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1.2. Una cornice storico-mondiale

1.2.1. Gli imperativi della Guerra Fredda

Per apprezzare in profondità l’importanza geopolitica e strategica che la cooperazione ha rivestito per gli Stati Uniti durante la Guerra Fredda, e secondariamente per l’URSS in chiave competitiva, è utile richiamare preliminarmente l’attenzione su due elementi segnalati da Wallerstein (2003). In primo luogo, dopo che l’Unione Sovietica acquisì l’arma nucleare, l’“equilibrio del terrore” si trasformò nella garanzia più efficace dello status quo pattuito a Yalta, e in effetti tale equilibrio fu messo seriamente alla prova soltanto in tre occasioni: durante il blocco di Berlino del ’48-’49, la guerra di Corea del ’50-’53, la crisi cubana del ’62. In retrospettiva, sostiene Wallerstein, “sembra essere chiaro che la Guerra Fredda fu un esercizio fortemente controllato, costruito con cautela e monitorato, che mai andò fuori controllo e mai portò alla guerra mondiale che tutti temevano”.

Assai presto, il vero confronto si spostò sul terreno economico e ideologico.

Gli Stati Uniti capitalizzarono il contesto della Guerra Fredda per lanciare massivi sforzi di ricostruzione economica, prima in Europa occidentale e più avanti in Giappone, così come in Corea del Sud e Taiwan. Il ragionamento era ovvio: che senso aveva poter contare su una schiacciante potenza produttiva se il resto del mondo era incapace di riunire una domanda effettiva? Inoltre, la ricostruzione economica facilitò la nascita di obblighi clientelari con le nazioni che ricevevano aiuti dagli Stati Uniti; questa idea di obbligazione favorì la disposizione a entrare in alleanze militari e, cosa ancora più rilevante, in rapporti di subordinazione politica.

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In secondo luogo, continua Wallerstein, non si deve sottostimare il ruolo della componente ideologica e culturale che la nuova egemonia statunitense ricercava.

Il periodo immediatamente posteriore al 1945 può essere considerato il punto più elevato di popolarità dell’ideologia comunista nella storia. Oggi dimentichiamo con facilità la gran quantità di voti che ricevevano i partiti comunisti nelle elezioni libere realizzate in paesi come Belgio, Francia, Italia, Cecoslovacchia e Finlandia, per non menzionare l’appoggio che raccolsero i partiti comunisti in Asia – Vietnam, India, Giappone – e in tutta l’America Latina. […] In risposta gli Stati Uniti appoggiarono una grande offensiva anticomunista. In retrospettiva, sembra che questa campagna abbia dato buoni risultati: Washington interpretò il ruolo di dirigente del «mondo libero» almeno con la stessa efficacia con cui l’Unione Sovietica interpretò la posizione di dirigente del campo «progressista» e «antimperialista».

Dunque, attraverso gli aiuti e la cooperazione si espresse la volontà di entrambe le superpotenze di ampliare (o proteggere) le rispettive zone di influenza con azioni visibili che ne mostrassero la superiorità del modello politico e soprattutto di sviluppo economico, nonché i vantaggi tangibili derivanti dalla scelta di schierarsi nell’uno o nell’altro campo.

Gli Stati asiatici, dell’Africa e dell’America Latina incominciano ad assumere un ruolo geopolitico cruciale nello scacchiere internazionale. Gli aiuti tecnici e finanziari diventano lo strumento ideale per sperimentare le teorie dominanti dell’epoca, che leggono il sottosviluppo come una insufficiente accumulazione di capitale imputabile ad un utilizzo inefficiente di risorse, fattori di produzione e ritardo tecnologico; mentre i consistenti pacchetti di aiuti militari, contabilizzati insieme al resto, ne mettono in evidenza gli obiettivi strategici. E’ proprio un Atto di mutua sicurezza che, dal 1952 al 1961, anno di fondazione di USAID, costituirà la base legale per gli aiuti statunitensi, iniziati al di fuori dell’Europa proprio con grandi programmi per la Corea del Sud e Taiwan. (Unceta, 2000)

Lo stesso Truman nel ’56 sosterrà che “il punto IV fu l’espressione pratica della nostra attitudine nei confronti dei paesi minacciati dalla dominazione comunista. […] Nei suoi effetti immediati e nel lungo periodo il punto IV forniva l’antidoto più forte contro il comunismo mai messo in pratica”. (cit. in Pino, 1977) Mentre nel ’61, l’anno della fallita invasione a Cuba, Kennedy rincarerà la dose affermando che “gli aiuti esteri sono un metodo attraverso il quale gli Stati Uniti mantengono una posizione di influenza e controllo nel mondo e sostengono svariati paesi che senza di essi sarebbero sprofondati definitivamente o sarebbero passati a formare parte del blocco comunista”. (cit. in Hayter, 1972)

E’ interessante però leggere questa duplice finalità – geopolitica e strategica - anche nelle parole di Walt Rostow, deciso sostenitore negli anni ’50 e ’60 della politica di aiuti internazionali promossa dagli USA, poiché la sua figura incarna emblematicamente la doppiezza fra il pioniere e influente economista dello sviluppo – è l’autore del celebre “manifesto non comunista” in cui viene difesa una teoria universale, lineare e per stadi dello sviluppo economico - e il consigliere politico e militare del Dipartimento di Stato. L’interprete per definizione, cioè, dell’“intellettuale organico”.

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La posizione, le risorse naturali e le popolazioni delle regioni sottosviluppate sono tali che se esse dovessero effettivamente aggregarsi al blocco comunista, gli Stati Uniti diventerebbero la seconda potenza del mondo. […] In modo indiretto, l’evoluzione delle regioni sottosviluppate è destinata probabilmente a determinare il destino dell’Europa occidentale e del Giappone, e quindi l’efficienza di queste regioni industrializzate nell’alleanza del mondo libero che noi siamo chiamati a guidare. […] In breve, nell’evoluzione delle regioni sottosviluppate sono in gioco la nostra sicurezza militare e il nostro modo di vivere, come pure il destino dell’Europa occidentale e del Giappone. (cit. in McMichael, 2006)

Il rapporto tra interessi statunitensi e politica di aiuti è sottolineata ancora più esplicitamente da Hollis Chenery, autore insieme ad Alan Strout del “modello del doppio deficit” e più tardi capo economista e vicepresidente della Banca Mondiale.

L’obiettivo principale degli aiuti esteri, così come di altri strumenti di politica estera, è produrre su scala mondiale il tipo di ambiente politico ed economico nel quale gli Stati Uniti possano perseguire nelle migliori condizioni i propri fini sociali. (cit. in Toussaint, 2006)

E ancora lo stesso autore: “l’aiuto economico è uno degli strumenti di politica estera utilizzato per proteggere le condizioni politiche ed economiche dei paesi nei quali attribuiamo una grande importanza alla permanenza dell’attuale governo”. (cit. in Hayter, 1972)

Di contro, nello stesso anno in cui Rostow annotava le riflessioni sopra citate e Truman chiariva la natura di antidoto del punto IV, il 1956, durante il XX Congresso del Partito comunista dell’URSS - quello in cui lo stalinismo è ufficialmente messo sotto accusa e bandito - Nikita Kruschev spiegava la posizione del blocco socialista in questi termini:

I paesi in via di sviluppo, sebbene non facciano parte del Sistema Mondiale Socialista, possono servirsi delle sue conquiste, […] non hanno bisogno di mendicare ai loro antichi oppressori per procurarsi equipaggiamenti moderni. Possono ottenerli dai paesi socialisti, liberi da qualsiasi obbligo politico e militare. (cit. in Unceta, 2000)

L’Unione Sovietica aveva infatti già firmato nel ’55 un accordo di cooperazione con l’India per la costruzione di impianti di produzione di acciaio e ferro nel Bhilai, e sarebbe subentrata quello successivo nel finanziamento della diga di Assuan, in Egitto, dopo il ritiro dell’offerta degli Stati Uniti e della Banca Mondiale. Uno schema che si sarebbe ripetuto spesso in altri paesi.

Entrambi i blocchi, per quanto antagonisti sul piano politico, condividono sostanzialmente le tesi dello sviluppo economico espresse dalla teoria della modernizzazione, dove l’industrializzazione costituisce la chiave di volta e battistrada della crescita. La differenza (spesso rilevante) è nel metodo - una pianificazione rigida e centralistica o meno accentrata - , e nei settori prioritari di intervento – industria pesante nel caso dell’Unione Sovietica o grandi opere infrastrutturali in quello statunitense e della Banca Mondiale.

E’ importante però ribadire che l’URSS di quegli anni potesse vantare una superiorità in termini simbolici - il “segreto” del titanico sforzo degli anni ’30 mentre il resto del mondo annaspava nella prima grande crisi mondiale del capitalismo - certamente sopravvalutata da entrambi gli schieramenti e ancora di più dai

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dirigenti delle ex colonie, che tuttavia pare abbia ossessionato a lungo i pionieri economisti dello sviluppo. (Easterly, 2006)

Nel tentativo di riprodurre ai “tropici” le condizioni che avevano permesso lo spettacolare “decollo” dell’Unione Sovietica, gli apprendisti stregoni di una nuova disciplina non potevano che insistere sulle tecniche di pianificazione e, per dissuadere i leader dei paesi di recente indipendenza dall’imboccare risolutamente la via socialista, accompagnarle con sempre più massicce iniezioni di capitale. Due colleghi di Rostow, Max Millikan e Donald Blackmer, nel libro del ’61 The Emerging Nations: Their Growth and

United States Policy ammonivano:

Affinché l’aiuto in capitali raggiunga una forza di incentivo tale da persuadere i paesi sottosviluppati a seguire una via compatibile con gli interessi degli Stati Uniti e del mondo libero, le somme offerte devono essere sufficientemente importanti e le condizioni sufficientemente flessibili per convincere i paesi beneficiari che il gioco valga la pena. Ciò significa che dobbiamo investire risorse sostanzialmente maggiori nei nostri programmi di sviluppo economico di quelle investite finora. (cit. in Toussaint, 2006)

Lo stesso anno di pubblicazione del libro nasceva l’agenzia di cooperazione statunitense: USAID, il cui debutto avvenne con la gestione dell’Alleanza per il Progresso kennediana in America Latina.

Alcune note tratte dal Program Guidance Manual dell’agenzia citate da Teresa Hayter nello studio Aiuti e

imperialismo del ’72 non potrebbero essere più chiare al rispetto:

L’aiuto come strumento di politica estera si adatta meglio alla promozione dello sviluppo economico. Lo sviluppo non è un fine in se stesso, ma un elemento critico nella politica degli Stati Uniti, in quanto nella maggioranza dei paesi è essenziale qualche progresso nel benessere economico per il mantenimento e lo sviluppo di società libere non comuniste.

Nello studio citato, finanziato ma poi per ovvie ragioni non pubblicato dalla Banca Mondiale, la Hayter sosteneva all’inizio degli anni ’70 che “l’esistenza degli aiuti può spiegarsi unicamente nei termini di un tentativo per conservare il sistema capitalista nel Terzo Mondo”. Forse non è esattamente così, la questione è sicuramente più complessa, ma di certo si trattava di una delle principali motivazioni.

Su un altro piano, richiamandosi a Bordieu, Grosfoguel (2003) sottolinea che la competizione bipolare su scala mondiale non si sarebbe espressa solo attraverso l’escalation militare o la corsa allo spazio, ma anche mediante la creazione di “paesi vetrina” della periferia o gruppi etnici di successo (come i cubani di Miami) per alimentare il capitale simbolico delle due coalizioni. La quantità di aiuti statunitensi ricevuti negli anni ’50 dalla Grecia (vs Europa dell’Est), dalla Corea del Sud (vs Corea del Nord), da Taiwan (vs Cina), negli anni ’60 dalla Nigeria (vs Tanzania), Portorico (vs Cuba), negli anni ’80 dalla Giamaica (vs Grenada), dal Costarica (vs Nicaragua), per non parlare di Israele, Turchia o Giappone è di gran lunga superiore rispetto a quella di altri paesi. Lo stesso discorso, ovviamente, vale anche per l’Unione Sovietica, anche se le cifre in gioco sono incommensurabilmente inferiori. Peter Taylor (1993) in questo senso ha potuto sostenere ironicamente che se invece della Cina o della Corea del Nord fosse stata l’India a vivere una rivoluzione socialista in piena regola, probabilmente in qualche momento degli ultimi cinquant’anni si sarebbe parlato

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del “miracolo economico” dello Sri Lanka piuttosto che di quello taiwanese o coreano. Il che non significa affatto ridurne il “successo” alle attenzioni speciali ricevute in virtù della posizione sensibile occupata nello scacchiere internazionale. Anche qui la questione è più complessa. Ma certamente ne rappresenta un aspetto, altrimenti non si spiegherebbe perché gli Stati Uniti collaborarono alla riforma agraria sudcoreana e taiwanese mentre osteggiarono a lungo quelle anche assai più moderate dell’America Latina.

Le due superpotenze, in sintesi, agiscono secondo criteri competitivi e contingenti, dirigendo prioritariamente i flussi di aiuti verso le aree “calde” della Guerra Fredda che infatti, in determinati casi, diventeranno gli unici veri scenari di conflitto, ignorando incluso, se necessario, aree tradizionalmente sotto la propria influenza. E’ il caso per esempio del “cortile di casa” latinoamericano degli Stati Uniti, con poche eccezioni al margine dei finanziamenti allo sviluppo durante tutti gli anni ’50, irritando non poco le oligarchie della regione che dal ’45 reclamavano il proprio Piano Marshall. Salvo poi improvvise inversioni di marcia, nello specifico dell’America Latina a partire dal ’61, con la spettacolare Alleanza per il Progresso dettata dall’esigenza di neutralizzare la rivoluzione cubana e gli altri fuochi insurrezionali accesi quasi in ogni paese della regione, a cui sarebbe seguito, come è noto, l’ingresso sovietico prima nell’isola caraibica, poi, in misura inferiore, in altri paesi dell’America centrale.

Date queste premesse - nota Menzel (1995) - se i risultati degli aiuti erano modesti ciò non rappresentava un dramma, almeno fino a quando l’obiettivo di tenere salda la propria egemonia, riducendo le tensioni sociali e potenziali cambi di schieramento, fosse stato raggiunto.