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L’Agenda dello Sviluppo della Globalizzazione (o delle pubbliche virtù)

1.4. La cooperazione dopo il Washington Consensus: «vizi privati e pubbliche virtù»

1.4.1. L’Agenda dello Sviluppo della Globalizzazione (o delle pubbliche virtù)

Già dagli anni ’90 l’alluvione di tanti mea culpa e j’accuse di noti intellettuali ed ex funzionari internazionali, piovuti anche in conseguenza dei disastrosi risultati nella gestione della transizione al mercato delle economie socialiste e della crisi asiatica, ma soprattutto a causa dell’ecatombe sociale provocato dall’aggiustamento strutturale in Africa subsahariana e America Latina, ha stimolato una riflessione generale sul ruolo politico e per nulla neutrale delle istituzioni finanziarie multilaterali, e una specifica sui limiti degli aiuti, sul loro potere di corrompere e creare dipendenza, quindi sul fatto che spesso non arrivino a chi realmente ne ha bisogno. In ogni caso, però, invertendo la tendenza del Trade not Aid thatcheriano, ne veniva recuperata la funzione e ribadita la necessità per lo sviluppo. Su questa linea, osserva Estay (2001), tanto nella Banca Mondiale quanto nell’FMI, nell’Organizzazione Mondiale del Commercio o nel DAC, anche se con enfasi differente, si andava (parzialmente) accettando l’idea che il superamento del sottosviluppo esigesse qualcosa di più che mercati globalmente aperti alla concorrenza e straordinarie facilitazioni per lo spiegamento del gran capitale.

Nel 1990 la Banca Mondiale dedica il suo Rapporto annuale alla lotta contro la povertà. Quando James Wolfensohn ne diventa presidente nel 1995, questa diventerà ufficialmente la meta prioritaria dell’Istituto. Dal 1996, insieme all’FMI, viene lanciata l’iniziativa per la riduzione del debito dei paesi maggiormente indebitati (Heavily Indebted Poor Countries’, HIPCs) il cui obiettivo sarebbe stato annullare rapidamente il 90% del debito estero di 41 paesi. Nel 1998, dopo la crisi asiatica, sarà la stessa Banca a presentare la proposta formale di un Post-Washington Consensus a partire da una prospettiva teorica neo-istituzionalista, che a quanto pare fu introdotta nell’istituto da Joseph Stiglitz quando era capo economista, e che avrebbe

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dato legittimità alle riforme di “seconda generazione” che la Banca stava già attuando. (Estay, 2001) In una serie di working papers, alcuni dei quali firmati dallo stesso Stiglitz e ai quali sarebbe seguito il Rapporto del 2001 intitolato “Istituzioni per il mercato”, viene criticata la posizione precedentemente assunta sullo “Stato minimo”, sottolineando la necessità di restituire all’azione statale gli ambiti e le funzioni che le sono proprie, attraverso la “costruzione del consenso e di una attiva partecipazione sociale”. (idem) L’anno successivo, il ’99, sempre in collaborazione col Fondo Monetario Internazionale, appare il progetto sulle strategie di riduzione della povertà (Poverty Reduction Strategies Papers, PRSP) che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto costituire il punto focale di tale partecipazione.

Dall’altro lato della strada, l’FMI annunciava sempre nel 1999 l’adozione “di un nuovo approccio di lotta contro la povertà nelle relazioni con i paesi a basso reddito”, cambiando la dicitura del precedente “Servizio rinforzato per l’aggiustamento strutturale” in “Servizio per la crescita e la lotta contro la povertà”, e introducendo – diceva proprio così - “un pilastro sociale nell’architettura finanziaria internazionale”. (FMI, 2001, cit. in Estay, 2001)

Le Nazioni Unite, dopo il 1990, ritornano con forza sulla scena internazionale reclamando il “dividendo di pace” dovutogli al termine della Guerra Fredda. Nel corso di questo decennio, in una serie di importanti vertici tematici mondiali – Infanzia (New York, 1990), Ambiente (Rio, 1992), Diritti Umani (Vienna, 1993), Popolazione (El Cairo, 1994), Sviluppo sociale (Copenaghen, 1995), Donne (Pechino, 1995), Alimentazione (Roma, 1996) – viene definita l’adozione di un nuovo concetto di «sviluppo» - “multidimensionale” - per rilanciare l’agenda della cooperazione internazionale. E’ grazie a questi fori che le nozioni di sostenibilità, sviluppo umano, partecipativo ecc. escono dai perimetri chiusi delle Università e degli Istituti di ricerca per convertirsi nelle colonne portanti delle mete del millennio.

Tuttavia sono i paesi DAC che nel 1996, in un documento intitolato “Shaping the 21st Century. The

contribution of Development Cooperation”, riformulano questi obiettivi accompagnandoli ad indicatori

quantitativi per la loro misurazione, e ad un orizzonte temporale, il 2015, per il loro raggiungimento. Una delle ragioni neanche troppo nascoste di questa conversione di principi generali in traguardi misurabili è, come nel caso delle “sorelle”, la volontà di restituire legittimità agli aiuti pubblici allo sviluppo, di dimostrare che la “fatica” a loro attribuita e l’inefficacia erano state solo temporanee, in un momento in cui dopo essere stati il bersaglio dei teorici neoliberali negli anni ’80, erano diventati oggetto di dubbi crescenti anche da parte dei critici della globalizzazione.

Nel 2000, con l’impegno formale assunto dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale, dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, dai paesi riuniti nel DAC e dalla quasi totalità dei paesi in via di sviluppo, si concreta la “multilateralizzazione” degli Obiettivi del Millennio. (Sanahuja, 2007) La Dichiarazione finale, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con il voto favorevole di 189 Stati e 147 capi di Stato e di governo, riceveva apparentemente un appoggio politico senza precedenti.

Sanahuja (2007) considera questa fase come “l’espressione concreta della globalizzazione dello spazio politico e sociale” e, data la partecipazione nella formulazione delle mete da parte di Ong, organizzazioni internazionali e movimenti sociali accanto agli Stati ed alle istituzioni multilaterali tradizionali, “della

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particolare correlazione di forze e coalizioni sociali e politiche che emerge in questo scenario”. E continua: “Gli Obiettivi del Millennio sono parte di una agenda sociale globale emergente che cerca di dare una dimensione di equità alla globalizzazione”. E anche se ciò contribuiva a legittimarla, in ogni caso si opponeva alla visione “globalista”, economicista e neoliberale. (idem)

Concretamente, in otto punti viene proposto di dimezzare entro il 2015 il numero di persone che vivono in una situazione di povertà estrema; di dare accesso universale all’educazione primaria; di fare progressi entro il 2005 per raggiungere nel 2015 l’uguaglianza sostanziale fra i sessi ed eliminare le disparità di accesso all’educazione primaria e secondaria; di ridurre entro il 2015 di 2/3 il tasso di mortalità infantile di neonati e bambini sotto i 5 anni e di 3/4 il tasso di mortalità materna; di raggiungere entro il 2015 l’accesso universale ai servizi di salute per le donne e le giovani in età riproduttiva; di ridurre l’incidenza di malattie curabili come la malaria e la tubercolosi e di fare progressi nella lotta al virus dell’HIV; di applicare in tutti i paesi entro il 2005 strategie di sviluppo sostenibile al fine di garantire alla data limite del 2015 il recupero delle risorse ambientali. Non una parola, invece, sulla questione della disuguaglianza, né una analisi delle cause (o delle politiche) che rendono in tempi ragionevolmente urgenti il compimento delle mete.

Accanto a questi punti, molti analisti concordano nell’affermare che la novità principale si trovi in realtà nell’ottavo obiettivo, che si riferisce - non limitandosi al ruolo giocato dagli aiuti ufficiali - ai mezzi

necessari per il raggiungimento dei sette precedenti.

Con la proposta di una “Associazione Mondiale per lo Sviluppo” si mette nero su bianco, anche se con un impegno soltanto formale, politico e forse morale, ma ancora una volta senza alcun obbligo di carattere giuridico, il “patto” fra i paesi del Nord e del Sud menzionato in apertura. Così lo descrive Sanahuja (2007):

L’Obiettivo 8 […] impegna ampiamente i paesi industrializzati in materia di apertura commerciale, di riduzione del debito, accesso alla tecnologia e li incalza a destinare allo sviluppo maggiori aiuti migliorandone l’efficacia. In cambio, i paesi in via di sviluppo si impegnano al “buon governo” e ad adottare politiche adeguate per la riduzione della povertà.

Il tutto con la benedizione delle Nazioni Unite, delle due “sorelle”, delle più importanti Ong internazionali ed anche, destando qualche sospetto, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Il “principio di coerenza” delle politiche, così è stato definito, ha implicazioni importanti perché anche se successivamente sarà minimizzato, ridimensionato, disatteso, negato, sottintende una delle tesi di fondo che sostengo: la cooperazione allo sviluppo, intesa esclusivamente come ciò che ruota attorno agli aiuti ufficiali, ai crediti preferenziali o alla beneficenza privata, ha sempre costituito soltanto “un capitolo nell’insieme delle politiche che i paesi avanzati adottano e che hanno effetto sui paesi in via di sviluppo”. (idem) E se fino alla metà degli anni ’70 il suo peso specifico nel complesso di queste politiche era stato considerevole, oggi, per quanto gli aiuti continuino ad essere di vitale importanza per un buon numero di paesi, nell’economia politica della globalizzazione tale peso è decisamente diminuito o è addirittura residuale.

Le politiche commerciali, agricole o della pesca, quelle relazionate agli investimenti esteri, le politiche migratorie o di asilo, di sicurezza e di difesa, possono incidere sui paesi in via di sviluppo in misura

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maggiore che gli aiuti. Lo sforzo realizzato dai donatori di concedere più aiuti e migliorarne la qualità può essere futile se altre politiche operano in senso contrario. (idem)

Ma anche su questo sforzo, come si vedrà nei prossimi paragrafi, c’è parecchio da discutere.

In sintesi, con l’ampio consenso confluito nell’agenda unica degli obiettivi del millennio, ciò che si viene a delineare negli anni ’90 è nella sostanza una nuova divisione internazionale del lavoro sullo «sviluppo» fra i diversi attori: alle Nazioni Unite il compito di aggiornarne il concetto, per renderlo “umano” e “sostenibile”; alle istituzioni finanziarie quello di armonizzarlo con la crescita economica, mediante la ricomposizione di Stati efficienti, rispettosi del mercato e amici della “società civile”; alle agenzie nazionali la responsabilità di smettere di fare le “furbe” con gli aiuti e di escogitare meccanismi per reperirne di più e migliorarne la efficacia, ponendo solo “condizionalità appropriate”; ai dirigenti dei paesi in via di sviluppo l’incombenza di dimostrarsi dei “bravi governanti”, collaborare con le istituzioni che li finanziano, non rubacchiare sugli aiuti e far “partecipare” tutti al delicato lavoro di ricostruzione dello Stato che, fra le altre cose, “sconfiggerà” la povertà; alle Ong internazionali la missione di rappresentare i “poveri” nei fori in cui questi non hanno accesso e, insieme a quelle nazionali e locali, di “sfamarli” o, più raramente, di “aiutarli” a organizzarsi per rivendicare dei “diritti”.

Sullo sfondo l’obiettivo otto: l’ammissione (tardiva) che le regole del gioco nel sistema economico e politico internazionale sono squilibrate a favore dei giocatori più forti, che “cooperare” implicherebbe in primo luogo correggere le asimmetrie che la competizione di per sé genera, soprattutto quando il punto di partenza non è uguale per tutti i giocatori e le risorse e gli strumenti per competere sono distribuiti in modo profondamente diseguale. Come era accaduto tante altre volte in passato, ci si impegnava a essere “coerenti”.