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Alcune tendenze della cooperazione Sud-Sud oggi (la Cina si avvicina…)

2.5. La cooperazione Sud-Sud (alternativa a metà?)

2.5.3. Alcune tendenze della cooperazione Sud-Sud oggi (la Cina si avvicina…)

principali”, e che “E’ improbabile che cambino attitudine a meno che i paesi in via di sviluppo mostrino più interesse e determinazione al riguardo”.

Ma la determinazione, in quel momento, si sarebbe consumata nella rinegoziazione del debito, paese per paese, senza un cartello o associazioni simili, perché anche se la Commissione Sud in diverse parti del rapporto accenna all’opportunità di un foro dei debitori, l’unica raccomandazione concreta (e forse realistica per quella data) presente nel testo, è di creare un’associazione finanziata dall’UNDP per fornire un servizio di specialisti provenienti dal G24 in questioni monetarie e finanziarie ai paesi che negoziano con l’FMI e la Banca Mondiale, perché “non tutti […] sono preparati tecnicamente per negoziare efficacemente e in condizioni di parità le complesse questioni implicate e ottenere i migliori accordi possibili con entrambe le istituzioni”. La possibilità di creare nuove istituzioni e, in particolare, una Banca del Sud, pur presente e auspicata nel testo, è rimandata “nel lungo periodo”.

Delle azioni prioritarie raccomandate – cioè i punti già segnalati più alcuni altri – sarebbe rimasta in piedi l’unica che non ho menzionato: la creazione di una segreteria del Sud per coordinare e appoggiare le iniziative dei paesi membri, considerando insufficiente il ruolo svolto sul piano internazionale dal Movimento dei non allineati e dal G77. Il solo risultato concreto raggiunto in quel momento, cioè, si sarebbe esaurito nell’istituzione del South Centre, ancora oggi un prestigioso think tank intergovernativo dei paesi in via di sviluppo con sede nella città elvetica che aveva ospitato la segreteria della Commissione.

2.5.3. Alcune tendenze della cooperazione Sud-Sud oggi (la Cina si avvicina…)

«Abbiamo ancora molta strada da fare prima che l’obiettivo della modernizzazione sia raggiunto. Tuttavia, noi offriamo con convinzione e amicizia la nostra assistenza con la più profonda sincerità e senza alcuna condizione politica»

(Wen Jiabao, discorso durante il II Forum di cooperazione Cina-Africa ad Addis Abeba, 2003)

Gladys Lechini (2007) sostiene che il modello di cooperazione Sud-Sud come era stato pensato negli anni ’70 sull’onda del successo ottenuto dalla OPEC e che ancora trovava degli echi nella Commissione Sud è fallito per la sua natura troppo generale e ampia sfera di azione. Per questa autrice le basi di partenza nascondevano a monte una premessa errata: quella secondo cui i paesi sottosviluppati avessero più cose in comune di quelle che in realtà possedevano, e che tutte le soluzioni quindi si sarebbero potute applicare uniformemente per raggiungere gli stessi obiettivi.

Tale ragionamento è convincente nella misura in cui si non si perdano di vista le cose dette da Fidel Castro nel Rapporto del 1983 e, soprattutto, la più ampia riflessione di Amin (1994; 2005) sulle debolezze,

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ambiguità e contraddizioni intrinseche del “progetto sviluppo” e sui blocchi sociali ed elite politiche che lo portarono avanti nel contesto bipolare della Guerra Fredda.

In ogni caso, però, è fuori discussione che sul piano internazionale il Movimento dei non allineati e la sua proiezione politica all’interno delle Nazioni Unite come G77 sino alla fine degli anni ’70 professassero una posizione collettiva antimperialista. Certo troppo poco per un progetto ambizioso di emancipazione come era stato immaginato dalle menti più brillanti del Terzomondismo se si parte dalla considerazione banale forse, ma assolutamente fondata storicamente, che antimperialismo non è mai stato sinonimo di progressismo (interno o internazionale), né che il Movimento dei non allineati sia mai stato un foro internazionalista di paesi di sinistra. Anzi, in retrospettiva, sempre Amin (2005) ha sostenuto in modo convincente che “il Movimento dei non allineati [...] perse poco a poco il carattere di fronte solidario centrato nelle lotte di liberazione e nel rifiuto dei patti militari, per trasformarsi in un «sindacato» di rimostranze da fare al Nord”.

Il diverso esito nei processi nazionali di sviluppo e poi di inserimento nei circuiti della globalizzazione, così come una ritirata generale della unità e solidarietà del Sud a partire dai periodici cicli di crisi iniziati negli anni ’70, lo avrebbero dimostrato ampiamente. D’altronde, come già ricordato, è proprio nella netta prevalenza del carattere politico-ideologico di questo movimento che Arrighi (2008) ne individua l’elemento di maggiore debolezza. “La Bandung originale – afferma - era nata su un terreno squisitamente politico- ideologico, e proprio per questo venne facilmente disarticolata dalla controrivoluzione monetarista”.

Di fatto, dopo lo stop quasi forzato degli anni ’80, ricorda ancora la Lechini (2007) che:

Durante gli anni ’90, gli effetti della globalizzazione mostrarono che ci sarebbero stati nuovi vincitori e perdenti, ma anche che quasi nessuno di questi vincitori si trovava fra i paesi in via di sviluppo. Questa presa di coscienza, racchiusa nella delusione rispetto alle possibilità che il nuovo sistema di governo globale basato sulle cosiddette IFI […] e l’Organizzazione mondiale del Commercio potesse contribuire a sostenere un ordine internazionale più giusto, portarono i governi dei paesi del Sud a ripensare l’idea di una cooperazione orizzontale, questa volta più selettiva in termini di attori e temi, prendendo spunto dalle lezioni del passato.

Le dichiarazioni del 2003 riportate da Arrighi (2008) di un ex ministro degli esteri indiano sono estremamente illuminanti al riguardo:

In passato le relazioni fra l’India e la maggior parte degli stati asiatici, ivi compresi quelli dell’Estremo Oriente e del Sud-Est asiatico, si fondavano sulla concezione idealistica di una specie di fratellanza asiatica, frutto della comune esperienza del colonialismo e di legami culturali […], oggi sono i commerci, gli investimenti e la produzione a dettare in modo altrettanto determinante dei connotati storici e culturali il ritmo della regione.

La nascita del G20, formalizzata nel vertice dell’OMC di Cancún dello stesso anno, ha rappresentato l’elemento tangibile di come questa tendenza trascendesse già ampiamente il piano meramente regionale. Il fatto che la leadership di questo gruppo sia ricaduta per il Sud sulle attuali maggiori quattro potenze emergenti esclusa la Russia – India, Brasile, Sudafrica e Cina – avalla questa tesi. Il progetto parallelo IBSA di cooperazione fra i primi tre paesi menzionati è inoltre un segno evidente della volontà politica delle

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potenze medie di porsi alla guida di nuove coalizioni dei paesi in via di sviluppo, rafforzando al contempo i reciproci legami. Cosa che si riflette chiaramente nel fatto che questi paesi, insieme ad altri con un minor peso regionale e internazionale, pur continuando a essere recettori di aiuti internazionali si sono trasformati a loro volta in “donatori emergenti”, o in pezzi chiave della cooperazione triangolare fra le nazioni occidentali e i paesi più poveri. Ultimamente, infine, l’attenzione politica e mediatica verso questo gioco di raggruppamenti trasversali, si è giustamente concentrata sulla coalizione battezzata da un analista di Goldman Sachs BRIC, ovvero, Brasile, Russia, India e Cina.

La cooperazione realizzata in questi termini in linea di principio dovrebbe essere vista positivamente considerato il bagaglio di esperienze che ogni attore può apportare rispetto a problematiche almeno in parte comuni e normalmente ancora urgenti per entrambi i soggetti della relazione. Tuttavia, tralasciando per ora le implicazioni geopolitiche dirette – il problema sentito da molti analisti se in fin dei conti la politica di questi paesi non sia orientata a trasformarsi in nuovi “centri”, approfittando della invidiabile posizione raggiunta nella gerarchia internazionale e riproducendo su scala regionale o anche globale le tipiche dinamiche squilibrate Nord-Sud – occorre esaminare, senza la pretesa di esaurire una questione aperta e su cui le informazioni sono ancora piuttosto scarse, le tendenze in atto rispetto ai tre criteri minimi segnalati da Dubois (2000) e sintetizzati nel primo capitolo per caratterizzare un regime di cooperazione internazionale: la concezione di «sviluppo» da cui si parte e le priorità che stabilisce, il modo in cui si presenta la relazione fra donatori e recettori, i contenuti etici, infine, e il grado di responsabilità che si assumono i donatori per raggiungerli. E’ opportuno, in questo senso, presentare anche alcuni dati riprendendo la classificazione proposta nel paragrafo su la Proliferazione dei donatori e frammentazione dell’aiuto.

L’Unità Speciale per la Cooperazione Sud-Sud dell’UNPD indicava nel 2006 flussi di aiuti fra paesi classificati come in via di sviluppo per una cifra compresa fra i 3 e i 5 miliardi di dollari, cioè il 5-10% del totale degli aiuti allo sviluppo. Senza ritornare sul caso dei paesi arabi, di cui già si è detto, e dei paesi dell’Europa dell’Est, tali flussi sono attribuibili a tre gruppi di paesi (stranamente in nessuno dei documenti presi in esame viene menzionata la Russia, che certamente contribuisce notevolmente nella zona euroasiatica e non solo).

Il primo gruppo è relativo a Corea del Sud, Messico e Turchia, ognuno di essi impegnato da tempo in programmi di assistenza soprattutto nei paesi confinanti. Tale cooperazione è certamente connessa alle politiche di contenimento della pressione migratoria ma anche, in particolare nel caso della Corea, a favorire crediti per l’esportazione e facilitare gli investimenti esteri diretti. In mancanza di dati precisi, è più che ragionevole ipotizzare che si tratti nella maggior parte dei casi di aiuti legati, anche se i termini di concessione sono probabilmente più favorevoli rispetto a quelli dei paesi OCSE.

Il secondo gruppo è definito dall’UNDP come di “small donors”, in quanto questi paesi “non stanno canalizzando grandi flussi di risorse, ma [presentano] il potenziale per una ulteriore espansione”. (idem) Si tratta, ricordando solo i maggiori (la lista è lunghissima), del Sudafrica, della Malesia, della Tailandia, del Brasile, del Cile, del Venezuela. In alcuni casi si è in presenza di progetti produttivi congiunti, programmi di borse di studio e interscambio, scambi commerciali preferenziali o cooperazione triangolare con i paesi del

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Nord – Giappone, Canada, Australia e Nuova Zelanda sono fra i paesi OCSE quelli che stanno sperimentando maggiormente questa modalità – o di triangolazione Sud-Sud – un caso classico è quello del Sudafrica o del Venezuela che finanziano programmi sanitari in paesi terzi realizzati dalla cooperazione cubana. Alcuni di essi, specie dopo lo Tsunami del 2005, hanno iniziato ad essere impegnati anche nel settore umanitario e delle emergenze. Risulta a questo proposito singolare che un paese come la Nigeria, il cui condono del debito insieme a quello dell’Iraq aveva nel 2005 gonfiato artificialmente le cifre totali dell’APS, nello stesso anno offrisse un milione di dollari per la ricostruzione asiatica.

Fra i donatori emergenti, però, i casi di Cina e India sono senza dubbio i più rilevanti. Accanto ai tradizionali paesi beneficiari di aiuti da parte dei due colossi asiatici – Corea del Nord nel caso della Cina e Nepal e Bhutan in quello dell’India – riporta l’UNDP che entrambi gestiscono oggi significativi programmi di assistenza che, soprattutto nel caso della Cina, sono destinati a incrementarsi. Così, mentre l’India progetta di ampliare la concessione di crediti ai paesi africani legati all’acquisizione di propri prodotti per una cifra di 300-400 milioni di dollari annuali e stanzia contemporaneamente 2 miliardi di dollari in cooperazione tecnica, l’“Impero di mezzo” durante il Summit del 2005 di revisione degli Obiettivi del Millennio si è impegnato ad estendere la propria assistenza includendo anche nuove operazioni di riduzione e cancellazione del debito (già iniziate nel 2000 e che finora hanno cancellato 150 debiti di 32 paesi), e sostenendo i costi per la formazione in campo medico di trentamila persone provenienti dai paesi in via di sviluppo. D’altra parte - segnala Sanahuja (2007) – il gigante asiatico è stato nel 2005 il terzo fornitore di aiuti alimentari a livello mondiale, e tra il 2005 e il 2006 ha concesso ai paesi africani crediti per 8 miliardi di dollari. Oggi, ha superato in quest’area la Banca Mondiale come principale fonte di prestiti e crediti allo sviluppo. (Parra, 2008; Gardelli, 2009)

Nonostante l’imponente acquisto di buoni del tesoro statunitense – sottolineano Arrighi e Zhang (2009) – la Cina ha giocato (e presumibilmente giocherà) un ruolo da leader nel riorientare i surplus del Sud verso il Sud, e nel fornire allettanti alternative in campo commerciale, degli investimenti e dell’aiuto allo sviluppo rispetto ai paesi del Nord e alle istituzioni finanziarie internazionali.

Il direttore delle Filippine dell’Asian Development Bank dichiarava nel 2006: “Ora sul terreno di gioco è entrato un nuovo, grande giocatore che ha i mezzi per cambiare il panorama dell’assistenza ai paesi d’oltremare in via di sviluppo”. (cit. in Arrighi, 2008) Si riferiva evidentemente alla promessa cinese di prestiti aggiuntivi per il Paese di 2 miliardi di dollari all’anno per tre anni, facendo impallidire i 200 milioni offerti dalla Banca Mondiale e dalla Banca Asiatica di Sviluppo, e competendo con il miliardo in negoziazione col Giappone, garantendo tra l’altro la protezione di cui la presidente Arroyo aveva bisogno una volta perso il favore di Washington a causa del ritiro delle truppe filippine dall’Iraq. (idem)

Questo esempio è secondo Arrighi (2008) nient’altro che una variante di molti altri casi analoghi sparsi un po’ per tutto il mondo.

Questo è solo un esempio del numero crescente di grandi affari finanziari in cui la Cina ha messo fuori mercato le istituzioni finanziarie del Nord offrendo ai paesi del Sud condizioni più remunerative per poter accedere alle loro risorse, maggiori prestiti con meno contropartite politiche e senza costose spese di

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consulenza e l’esecuzione di grandi e complessi progetti di infrastrutture in aree lontane, alla metà del costo dei concorrenti del Nord.

I dati a disposizione confermano ampiamente questa tesi. Vale la pena insistere sulla cooperazione sino- africana perché come dichiarato da Wen Jiabao nel 2003 si tratta della relazione Sud-Sud fra “la più grande nazione in via di sviluppo e il più grande continente in via di sviluppo”.

La nuova politica cinese per l’Africa è stata ufficializzata al mondo nel novembre del 2006, quando Pechino ha ospitato 48 capi di Stato e di governo del continente nero. E’ stata riassunta in questi termini:

Cinque le mosse previste, da realizzare entro il prossimo vertice sino-africano, previsto per il novembre 2009 al Cairo: raddoppiare gli aiuti dati all’Africa nel 2006; offrire 3 miliardi di dollari in prestiti preferenziali e altri 2 miliardi in crediti all’esportazione; creare un fondo di sviluppo Cina-Africa di 5 miliardi di dollari per incoraggiare le compagnie cinesi a investire in Africa; cancellare il debito dei paesi altamente indebitati e/o meno sviluppati; portare a 440, dalle 190 attuali decise nel precedente summit di Addis Abeba del 2003, le merci africane che possono entrare in Cina senza dazi; creare dalle tre alle cinque “zone di cooperazione commerciale ed economica” in Africa; e addestrare 15mila professionisti africani nei settori agricolo, culturale e medico, con una particolare attenzione alla lotta alla malaria. (Panozzo, 2008)1

In realtà, le fondamenta della nuova cooperazione sino-africana erano state poste dieci anni prima, nel 1996, quando Jiang Zemin “s’imbarcò […] in un lungo tour diplomatico delle capitali di molti paesi africani e stabilì ufficialmente delle relazioni politiche su base non-ideologica, ponendo grande enfasi sul commercio delle materie prime”. (Gardelli, 2009)

Lo strumento attraverso il quale vengono delineate le linee strategiche di questa cooperazione è il FOCAC (Forum on China-Africa Cooperation), operativo dall’ottobre del 2000, quando “in una Pechino completamente decorata con motivi, simboli e paesaggi del Continente Nero” si riunirono con le massime autorità politiche ed economiche cinesi circa 80 ministri africani in rappresentanza di 44 paesi. (idem)

Gli aiuti economici, in costante aumento, sono passati dai 100 milioni di dollari a metà degli anni ’90 a 2,7 miliardi nel 2004, la maggior parte dei quali incanalati attraverso la Exim Bank (China Import-Export Bank), la più grande fonte di prestiti del continente. (Huse, 2008, cit. Gardelli, 2009)

Il commercio bilaterale si è incrementato nel 2007 del 40% rispetto al 2005, per una cifra di 56 miliardi di dollari, superando il volume di quello francese, e nel 2008 del 45% rispetto all’anno precedente, per un ammontare di circa 106 miliardi. (Parra, 2008; Deen, 2009) Sono oggi presenti in Africa più di 700 imprese e 750 mila professionisti cinesi. Mentre all’inizio degli anni ’90 gli investimenti diretti erano inferiori a 5 miliardi di dollari, nel 2006 secondo la Banca Africana di Sviluppo avevano raggiunto quasi i 12 miliardi.

1 A questi dati, di per sé già impressionanti, si possono aggiungere gli impegni stabiliti nello stesso Forum dal governo

di Pechino riportati da Gardelli (2009): l’invio di oltre 100 esperti in agricoltura, la creazione di 10 centri speciali per la formazione di tecnici e la dimostrazione alla popolazione delle tecniche agroalimentari; la costruzione di 30 ospedali e 30 centri per la prevenzione e cura delle malattie; la costruzione di 100 scuole rurali e l’aumento del numero di borse di studio emesse dal governo cinese per studenti africani da 2000 all’anno (nel 2007) a 4000 all’anno entro il 2009. Lo stesso autore nota anche che “l’incontro fu l’occasione per concludere un gran numero di accordi commerciali per una cifra di svariati milioni di dollari riguardanti l’accesso a risorse naturali e asset commerciali d’importanza strategica”.

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(Parra, 2008) E ancora, nell’ultimo Forum di Cooperazione realizzato a novembre del 2009, il primo ministro Wen Jiabao ha annunciato la concessione di prestiti per un valore di 10 miliardi di dollari in tre anni, duplicando l’offerta fatta da Hu Jintao nel precedente Vertice del 2006. (Gara, 2009)

E’ indubbio che tale cooperazione a 360 gradi presenti dei vantaggi notevoli rispetto alla tradizionale cooperazione Nord-Sud per i governi che ne beneficiano. La ragione è semplice: non è subordinata a nessun tipo di condizionalità politica o criterio di selettività (basta confrontare l’epigrafe di questo paragrafo con la citazione di G. W. Bush nel paragrafo su Le condizionalità di «seconda generazione»). E apparentemente, nel breve periodo almeno, è anche assai più conveniente dal punto di vista economico.

Il governo cinese non è minimante interessato a tutte quelle clausole di rispetto della democrazia, dei diritti umani, delle buone politiche ecc. che fanno parte del discorso della governance occidentale. E anche rispetto al tema ambientale è molto più tollerante, per non dire quasi totalmente indifferente. Come viene sostenuto correntemente, “Pechino fortifica i suoi vincoli al riparo della massima, ripetuta fino alla nausea, di non interferire negli affari interni dei suoi soci”. (Parra, 2008) Anche se, in realtà, questa affermazione è vera solo parzialmente. Pochi mesi fa, per esempio, in una riunione del foro africano NEPAD (voluto dai paesi occidentali e soprattutto dalla Gran Bretagna e al momento dalla dubbia efficacia), l’ambasciatore cinese Liu Zhenmin oltre a ribadire che nel futuro il suo Paese avrebbe aumentato gli aiuti nei settori agricolo, educativo, medico e delle energie pulite, ha anche confermato l’appoggio ai paesi africani nella prevenzione e soluzione dei conflitti. (cit. in Deen, 2009)

Inoltre, allo stesso modo in cui una vasta gamma di prodotti cinesi è estremamente competitiva nei mercati occidentali, lo stesso avviene a maggior ragione in quelli africani, e la possibilità di importare prodotti a basso costo e per giunta usufruendo di crediti agevolati è molto apprezzata da governi assillati dal debito e con bilanci statali cronicamente in rosso.

D’altra parte, la crescita vertiginosa della Cina ha implicato la necessità di importazioni sempre più consistenti, con il doppio risvolto da un lato dell’apertura di nuovi mercati per materie prime e prodotti agricoli le cui quote dei paesi occidentali erano in calo (più la relativa costruzione delle infrastrutture necessarie all’esportazione), e dall’altro farne lievitare i prezzi sui mercati internazionali, conseguenza questa del primo aspetto.

E’ stato sottolineato che per tutte queste ragioni, e alimentata da un mai sopito sentimento antioccidentale rafforzatosi enormemente dalla notte buia dell’aggiustamento strutturale e su cui Pechino gioca abilmente nella retorica ufficiale, si tratta di una cooperazione che fluisce molto più velocemente di quella tradizionale, e quindi, nel breve periodo, è certamente più efficace. Non è solo il pariah della comunità internazionale Mugabe a tesserne le lodi, ma anche il presidente del Botswana Festus Mugae, rispettato governante della Svizzera africana: “I cinesi ci trattano come pari, invece gli occidentali ci trattano come ex subordinati. Questa è la verità. Io preferisco l’atteggiamento del governo di Pechino a quello degli occidentali”. (cit. in Gardelli, 2009) E su un altro piano a fargli eco è l’ambasciatore della Sierra Leone Sahr Johnny quando afferma:

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A noi piace fare affari con i cinesi perché con loro abbiamo un incontro, discutiamo quello che vogliamo fare, e poi loro semplicemente lo fanno. Non ci sono standard o precondizioni, nessuna valutazione d’impatto ambientale. (Obiorah, 2007, cit. in Gardelli, 2009)

Evidentemente, quindi, si tratta di aiuti legati, almeno al 70% secondo Gardelli (2009), mentre il restante è normalmente affidato a join venture tra compagnie africane e cinesi, appaltati “a corporation cinesi e destinati a progetti che favoriscono in qualche modo il commercio o l’industria di matrice cinese” e in cui questi “si prendono cura di ogni aspetto dell’attuazione del progetto, importando addirittura dalla Cina la