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Un’agenda declinante (da New York ad Accra: «AAA sviluppo cercasi»)

1.4. La cooperazione dopo il Washington Consensus: «vizi privati e pubbliche virtù»

1.4.2. Un’agenda declinante (da New York ad Accra: «AAA sviluppo cercasi»)

Con l’11 settembre del 2001 la breve parentesi di “multilateralizzazione” dell’agenda sociale della globalizzazione si chiude insieme all’era Clinton che l’aveva promossa, che in ogni caso non era stata quel ritorno all’età dell’oro che a posteriori si vorrebbe far credere. Il progetto per “un nuovo secolo americano” cavalcato dall’amministrazione statunitense entrante sottoporrà a forti tensioni non solo il diritto internazionale, ma anche i tentativi fatti per ridisegnare e dare rinnovata legittimità alla cooperazione internazionale allo sviluppo.

La questione degli aiuti – come aumentarli e renderli più efficaci – assumerà inusitate connotazioni “tecnicistiche”, a volte giustificate, altre meno, ma su uno sfondo che continua a essere marcatamente politico, in cui condizionalità e discrezionalità rimangono nitidamente in primo piano come criteri di selezione e ripartizione dei fondi.

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Il commercio Nord-Sud non esce dall’ambito dell’OMC e delle negoziazioni bilaterali o per blocchi regionali. Nel continuare indefinito di round inconclusi i temi caldi – sussidi e protezionismo agricolo, investimenti e liberalizzazione dei servizi, proprietà intellettuale ecc. – non riescono a trovare né accordo né risoluzione, anche perché, adesso, un nutrito numero di paesi emergenti riesce a fare di nuovo blocco comune; mentre nelle negoziazioni bilaterali o per schemi di integrazione, il trattamento speciale e differenziato, laddove previsto, è concesso o rinnovato in subordine all’accettazione di una serie di clausole definite dai concedenti, che spesso hanno poco a che fare col commercio in senso stretto e molto invece con le loro priorità economiche e agende geopolitiche.

Infine la guerra, “civile” o “convenzionale”, che dalla caduta del muro di Berlino è tristemente l’indiscussa protagonista in numerosi scenari, apre la delicata questione del diritto di intervento e degli aiuti umanitari, in ogni caso in detrimento di quelli allo sviluppo.

La conferenza di Monterrey, nel 2002 in Messico, avrebbe dovuto essere il corollario della Dichiarazione del Millennio per raggiungere accordi concreti in materia di finanziamenti allo sviluppo. Rispetto alla precedente, invece, rappresenterà un primo sostanziale arretramento.

Sugli aiuti, nonostante la mancanza di credibilità dopo trent’anni di promesse disattese, viene ribadito l’obiettivo dello 0,7% del PIL dei paesi DAC, senza un calendario né obblighi imperativi al riguardo. Gli Stati Uniti, a differenza dell’UE, rifiutano l’inserimento di impegni quantitativi nel testo ufficiale. Al margine della Dichiarazione, i paesi dell’Unione Europea accordano un aumento per raggiungere lo 0,39% del PIL entro il 2006. Paradossalmente, anche gli Stati Uniti annunciano fuori dal testo un aumento dallo 0,10% allo 0,15%. (Martínez Osés e altri, 2006; Sanhuja, 2007) Evidentemente, era la prima tangibile prova dell’intenzione di gestire bilateralmente gli aiuti smarcandosi dagli impegni assunti nell’ambito delle Nazioni Unite.

Nella stessa occasione vennero scartate alcune proposte su nuove fonti di finanziamento come la Tobin

Tax, l’utilizzo degli attivi delle istituzioni finanziarie internazionali o una tassa sulle emissioni inquinanti.

Soprattutto, veniva ribadito che le principali fonti di finanziamento per lo sviluppo sono costituite dal commercio e dai capitali privati, sottolineando il ruolo preminente di quelli esteri e “riservando ai flussi ufficiali un ruolo sussidiario”.

Gli aiuti, in particolare, si giustificano a causa dell’esistenza di “falle nel mercato” – precisamente nell’elevata concentrazione degli investimenti diretti in un numero limitato di “paesi emergenti” - , più che nel diritto allo sviluppo, o per obiettivi di equità o coesione sociale su scala mondiale. (idem)

A ciò sarebbe stato dato il nome di “Consenso di Monterrey” che, nonostante tutto, mantiene ancora formalmente i capisaldi del “patto” fra paesi avanzati e in via di sviluppo sancito nel 2000. Da allora, la definizione, misurazione e rilevanza del patto sarà un oggetto continuo di discussione.

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Nel summit di New York del 2005, “Millennio + 5”, lo scarto rispetto agli impegni presi cinque anni prima si approfondisce. In questa occasione la delegazione statunitense, presentando centinaia di emendamenti alla bozza finale, chiede la soppressione di ogni riferimento agli obiettivi del millennio e la sua sostituzione con la formula più aperta di “obiettivi di sviluppo accordati internazionalmente”, facendo esplicito riferimento al Consenso di Monterrey anziché alla Dichiarazione del 2000. Una delle motivazioni addotte è che la mancanza di controlli statistici adeguati nei paesi in via di sviluppo impedirebbe la verifica del compimento delle otto mete. Anche se ciò fosse stato vero per alcuni paesi, le Nazioni Unite rifiutarono categoricamente l’incongruenza logica di tale argomento. (Meyer; Schultz, 2008; Sanahuja, 2007)

Alla fine viene trovato un compromesso che mantiene il riferimento ai MDGs, registra l’intenzione dell’UE di raggiungere come aiuti allo sviluppo lo 0,5% nel 2010 e lo 0,7% nel 2015, ma la formula finale, ancora una volta, non include né un calendario né obbligazioni concrete. Di contro, gli Stati Uniti ottengono l’inserimento di nuove clausole di condizionalità sulle riforme interne che i paesi recettori devono adottare per ricevere i finanziamenti, e ulteriori richiami al ruolo dei capitali privati e alla difesa della proprietà intellettuale.

Dopo Monterrey, il rinnovato impegno dei paesi dell’Unione Europea si traduce in un maggiore attivismo e conseguente leadership da parte del DAC. E’ precisamente in questo contesto che gli aiuti allo sviluppo diventano un problema eminentemente tecnico di corretta gestione e misurazione dei risultati.

Nel 2003 viene formato un Gruppo di Lavoro tripartito sull’Efficacia degli Aiuti, composto da donatori bilaterali, multilaterali e recettori. La Dichiarazione di Parigi adottata nel 2005 dal DAC ingloba cinque principi – appropriazione, allineamento, armonizzazione, gestione per risultati e rendicontazione mutua – che ne dovrebbero migliorare aspetti ritenuti essenziali: la “partecipazione” di tutti gli attori coinvolti; la coordinazione con le politiche nazionali per migliorare le relazioni di partenariato; l’eliminazione della dispersione in una miriade di progetti coordinando le agende dei donatori e al fine di ridurre i “costi di transazione”, il sovraccarico amministrativo e la capacità di assorbimento dei paesi recettori; una gestione orientata a risultati visibili e concretamente misurabili per responsabilizzare i beneficiari, contentare i finanziatori e le rispettive “opinioni pubbliche”; infine, la mutua rendicontazione, per rendere anche i donatori responsabili verso i beneficiari ed eliminare la percezione (giudicata nociva sull’efficacia degli aiuti!) che si tratti di una relazione asimmetrica.

L’ultima, provvisoria tappa della staffetta iniziata nel 2000 a New York si è conclusa nel settembre del 2008 in Ghana. L’Agenda for Action di Accra (AAA), come documento finale del Terzo Forum di alto livello sull’efficacia degli aiuti, praticamente non apporta nulla di nuovo rispetto ai precedenti incontri. Anzi, registra il disappunto delle organizzazioni della “società civile” anche se hanno visto incrementata la loro partecipazione ai lavori. (Mannak, 2008) Condizionalità e “buon governo” sono i criteri su cui si misurano le reciproche concessioni fra donatori e paesi beneficiari.

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Evidentemente, qui non interessa insistere analiticamente né sulle distorsioni a cui sono di solito imputati i fallimenti di uno strumento ritenuto in potenza sano, quale sarebbe la cooperazione allo sviluppo in condizioni ideali, né sulla reale efficacia degli strumenti elaborati dalla Dichiarazione di Parigi per farvi fronte. I fallimenti a causa delle distorsioni e degli sprechi sono certamente tanto reali quanto il contributo che potrebbe apportare al miglioramento qualche tecnica di gestione contabile, di rendicontazione o delle risorse umane.

In realtà però – come ha ben sottolineato Benjamin W. Mkapa, ex presidente della Tanzania, nel prologo al libro di Yash Tandon (2008) sulla fine della dipendenza dagli aiuti – quelli che in apparenza sembrano “principi benigni”, a una analisi dettagliata “si trasformano in una formula per sottomettere i paesi recettori di aiuti a una disciplina di controllo collettivo da parte dei donanti […]”.

E’ necessario piuttosto insistere sul fatto che con la “tecnicizzazione dell’architettura degli aiuti” (Meyer; Schultz, 2008) il principio di coerenza delle politiche viene nuovamente eclissato.

Da qui, al margine di Dichiarazioni, Consensi, Obiettivi ecc., il riemergere delle peggiori pratiche del passato: tanto nelle politiche di aiuti in senso stretto, quanto rispetto al più ampio “principio di coerenza”.