Ethos e Destino La decisione dell’Origine
4. La storia degli effetti della rimozione e il cristianesimo
Il tentativo di unione della dimensione trasversale della giustizia dell’essere, custodita dalla signoria squisitamente etica di Dike, che giudica il modo di “differire dall’altro” con la dimensione universale della verità dell’ente, che inaugura l’ontologia essenzialista che si limita tautologicamente – e aporeticamente – a “dare a ciascuno il suo”, mostra la faglia della sua sutura e lascia aperta la ferita.
La ferita finirà per cicatrizzarsi, e la cosmesi filosofica cercherà di renderla invisibile.
Dell’estetica e della drammatica non nichilistiche delle affezioni e delle repulsioni che cercano il segreto dell’affezione originaria che ha inaugurato la storia e ha promesso la gioia – perché nella
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verità dell’apparire degli enti separata dalla giustizia degli affetti non c’è gioia – attraverso la redenzione del significato mediante la conversione del senso, si perderanno progressivamente le tracce e la forza. La tecnica odierna ripulisce le tracce di quella differenza: ciò che si può fare deve essere fatto. L’obbligo di uscire dalla contraddizione e di consegnarsi alla manifestazione della verità è un’ingiunzione della quale la verità delle connessioni necessarie fra gli enti – fisiche o metafisiche che siano – non sa nulla. Certo, per contraccolpo, ne fiorisce una nozione della volontà e della libertà che rimangono vuotamente esposte alle contraddizioni del nichilismo. Questa ingiunzione, infatti, è una rivelazione del senso della verità che costituisce la giustificazione suprema della fede. Non perché la fede rappresenti la condizione del non apparire della verità incontrovertibile. Essa vi può – vi deve – rimanere più che ben disposta. La differenza della necessità della fede è un’altra, però, da quella della verità. È la necessità della giustizia, che si afferma nella domanda che chiama in causa la decisione dell’origine: come deve essere, l’ente, per essere come deve? La sua incontrovertibilità è elenchica come quella della verità del dire: perché la sua negazione ha la forma della sua stessa ingiunzione. Il dover essere secondo la necessità della giustizia non può darsi semplicemente come verità generale dell’essere e come verità particolare dell’ente. Interpella ultimamente, infatti, la decisione dell’origine, non la fatalità del destino. Una decisione si rivela e si interpreta, non si deduce e non si definisce.
Il cristianesimo – la teologia cristiana – appare preoccupato per il fatto che gli assoluti dell’origine e della destinazione si siano come evaporati nella tradizione occidentale (dalla “morte di Dio” alla “fine della metafisica”). Ma deve pur ammettere che la modestia della sua teologia della creazione (che si limita a ribadire l’esistenza di Dio come causa ultima) e l’insignificanza della sua predicazione dell’escatologico (che non conferisce più alcuna forza alla testimonianza), non concorrono in alcun modo alla riabilitazione dell’eterno.
La testimonianza “filosofica” e la provocazione “teologica” di Severino rappresentano un kairos per l’attuale congiuntura della coscienza credente? In un precedente lavoro ho scritto – e confermo – che la provocazione rappresentata dal pensiero di Severino “istituisce un punto di non ritorno anche per ogni revisione dell’ontologia classica nell’ambito del pensiero teologico”15. Però questo lavoro va fatto: e va fatto propositivamente e criticamente in munere proprio non semplicemente in munere alieno. Esso non va ridotto dunque semplicemente alla risoluzione dell’equazione di compatibilità o incompatibilità del pensiero di Severino con il cristianesimo (o viceversa). Desidero sintetizzare, in conclusione, la logica di questo passaggio (che spero di poter argomentare più diffusamente in un prossimo lavoro). La “testimonianza” del senso della verità che appare nel logos severiniano è certamente una “fede”. Non c’è nessuna auto-evidente equivalenza semantica fra il disinnesco del nichilismo dell’ente che vieta di pensare la sua nientificazione e
15 PIERANGELO SEQUERI, Il Dio affidabile, cit., p. 463.
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l’attribuzione della qualifica di eterno, immutabile, necessario. Il lessico di queste attribuzioni va ermeneuticamente decostruito, proprio come quello del divenire: perché esso appartiene alla grammatica della vecchia metafisica degli attributi del divino o della natura, che punta all’assicurazione quantitativa della permanenza dell’essere. Nel pensiero di Severino, l’interpretazione “rivoluzionaria” dell’ente eredita la semantica “convenzionale” degli attributi metafisici del divino: e dunque eredita gli stessi problemi della verità assoluta dell’essere al modo greco. Soprattutto questo: l’equazione fra appartenere concretamente alla totalità ed essere veramente in salvo.
In questo senso, quella di Severino è l’ultima mossa possibile del sistema occidentale, che mira contraddittoriamente, sin dall’inizio, a risolvere la giustizia e il senso autentico dell’essere nella pura verità ontica della sua immutabilità e della sua durata, senza riguardo per la differenza qualitativa delle sue intenzioni e delle sue affezioni.
Naturalmente, il rimosso ritorna continuamente, in molti modi: e proprio questo impedisce una lettura univoca e senza faglie del cursus occidentale della cultura. E impone la sempre nuova rilettura delle sue testimonianze: quelle dimenticate, ma anche quelle conosciute in altro modo. In molti modi la verità può essere persa, anche là dove cerca nell’episteme dell’inconfutabile; in molti modi può essere ritrovata, là dove apparentemente si nasconde nel linguaggio della pistis.
L’escatologia di Severino è certamente una fede: necessaria proprio nel senso acutamente determinato dagli Studi di filosofia della prassi16 (che nella nuova lettura severiniana, coerentemente con il progetto di coerenza ontica del sistema, vuole essere rimosso). La struttura dell’originario non può sapere nulla della fede come occultamento o possibilità di incremento dell’apparire del senso della verità: se non entrando intenzionalmente e determinatamente nella discussione sui contenuti della fede, dal punto di vista dell’aver fede autentico. Come inevitabilmente accade nella narrazione severiniana della verità. La “fede” severiniana, a suo modo, e a dispetto della sua radicale consegna del cristianesimo storico all’alienazione nichilistica, è ispirata dall’inedito cristiano dell’origine e della destinazione eterna dell’ente. Essa dà linguaggio ad una misteriosa decisione dell’origine che si affida proprio all’unico interlocutore in grado di riconoscerla, di fronteggiarla, di corrispondervi quale argumentum non apparentium e substantia sperandarum rerum. Non senza un accidentato percorso per prove ed errori. Nella singolare visione cristiana, Dio vi si è inoltrato totalmente: a costo di essere frainteso nella sua gloria originaria (Fil 2). La lealtà intellettuale degli umani non si tirerà indietro, se vuole essere degna della gioia destinata: contro ogni gnosi che confonde la finitezza con il male.
Deposto il risentimento che accompagna più o meno nascostamente la reciproca delusione occidentale, la teologia e la filosofia dovrebbero trarre incoraggiamento da questa audacia severiniana, che – pur nella contraddizione, ma in questa fede – si muove in controtendenza radicale
16 EMANUELE SEVERINO, Studi di filosofia della prassi, cit.
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con lo spirito del tempo. La teologia per prima dovrà trovare il coraggio di uscire finalmente dal letargo della sua mediocre metafisica preambolare della creazione (che insiste sulla preoccupazione di renderla “innocua” per l’eterno), come anche dalla lamentosa elaborazione sentimentale del lutto per la morte di Dio (e del presunto crollo di tutti i “valori” connessi). Nella costellazione attuale dell’evidenza culturalmente disponibile, del resto, il pensiero degli eterni della verità e della giustizia, appare “follia” filosofica non meno che teologica. Dipanare la “sapienza” che sta nascosta in questa follia è il compito del pensiero della verità originaria che la coscienza credente deve attivare nell’età secolare in connessione con l’orizzonte escatologico del “regno di Dio”, al quale la predicazione evangelica di Gesù porta all’evidenza della fede: argumentum non apparentium e substantia sperandarum rerum.
Perché ora è definitivamente chiaro che l’autentica fede cristiana nella risurrezione, che accende di impensabile risonanza destinale la parola originaria della creazione, è lieta testimonianza per il destino dell’intera comunità umana, che lotta – più o meno consapevole – per la giustificazione della sua vita di fronte al male e alla morte. E non può più rimanere il geloso e chiuso possesso di una etnia religiosa, la quale – più o meno violentemente – da quella comune destinazione si separa.
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Capitolo quinto Antonio Stizzi1