 2014 nel corso di colloquio che ebbi con lui presso il Palazzo della Gran Guardia di Padova3. Egli si riferiva al mio essere cristiano, al cristianesimo e più in generale (dato il tema del convegno) alle religioni. Confesso che l'affermazione, così perentoria, suscitò in me un certo disagio:
tuttavia non mi sorprese, anzi mi confermò nell'idea che mi ero fatto leggendo alcuni dei suoi testi, ovvero che in ciò che conoscevo del pensiero severiniano vi fossero i semi di una difficile compatibilità (o incompatibilità) tra la sua filosofia e il cristianesimo (o meglio quello che secondo il filosofo bresciano è l'errore cristiano4).
Il discorso severiniano sul cristianesimo, nelle sue diversificate tematizzazioni che percorrono tutto l'iter dei suoi scritti, sta sempre in relazione alla tesi fondamentale e sempre ritornante della sua filosofia, tesi che egli ha scorto fin dalla sua giovanile interpretazione del detto di Parmenide e che permane anche nell'in parte mutato linguaggio del Destino della Necessità, della Gioia e della Gloria che caratterizza la stagione più recente del suo pensiero. Severino ha ben presto scorto come l'affermazione parmenidea «L'essere è, mentre il nulla non è» non indica semplicemente una proprietà, sia pur quella fondamentale, dell'essere, ma ne indica incontrovertibilmente il senso stesso:
che l'essere è (necessariamente) ciò che si oppone al nulla e che per questo opporsi si allontana dall'impercorribile sentiero della notte, fitto di tenebre, nel quale «l'essere non è ed è necessario che non sia» (sentiero che secondo il filosofo bresciano è l'unico percorso dalla filosofia occidentale che ha posto l'essere nel tempo, dove è necessario che a volte sia e a volte non sia5) incamminandosi per il luminoso sentiero del giorno. Di qui la tesi severiniana fondamentale, quella della eternità dell’essente in quanto essente. In rapporto ad essa il divenire è l'apparire e lo scomparire dell'essere e il destino emerge come l’apparire della necessità della differenza dei differenti e insieme della necessità che ciascuno dei differenti sia identico a sé e non altro da sé, apparire che sorregge ogni pensiero (compreso il pensiero che intende negarlo) costituendone lo sfondo essenziale6. Con ciò,
3 A margine della tornata conclusiva del Convegno DEBORAH CORON,ALESSIA ZIELO (a cura di), Vedere oltre. La spiritualità dinanzi al morire: dal corpo malato alla salvezza, Congresso Internazionale (Padova, 25-28 settembre 2014), prefazione di Ines Testoni, Rupe Mutevole Edizioni, Parma 2014, organizzato dall' Università con il patrocinio, fra gli altri, della Facoltà Teologica del Triveneto.
4 In che senso Emanuele Severino parli di errore, cosa che emergerà con più precisione nel corso della nostra indagine, ci sembra ben spiegato in queste parole di un suo accreditato conoscitore: «... se è vero che la struttura originaria del sapere è sì incontrovertibile, ma è anche finita perché non è onniscienza, allora tutto ciò che si colloca al di fuori del suo orizzonte (inteso come orizzonte di ciò che è incontrovertibile) è qualcosa che, sulle prime, fa problema. A meno che non si mostri come qualcosa di contraddittorio, perché in questo caso, non avremmo a che fare con un problema, ma con un errore»
(GIULIO GOGGI, Ragione e fede. Studio sul rapporto tra la ragione epistemica e l'esperienza credente, Marcianum-Press, Venezia 2009, p. 83).
5 Cfr. EMANUELE SEVERINO, Ritornare a Parmenide, in ID., Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995, pp. 20-23.
6 ID., Tautótēs, Adelphi, Milano 1995, pp. 243-244.
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come si chiarisce nelle ultime opere, Severino non nega in toto il divenire fuggendo in una filosofia dell'assoluta immobilità (quasi una sorta di riproposizione aggiornata di un'astratta ontologia parmenidea), ma sa che il divenire non appare così come noi (abitatori nei cerchi finiti della terra isolata) siamo ancora convinti di esperirlo – venire dal nulla e tornare al nulla, cioè un divenire annientante7 – ed è assolutamente reale come apparire e scomparire dell'eterno, anzi come l'apparire e lo scomparire dell'eterno apparire dell'ente.
Col tramonto della terra che è isolata nella costellazione infinita dei cerchi, non solo il destino finito, ma anche l'apparire infinito del destino (ossia ciò che il destino finito in verità è, ma che nei cerchi finiti del destino appare non nella sua concreta determinatezza, ma come forma astratta) appare, nei cerchi finiti, nel suo non essere più contrastato dall'isolamento della terra. In quanto non più contrastati dall'isolamento della terra, sia il cerchio finito del destino, sia la forma astratta dell'apparire infinito – la quale è il culmine della sintassi del destino, cioè della persintassi dell'essente – mostrano un volto assolutamente diverso (e anche la terra, al di fuori dell'isolamento, mostra un volto essenzialmente diverso). […] La costellazione infinita dei cerchi finiti del destino si trova ora (come da sempre) al cospetto del Tutto, ma libera dai veli della Notte – anche se il “cospetto”, per quanto liberato dalla Notte, è pur sempre un modo finito di apparire dell'apparire dell'infinito. Non contrastata dall'isolamento e dalla volontà di potenza del linguaggio, la sintassi del destino, che ha al proprio culmine l'apparire infinito (in quanto appare in modo finito) mostra nei cerchi finiti il nuovo volto della pura verità del destino, che oltrepassa, conservandolo, il volto antico8.
La tesi dell'infinità del divenire è portata rigorosamente a compimento in La Gloria9 in cui nel Tutto onnicomprendente e onniinclusivo che si manifesta con la sintassi del destino la follia dell'Occidente connessa alla fede nel divenire come uscire ed entrare nel nulla degli enti è trascesa nella verità dell'essere dove ogni ente è eterno e nessun ente è nientificabile.
A partire dalla tesi fondamentale, il cristianesimo parve al filosofo bresciano come la grande variante, nella forma della fede, della storia dell'episteme e con ciò come il più grande tentativo di trovare un rimedio all'angoscia del divenire del mondo inteso in senso nichilistico10 (rimedio illusorio, come illusori sono angoscia e divenire). Al centro del modo severiniano di pensare il cristianesimo emerge la questione della fede, che egli affronta in più momenti e in modo singolare. Severino intese la fede che caratterizza la storia dell'episteme (e dunque anche la fede cristiana, ma non solo questa) come atto di volontà, o meglio, di quella volontà di potenza la cui espressione originaria dipende dall'aprimento da parte della metafisica greca del senso delle cose a partire dalla volontà che la cosa
7 Per Severino una fede nel divenire così inteso, patrimonio di tutte le forme dell'Occidente e dei cerchi della terra isolata, è di matrice greca ed è divenuta poi anche patrimonio del Cristianesimo.
8EMANUELE SEVERINO, La Gloria. Ἅσσα οὐκ ἔλπονται: risoluzione di “Destino della Necessità”, Adelphi, Milano 2001, pp. 535-536. L'infinito sopraggiungere, nel cerchio originario, della costellazione infinita degli altri cerchi è secondo Severino la Gloria: essa è l'unità di queste due direzioni (cfr. Ibid., 191).
9 ID., La Gloria, cit.
10 Cfr. ID., Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, Milano 1995, p. 276.
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sia ente, cioè sia un uscire e un ritornare al nulla. Tale volontà che la cosa sia ente è la volontà che la cosa sia niente: così il nichilismo appare l'ethos, la dimora e la struttura dell'Occidente, cristianesimo compreso.
Severino insiste molto a considerare come decisivo, a chiarimento di che cosa si tratti nel caso della fede cristiana, il versetto biblico Eb 11,1 che egli – sulla scia di Tommaso che la denominò una
«completissima definizione» della fede11 – considera la definizione neotestamentaria della fede (il Nuovo Testamento in realtà pone anche altri passi a illuminare ciò che sia «credere» e «aver fede» e spiace che Severino per lo più non vi si sia riferito): la fede è «la sostanza delle cose che si sperano e la prova di quelle che non si vedono». Pertanto, nell'interpretazione del filosofo bresciano, è proprio della fede cristiana un netto profilo di controvertibilità.
Nel cristianesimo questo si vede anzitutto a proposito della «fede di Gesù», che Severino considera un circolo vizioso che fa del cristianesimo un mito:
il cristianesimo è la forma di pensiero filosofico che crede che la verità, cioè la sorgente della felicità, sia garantita solo se non è una produzione umana, come per i Greci, ma è rivelata da Dio. Gesù pensa di essere la verità perché pensa di essere Dio, e pensa di essere Dio perché pensa di essere la verità e di pensare la verità. Il tentativo di trasformare questo circolo vizioso in un circolo solido fallisce, ed è solo una fede il pensiero in cui Gesù vede se stesso come verità e come Dio: il cristianesimo rimane un “mito”. E Aristotele, che avrebbe considerato mito anche il cristianesimo, avrebbe detto che anche Gesù “è in qualche modo filosofo”12.
Con riferimento a Mc 11 ed Eb 11,2 Severino, considerando l'inseparabilità della fede dal dubbio, affronta inoltre la questione della possibilità (e dell'impossibilità), dunque dell'assurdo (per la ragione epistemica dell'incontrovertibile) dell'esistenza della fede che Gesù esige dagli uomini (e dunque anche di quella dei fedeli e della loro ecclesia).
La fede che Gesù esige dagli uomini è una fede che, almeno come un lampo, riesce a separarsi dalla notte, deve riuscire a separarsi dal dubbio. Ma questa separazione dal dubbio è impossibile, perché come si è detto, il dubbio è quell'apparire dell'annuncio degli invisibili senza il quale la fede non potrebbe dare un argumentum a quell'annuncio. La fede è inseparabile dal dubbio non nel senso banale dell'insuperabilità diacronica della lotta tra la fede e il dubbio, ma nel senso che il dubbio è ciò senza di cui la fede non può realizzarsi come argumentum non apparentium. Si che questo argumentum non riesce, ad essere tale, perché per riuscirvi dovrebbe riuscire a risolvere il dubbio13.
[…] Qui crediderit salvus eris; qui vero non crediderit condamnabitur (Mc 16,16-17). Ma questa fede non esiste. Non intendo riferirmi ad una semplice inesistenza di fatto, a una situazione storica in cui la fede non sia ancora o non sia più: la fede non esiste, nel senso che non può esistere; la sua esistenza è una impossibilità. E quindi
11TOMMASO D’AQUINO (san), De fide, a. 2.
12EMANUELE SEVERINO, Pensieri sul cristianesimo, cit., p. 275.
13 ID., Nichilismo e fede, in Gli abitatori del tempo, Cristianesimo, marxismo. Tecnica, Armando, Roma 1978, pp. 148-49.
92 è un'impossibilità l'esistenza stessa dei fedeli e della loro ecclesia. Ciò che quindi
Gesù richiede per la salvezza è qualcosa di impossibile, qualcosa cioè (che come impossibile autentico) è destinato a rimanere un niente, ossia a non accadere.
L'impossibilità qui non è una metafora, ma indica appunto ciò che è assente da ogni dimensione e da ogni luogo: to a-tomon. L'impossibilità – l'assurdo – della fede cui intendo riferirmi non ha quindi nulla a che fare con quella stultitia che secondo l'apostolo Paolo dà la salvezza (Ad Cor 1,21-22) perché coincide con la sapientia Dei: dire che la fede è impossibile significa dire appunto che quella stultitia non può esistere, e che i fedeli che con tale stultitia dovrebbero salvarsi sono soltanto dei fantasmi, cioè l'obiettivazione illusoria di un errore14.
La fede cristiana per Severino condivide con ogni altra fede ciò per cui si crede di possederla mentre non la si possiede e qui sta la matrice del carattere necessariamente violento di ogni fede:
non si deve dimenticare che la verità è violenza quando, appunto si crede di possederla: si crede di possederla e non la si possiede. Ma la verità è verità solo in quanto non è qualcosa di imposto alla coscienza. Prima ancora di essere violento con gli altri, imponendo loro la sua “verità”, il credente – di qualsiasi tipo – è violento con se stesso: credendo nella verità della propria fede, impone alla propria coscienza qualcosa che, appunto perché imposto, cioè voluto e voluto come vero, non può essere verità15.
[…] anche la fede cristiana […] si trova nella condizione di ogni fede: assume come vero – ritiene per vero – qualcosa che non si mostra essere vero e che proprio per questo l'apostolo chiama “invisibile”. La verità è lo stare in luce, visibile. (Questa è anche la condizione del paradiso cristiano). La fede ritiene per vero ciò che è invisibile e non si mostra come vero. Ogni fede è pertanto una contraddizione, una situazione instabile da cui si deve uscire. In qualche modo se ne rende conto la stessa fede cristiana quando afferma che, in paradiso, essa non potrà più esistere16.
Si tratta di una violenza che per il nostro traspare anche nel modo in cui la chiesa cattolica intende il rapporto fede-ragione.
Nella dottrina della Chiesa, l'affermazione dell'armonia di fede e ragione non riesce ad essere più che un atto di fede. Ma la Chiesa, da un lato, evita di qualificare tale affermazione come un atto di fede – e in questo modo lascia che esso funzioni come una verità di ragione (e quindi la Chiesa si pone, di fatto, come depositaria esclusiva anche della verità filosofica); dall'altro lato evita anche di qualificare esplicitamente tale affermazione come una verità di ragione, giacché non può non rendersi in qualche modo conto che con questa seconda qualificazione sarebbe proprio essa Chiesa a negare quel carattere soprannaturale della verità cristiana che ha invece inteso difendere contro la gnosi. L'atteggiamento esplicito della Chiesa risulta quindi da una doppia incoerenza: 1) si lascia che di fatto funzioni come “verità naturale”
ciò che di fatto si lascia funzionare come “verità naturale”; 2) si evita di qualificare come “verità naturale” ciò che di fatto si lascia funzionare come “verità naturale”. In questo modo la dottrina della Chiesa è, insieme, “fideismo” e “gnosi”17. […] Anche la Chiesa, come super-filosofia, ha voluto salvare l'insalvabile: non nel senso etico
14 Ibid., pp. 145-146.
15 ID., Pensieri sul cristianesimo, cit., pp. 150-51.
16 Ibid., pp. 153-154.
17 ID., Risposta alla Chiesa, in Essenza del nichilismo, cit., p. 336.
93 consueto, per il quale essa ha indicato agli uomini la via della “salvezza dell'anima”,
ma nel senso che l'etica della “salvezza dell'anima” è stata inserita dalla Chiesa in una dottrina fondamentale, definitiva ed immutabile, che intende salvare il senso del
“divenire”. La Chiesa vuole salvare il mondo, ma alla radice del significato consueto di questa salvazione sta una ben più profonda volontà di salvezza (che la Chiesa condivide con l'intera storia dell'Occidente): la volontà di salvare il senso del
“mondo”, ossia la volontà che la nientità dell'ente abbia senso18.
[…] Nella storia dell'Occidente la ragione e la fede cristiana sono rispettivamente la veste razionale e la veste religiosa della violenza, ossia della prevaricazione che s'impone su altri modi di pensare e di vivere che hanno lo stesso diritto a rendersi prevaricatori19.
In questa luce Severino evidenzia pure l'impossibilità della concezione della storia che sta a fondamento della cultura greco-cristiana.
La storia, concepita come unità dell'essere e del non essere delle cose, sta al fondamento della cultura greco-cristiana. Ma è proprio questo fondamento a imporre la distruzione di tutti gli dei immutabili che questa cultura ha costruito. Se l'episteme greca è il luogo ove viene originariamente posta l'evidenza della storia, nell'episteme greca è tuttavia insieme presente la persuasione che la condizione dell'esistenza della storia sia il divino, l'immutabile, il metastorico, il perfetto. Dio è ciò senza di cui il mondo storico non potrebbe esistere. In questo modo l'episteme greca (e l'elaborazione filosofico-teologica del cristianesimo che da essa deriva) rende impossibile la storia per un duplice motivo: perché vuole stabilire il senso definitivo del tutto, e perché al centro del tutto pone un dio immutabile e perfetto che precontiene e conserva la realtà che si sviluppa e si distrugge nella storia. La storia è anticipata e quindi soppressa, non solo dall'apertura dell'episteme in quanto sapere assoluto, ma anche dal dio immutabile che vien posto da questa apertura. L'episteme è così il contrasto tra la persuasione dell'esistenza della storia e la volontà di anticipare la storia, sopprimendolo20.
E osserva come nella cultura contemporanea la quale sostanzialmente risponde negativamente alla domanda «Esiste la verità?» accanto e in opposizione alla volontà cristiana si accampano le altre volontà, gli altri modi di dar senso al mondo e che in questo contesto lo scontro tra le volontà diverse è deciso unicamente dalla loro forza, che è anche forza di persuasione; la fede cristiana in questo contesto non può pretendere di porsi al di sopra delle altre in quanto rivelata da Dio perché l'esistenza di Dio e del suo rivelarsi appartengono al senso che la fede cristiana, e non le altre o certe altre, vuole dare al mondo21.
Alla luce di quanto sin qui richiamato quali possibilità dunque vi sono, in Severino, per il cristianesimo?
18 Ibid., p. 340.
19 ID., Techne. Le radici della violenza, Rusconi, Milano 1979, p. 226.
20 ID., Gli abitatori del tempo, cit., p. 129.
21 Cfr. Ibid., p. 165.
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Se negli Studi di filosofia della prassi22 la fede cristiana (come ogni fede) gli apparve contraddizione e dunque qualcosa che va negato e oltrepassato, ma ad un tempo una contraddizione che agli occhi della struttura originaria della verità – in base al teorema secondo cui la fede in un asserto è sempre autocontraddizione (è ciò sempre una situazione antinomica e di dubbio) e che tuttavia l'asserto che è il contenuto della fede non è sempre autocontraddizione, ma può essere qualcosa che non apparendo originariamente né come negazione della verità originaria, né come originariamente implicato in essa rispetto all'originario costituisce un problema – si presentava come problema, di lì a poco, a partire da Ritornare a Parmenide. Poscritto23, il filosofo scrisse invece che la fede cristiana è contraddizione non solo come fides qua creditur, ma anche come fides quae creditur, ossia per il contenuto in cui crede che è a sua volta completamente immerso nell'essenza del
Se negli Studi di filosofia della prassi22 la fede cristiana (come ogni fede) gli apparve contraddizione e dunque qualcosa che va negato e oltrepassato, ma ad un tempo una contraddizione che agli occhi della struttura originaria della verità – in base al teorema secondo cui la fede in un asserto è sempre autocontraddizione (è ciò sempre una situazione antinomica e di dubbio) e che tuttavia l'asserto che è il contenuto della fede non è sempre autocontraddizione, ma può essere qualcosa che non apparendo originariamente né come negazione della verità originaria, né come originariamente implicato in essa rispetto all'originario costituisce un problema – si presentava come problema, di lì a poco, a partire da Ritornare a Parmenide. Poscritto23, il filosofo scrisse invece che la fede cristiana è contraddizione non solo come fides qua creditur, ma anche come fides quae creditur, ossia per il contenuto in cui crede che è a sua volta completamente immerso nell'essenza del