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Le proposte della Commissione Sud (ultimo valzer terzomondista?)

2.5. La cooperazione Sud-Sud (alternativa a metà?)

2.5.2. Le proposte della Commissione Sud (ultimo valzer terzomondista?)

La South Commission ha riunito per tre anni dal 1987 sotto il coordinamento dell’ex presidente della Tanzania Julius Nyerere un gruppo di autorevoli intellettuali e uomini di Stato espressione – come viene specificatamente sottolineato nella prefazione del rapporto finale e in tutti i resoconti posteriori – di culture politiche e tradizioni diverse. Forse non è privo di significato evidenziare il dettaglio che la segreteria esecutiva della Commissione Sud fosse stata ubicata a Ginevra, in Svizzera, e assistita dal governo di questo paese, e che i lavori siano stati finanziati dai contributi volontari delle nazioni sviluppate. In un momento in cui la maggior parte dei paesi del Terzo mondo era strangolata dal debito, il prezzo delle materie prime e dei prodotti agricoli ai livelli più bassi dagli anni ’60, il dialogo Nord-Sud congelato dal tandem Reagan/Thatcher e l’audacia che aveva promosso il NIEO forse neanche più un ricordo, tale commissione nasceva con l’impegnativo compito di indicare strategie per favorire una maggiore cooperazione Sud-Sud e ristabilire/migliorare il dialogo con il Nord. In particolare, però, lo scopo specifico era redigere una piattaforma per coordinare una posizione comune sulla questione del debito e l’appena iniziato Uruguay

Round. Cosa che nei fatti sarebbe ampiamente fallita.

Non ha più grande importanza chiarire il significato politico di questa iniziativa, né cercare di capire quanto realisticamente i membri della Commissione fossero convinti che in quella particolare congiuntura le

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loro proposte sarebbero state non tanto accolte, ma quantomeno ascoltate. D’altronde, Rist (1996) segnala bene le innumerevoli incoerenze presenti nel testo finale, il fatto che “si cercherebbe invano nel rapporto

l’abbozzo di una via nuova, o qualche idea-forza che [lo] strutturi”, e che, limitandosi a fare “un giro dei

problemi”, non diversamente dai documenti anche approvati internazionalmente che lo avevano preceduto, si riducesse a un mero catalogo di buone intenzioni. (in corsivo nell’originale) Il riconoscimento di tale debolezza spicca vistoso nell’ultima parte del rapporto, laddove si ammette esplicitamente che “Noi non pretendiamo di aver censito tutte le formidabili sfide con le quali i paesi del Sud dovranno probabilmente confrontarsi in un prossimo futuro. In particolare, non abbiamo affrontato le questioni di politica

internazionale”, citazione che nel testo di Rist è accompagnata da un sintomatico quanto comprensibile

punto esclamativo. (idem, corsivo mio)

L’interesse nell’esaminare brevemente la parte relativa alla cooperazione Sud-Sud sta invece nel fatto che alcune delle proposte, in linea con i precedenti documenti del Movimento dei non allineati, cominciano oggi – in un contesto internazionale in cui la correlazione di forze è decisamente più favorevole ai paesi del Sud - a recuperare attualità e, forse, concrete possibilità di attuazione.

Innanzitutto è significativo sottolineare che Nyerere, nella prefazione del documento - intitolato Sfide per il

Sud (The Challenge to the South nell’originale) - alla fine degli anni ’80 si esprimesse ancora in questi

termini:

[…] il Sud non conosce il Sud, ciò che succede in questi paesi; le idee che hanno i suoi popoli, qual è il loro potenziale e il modo in cui la cooperazione Sud-Sud potrebbe ampliare le azioni di sviluppo per tutti i paesi. (Comisión del Sur, 1991)

E che subito dopo, riaffermando il vecchio concetto di self-reliance, nel commentarne i risultati scrivesse:

L’elemento presente in tutte le raccomandazioni è il riconoscimento e la chiara affermazione che la responsabilità dello sviluppo del Sud ricade su di esso e sta nelle mani dei suoi popoli. (idem)

Nelle prime pagine del rapporto poi, in cui si cerca (ancora una volta!) di definire il concetto di «sviluppo», gli autori affermavano che:

L’aiuto esterno può fomentare lo sviluppo, però perché questo possa produrre effetti positivi deve essere integrato allo sforzo nazionale ed essere utilizzato per le finalità di coloro i quali pretende beneficiare. […] lo sviluppo deve essere uno sforzo del popolo, dal popolo e per il popolo. (idem, corsivo mio)

Un ammonimento, forse, nei confronti dei governanti del Sud che ripetutamente hanno approfittato degli aiuti internazionali, ma anche un argomento che in linea di principio, omettendo il discorso su condizionalità e selettività, avrebbe potuto essere perfettamente in sintonia con l’agenda dei donatori del Nord riguardo alla loro preoccupazione sull’“appropriazione” delle politiche e l’enfasi sulla partecipazione della società civile.

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Di alcune similitudini con l’analisi di Fidel Castro già si è detto. Si può aggiungere però la rinnovata enfasi sui processi di integrazione regionale – “Il Sud deve tenere in considerazione il fatto che gli stessi paesi sviluppati stanno moltiplicando gli sforzi per raggiungere una maggiore integrazione economica. […] La cooperazione sub regionale, regionale e interregionale diventa imprescindibile per una crescita sostenuta” – e sul ruolo delle transnazionali – “Il fatto che le corporazioni internazionali esercitino un’influenza dominante nella creazione di nuove tecnologie e nei flussi del commercio internazionale rendono ancora più necessaria questa cooperazione” - . (idem) Qui è da sottolineare anche la consapevolezza rispetto a una questione di cui allora si iniziava appena a discutere ma che in poco tempo sarebbe diventata un tema centrale e sensibile di tutti i negoziati internazionali: “Il dominio sull’economia mondiale di queste imprese sarebbe incrementato se norme come quelle del GATT fossero estese ai servizi, agli investimenti e al diritto di proprietà intellettuale”. Inoltre, viene ribadito che la cooperazione Sud-Sud avrebbe sortito effetti positivi solo se fosse riuscita “a beneficiare in modo equo tutti i partecipanti”, implicando, concretamente, il trattamento speciale e differenziato nei confronti dei paesi più poveri, quelli senza accesso al mare e i piccoli Stati insulari.

In definitiva, le misure indicate per promuoverla ricalcano vecchie aspirazioni e si riassumono in quattro punti: l’autoaffermazione collettiva, la solidarietà, l’integrazione regionale e la costituzione di un’organizzazione o una rete di organizzazioni in appoggio a questi obiettivi.

Il ventaglio di proposte abbraccia numerose tematiche. Quelle rilevanti ai fini di questo lavoro riguardano in particolare la formazione congiunta, il commercio e le istituzioni finanziarie.

Si parla di “liberare il potenziale di risorse umane” mediante scambi scolastici, borse di studio, l’istituzione di programmi nazionali e regionali di formazione e assistenza intercambiando educatori, personale tecnico e medico “per lavorare sul campo, condividere esperienze e facilitare la consulenza tecnica in tutto il Sud, in particolare nei paesi meno avanzati”. Nel campo sanitario si specifica che:

Il Sud può trarre vantaggio dall’esperienza già in suo possesso per l’adozione di misure tese a diminuire la mortalità infantile […] diffondere la pianificazione familiare, estendere la medicina di base e formulare politiche congiunte su importazione, produzione e distribuzione di farmaci […]. In questa sfera i vincoli con il Nord sono ancora più solidi di quelli stabiliti fra i paesi in via di sviluppo […]. Tale squilibrio deve essere corretto. […] Un modo di farlo sarebbe mettere in pratica accordi di cooperazione sulla formazione post-universitaria in medicina e salute pubblica. (idem)

Vengono suggeriti, cioè, tre elementi suscettibili di rafforzare e riequilibrare la relazione con il Nord: il tema della produzione, distribuzione e accesso ai farmaci; quello del potenziamento della formazione per scoraggiare la “fuga di cervelli” e realizzare in proprio attività e progetti che in linea di principio non richiederebbero la collaborazione tecnica di istituzioni e Ong occidentali ma, forse, solo finanziaria; quello infine di stimolare i “nuovi vincoli” di cui parlava Fidel Castro in settori prioritari a diretto contatto con le necessità più urgenti delle popolazioni.

Il secondo aspetto è relativo al commercio. In assoluta controtendenza ai dogmi del neoliberismo in ascesa, pur non sottostimando il ruolo dell’impresa privata, anzi, si propone però in primo luogo il rafforzamento degli organi statali di commercio in modo da “prescindere dai servizi degli intermediari dei paesi sviluppati,

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fomentare il commercio di compensazione e diversificare le attività per aumentare la gamma di prodotti tradizionalmente non commercializzati dal Sud”. In particolare, la compensazione è segnalata come strumento utile per superare i problemi di pagamento, dei crediti all’esportazione e della disponibilità di valuta forte.

Fino ad ora [il commercio internazionale fra paesi del Sud] è stato realizzato grazie ad intermediari del Nord […] che evidentemente non hanno interesse ad aiutare i soci commerciali indiretti del Sud a stabilire contatti diretti né a sviluppare relazioni commerciali durature. (idem)

L’indicazione è che questi si dedichino autonomamente a sviluppare meccanismi di compensazione, includendo il pagamento in merce e, in rapporto all’agricoltura, favorendo misure congiunte per rinforzare la sovranità alimentare.

Nel documento, però, si discute anche dell’ambizioso Sistema Mondiale di Preferenze Sud-Sud che, approvato nel 1988 dopo una discussione iniziata nel ’76, è stato negoziato concretamente solo a partire dal 1985, in concomitanza con la preparazione dell’Uruguay Round. Il Global System of Trade Preferences

among Developing Countries (GSTP), pur essendo a tutti gli effetti un trattato internazionale sottoscritto dai

membri del G77 entrato in vigore nel 1989, praticamente finora non è mai stato applicato nonostante le sollecitazioni in questo senso anche da parte della Commissione Sud. In un articolo del 2004, Shrirang P. Shukla, al tempo uno dei negoziatori del Trattato, ne sintetizzava in questo modo la parabola:

Quando le negoziazioni dell’Uruguay Round minacciavano di cambiare il paradigma del sistema multilaterale del commercio in senso regressivo, i paesi in via di sviluppo avevano adottato un’iniziativa politica di grande importanza per contrastare questa minaccia. India, Brasile, Yugoslavia ed Egitto erano al fronte di questa iniziativa. […] Nella riunione di Belgrado dell’aprile del 1988 venne siglato un trattato legale internazionale che, per la prima volta nella storia, offriva uno schema multilaterale ampio per il rafforzamento del commercio mutuo e la cooperazione economica fra i paesi in via di sviluppo. Fu una risposta strategica opportuna da parte loro, mostrando una resistenza collettiva contro l’attacco dell’Uruguay Round. Purtroppo, nel breve spazio dei due anni successivi, la volontà politica dei principali paesi in via di sviluppo si incrinò di fronte alle pressioni esercitate dai paesi industrializzati più forti, in particolare gli Stati Uniti, e le istituzioni finanziarie internazionali, cioè il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Il concetto di un contesto preferenziale per il commercio mutuo e la cooperazione tra paesi in via di sviluppo fu dimenticato. E il trattato GSTP rimase da allora praticamente archiviato.

Sul tema finanziario, infine, la Commissione Sud partiva non senza ragioni da una diagnosi precisa: “Le finanze si sono dimostrate il punto più debole di tutta l’attività Sud-Sud”. D’altra parte, erano note le ragioni per cui l’attività creditizia internazionale fosse concentrata in poche istituzioni controllate in modo ferreo dai maggiori paesi industrializzati, e sottomessa a criteri di condizionalità che dalla data del rapporto in avanti sarebbero solo diventati più stringenti. Così, in modo quasi sconsolato veniva sostenuto che “benché le tre principali istituzioni internazionali di finanziamento e assistenza allo sviluppo – BM, FMI, UNDP – potrebbero contribuire grandemente alla cooperazione Sud-Sud, questa non è stata una delle preoccupazioni

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principali”, e che “E’ improbabile che cambino attitudine a meno che i paesi in via di sviluppo mostrino più interesse e determinazione al riguardo”.

Ma la determinazione, in quel momento, si sarebbe consumata nella rinegoziazione del debito, paese per paese, senza un cartello o associazioni simili, perché anche se la Commissione Sud in diverse parti del rapporto accenna all’opportunità di un foro dei debitori, l’unica raccomandazione concreta (e forse realistica per quella data) presente nel testo, è di creare un’associazione finanziata dall’UNDP per fornire un servizio di specialisti provenienti dal G24 in questioni monetarie e finanziarie ai paesi che negoziano con l’FMI e la Banca Mondiale, perché “non tutti […] sono preparati tecnicamente per negoziare efficacemente e in condizioni di parità le complesse questioni implicate e ottenere i migliori accordi possibili con entrambe le istituzioni”. La possibilità di creare nuove istituzioni e, in particolare, una Banca del Sud, pur presente e auspicata nel testo, è rimandata “nel lungo periodo”.

Delle azioni prioritarie raccomandate – cioè i punti già segnalati più alcuni altri – sarebbe rimasta in piedi l’unica che non ho menzionato: la creazione di una segreteria del Sud per coordinare e appoggiare le iniziative dei paesi membri, considerando insufficiente il ruolo svolto sul piano internazionale dal Movimento dei non allineati e dal G77. Il solo risultato concreto raggiunto in quel momento, cioè, si sarebbe esaurito nell’istituzione del South Centre, ancora oggi un prestigioso think tank intergovernativo dei paesi in via di sviluppo con sede nella città elvetica che aveva ospitato la segreteria della Commissione.

2.5.3. Alcune tendenze della cooperazione Sud-Sud oggi (la Cina si avvicina…)

«Abbiamo ancora molta strada da fare prima che l’obiettivo della modernizzazione sia raggiunto. Tuttavia, noi offriamo con convinzione e amicizia la nostra assistenza con la più profonda sincerità e senza alcuna condizione politica»

(Wen Jiabao, discorso durante il II Forum di cooperazione Cina-Africa ad Addis Abeba, 2003)

Gladys Lechini (2007) sostiene che il modello di cooperazione Sud-Sud come era stato pensato negli anni ’70 sull’onda del successo ottenuto dalla OPEC e che ancora trovava degli echi nella Commissione Sud è fallito per la sua natura troppo generale e ampia sfera di azione. Per questa autrice le basi di partenza nascondevano a monte una premessa errata: quella secondo cui i paesi sottosviluppati avessero più cose in comune di quelle che in realtà possedevano, e che tutte le soluzioni quindi si sarebbero potute applicare uniformemente per raggiungere gli stessi obiettivi.

Tale ragionamento è convincente nella misura in cui si non si perdano di vista le cose dette da Fidel Castro nel Rapporto del 1983 e, soprattutto, la più ampia riflessione di Amin (1994; 2005) sulle debolezze,