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Le condizionalità di «seconda generazione»

1.4. La cooperazione dopo il Washington Consensus: «vizi privati e pubbliche virtù»

1.4.3. Le condizionalità di «seconda generazione»

«Dobbiamo legare più aiuti alle riforme politiche, legali ed economiche […]. Gli Stati Uniti daranno l’esempio. Ho proposto un aumento del 50% nella nostra assistenza allo sviluppo per i prossimi tre anni. Ciò significherà un aumento di 5 miliardi di dollari annuali rispetto ai livelli attuali. Questi nuovi fondi andranno in un nuovo conto […] dedicato a progetti in nazioni che governano in modo giusto, che investono sulle proprie persone, e incoraggiano la libertà economica»

(Intervento di George W. Bush durante la Conferenza di Monterrey, 2002)

«La mano di chi dona sta sempre sopra quella di chi riceve»

(proverbio popolare)

«Le dottrine sullo sviluppo e i regimi di aiuto vanno e vengono, mentre la capacità dei paesi in via di sviluppo al momento di definire e influenzare le politiche di aiuti sono state molto limitate. Di fronte a una configurazione istituzionale che chiaramente favorisce i paesi donatori come autori chiave dell’agenda, i paesi in via di sviluppo continuano a trovarsi in una posizione debole per rinegoziare l’architettura degli aiuti»

(Stefan Meyer e Nils-Sjard Schulz, 2008)

La rivalutazione dello Stato come agente chiave delle politiche di sviluppo è andata affermandosi sotto una

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Forse è un errore pensare unicamente a un modo sottile utilizzato dalle istituzioni finanziarie e dai paesi del DAC per continuare ad esercitare una ingerenza sostanziale sui paesi in via di sviluppo. Nei fatti, però - ricorda Miguel González (2007) - “bisogna essere coscienti che la nozione di governance è entrata nel dibattito sullo sviluppo attraverso le istituzioni finanziarie internazionali, e in suo nome si sono articolate politiche di aggiustamento economico, di privatizzazione e di ritirata dello Stato”. Per questo – prosegue – “rimane il sospetto che sia strettamente vincolata al neoliberismo”, anche se a introdurla nell’arsenale discorsivo del Gotha dello sviluppo sia stato con ogni probabilità il liberal Stiglitz.

In effetti, “la prima generazione di condizionalità macroeconomiche per gli aiuti allo sviluppo negli anni ’80, fu completata nel decennio dei ’90 con condizionalità di seconda generazione sul buon governo, che più tardi avrebbero cercato di riqualificare lo Stato come attore dello sviluppo”. (Banca Mondiale, 1997, cit. in Meyer; Schultz, 2008) Il ragionamento delle istituzioni finanziarie era chiaro, anche se perverso: i programmi di aggiustamento strutturale e le terapie shock non avevano funzionato semplicemente perché nei paesi applicati erano assenti “sistemi istituzionali con buone politiche”. Nel rapporto del 1998 Assessing Aid

– What Works, What Doesn’t, and Why, questo discorso veniva spostato al tema degli aiuti: essi sarebbero

stati efficaci nella lotta alla povertà solo in presenza di amministrazioni pubbliche efficienti e di politiche macroeconomiche sensate. Le condizionalità, cioè, non avrebbero dovuto comprendere solo “riforme di carattere finanziario, commerciale o fiscale, ma includere elementi come la ‘lotta contro la corruzione’, ‘la trasparenza’, ‘la corretta rendicontazione’, o ‘la garanzia dei diritti di proprietà’”. (González, 2007) Da qui sarebbero nati i criteri di selettività, definiti dai critici come “condizionalità mascherate”. (Hermes; Lensink, 2001, cit. in Meyer; Schultz, 2008)

In ogni caso, tra le varie mode di cui il concetto di «sviluppo» è stato vittima, quello di governance è sicuramente il più ambiguo e ampio da abbracciare in un colpo solo ogni aspetto della vita sociale. Quindi, anche, di riscuotere un grande successo.

Su di esso si è creato un vasto consenso al punto che anche Kofi Annan, quando era segretario delle Nazioni Unite, avrebbe dichiarato che “il buon governo è probabilmente il fattore più importante per sradicare la povertà e promuovere lo sviluppo”. (UNDP, 2002, cit. in González, 2007) Un’affermazione che appare quasi banale se si considera la quota di ovvietà che contiene. Se non fosse che nei vent’anni precedenti quasi tutti avrebbero invece sottoscritto – anche quando non erano pienamente convinti - l’affermazione opposta: lo Stato (o il governo) è probabilmente il fattore di impedimento più importante per sradicare la povertà e promuovere lo sviluppo. Affermazione che contiene un’altra ovvietà: lo Stato e i governi non sono necessariamente dei “buoni governanti”, anzi.

La posizione di Jeffrey Sachs, a buon diritto una stella luminosa nel Gotha dello sviluppo, è in questo senso un esempio perfetto dello slittamento dall’aggiustamento strutturale alla governance. Dopo avere sperimentato le sue doti di economista prodigio in terapie di liberalizzazione in Bolivia, Polonia, Russia, ed essersi probabilmente reso conto di avere frenato con successo l’inflazione ma di avere anche ridotto (letteralmente) alla fame milioni di persone, si è lanciato insieme alle Nazioni Unite nella crociata contro la

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povertà. Ma a una condizione: incrementare la quantità di aiuti è utile e necessario, a patto che a recepirli ci siano dei “buoni governi”.

L’arsenale teorico della governance è composto da parole come partnership, empowerment, capacity e

institution building, nonché democrazia, società civile e diritti umani. C’entra tutto o quasi se, come sembra,

rileggendo i rapporti della Banca Mondiale fra il 1997 e il 2003, Grindle (2002) ha individuato un passaggio da 45 a 116 tematiche facenti parte dell’agenda. (cit. in González, 2007) La ricerca “inafferrabile” dello «sviluppo», cioè, ha fatto scoprire al suo Gotha un mondo nuovo di territori da esplorare e politiche da sperimentare. Ignorando, consapevolmente o meno, un fatto elementare: la lettura di qualsiasi analisi storica minimamente onesta rivela senza difficoltà come nessuna di queste preoccupazioni fosse avvertita dai “buoni governanti” dei paesi sviluppati mentre si “sviluppavano”.

Così che non interessa stabilire in astratto che cosa sia il “buon governo” né chi siano i “buoni governanti”. D’altronde, l’attuale crisi sembra al momento avere avuto anche l’effetto (positivo) di ridimensionare notevolmente il dibattito teorico sulla governance. Occorre piuttosto capire come questo concetto, questo nuovo feticcio infilato nella parola-valigia «sviluppo» - direbbe Rist - sta funzionando in relazione agli aiuti e più in generale alle politiche che riguardano le relazioni Nord-Sud. Occorre esplorare, cioè, il nesso tra criteri di selettività e condizionalità per vedere se fra essi esiste rottura o semplicemente mal celata continuità.

In termini generali, la condizionalità può essere considerata come “un mutuo accordo attraverso il quale un governo adotta o promette di adottare determinate politiche, in appoggio alle quali i donatori apporteranno determinate risorse economiche”. (Santiso, 2003, cit. in González, 2007) Si tratta quindi di una misura che si applica ex ante e dal carattere punitivo. “Le condizioni – cioè – sono stabilite prima di accedere al finanziamento, e il non compimento comporta la non assegnazione dell’aiuto”. (idem) Tuttavia - viene rilevato - non è facile stabilire quali siano le condizionalità relative al “buon governo”, almeno per due ragioni.

La prima, è la natura ambigua di ciò che si considera come “buon governo”, un concetto abbastanza impreciso e dal significato elastico. Di fatto, raramente le IFI utilizzano il termine “governance” nelle negoziazioni e negli accordi, così che considerare una condizione come relativa a tale dimensione rimane soggetto a interpretazione. La seconda difficoltà consiste nella identificazione di ciò che costituisce una condizione, poiché gli accordi tra le IFI e i governi abbondano di espressioni come il governo “adotterà”, “valuterà”, assicurerà”, “definirà”, “migliorerà”, “attualizzerà”, e così un lungo ecc. Inoltre, solitamente sono aggiunti una serie di “criteri di adempimento”, “azioni previe”, “obiettivi quantitativi” o “punti di riferimento strutturali”. (idem)

Kapur e Web (2000), in questo senso, parlano di condizionalità rigide se rette da criteri quantitativi, e flessibili per tutte le altre. In entrambi i casi, però, basandosi su dati dell’FMI, hanno notato un incremento esponenziale: 6 per programma negli anni ’70, 10 negli anni ’80, 26 negli anni ’90, su una base di 25 paesi per programmi iniziati tra il ’97 e il ’99.

I criteri di selettività, invece, premiando i “buoni governanti”, costituirebbero un ulteriore incentivo per esercitare pressione su quei paesi e governi recalcitranti a imboccare la strada che conduce a “solide

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istituzioni democratiche” e “politiche economiche sensate” che, quasi sempre, sottendono anche “quadri normativi favorevoli agli investimenti e al commercio internazionale”. Si tratta, in questo caso, di misure ex

post che cercano di stabilire un vincolo positivo tra la concessione degli aiuti e la “performance” del paese.

(Santiso, 2003, cit. in González, 2007)

L’esempio ad oggi più noto messo in atto è il meccanismo annunciato dall’ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush durante la conferenza di Monterrey mediante la costituzione del Millennium Challenge

Account. I criteri di selezione per accedere a questo fondo, oltre in funzione al PIL, sono 16: 6 relativi al

“governo giusto”, 4 all’“investimento sulle persone”, e 6 relativi alle “libertà economiche”. (idem)

La Banca Mondiale e altri donatori bilaterali adottano criteri simili che tuttavia non sono escludenti: l’ammontare degli aiuti, cioè, varia in funzione del risultato ottenuto rispetto a una serie di indicatori contenuti nel Country Policy and Institutional Assessment utilizzato dalla Banca e da altre agenzie nazionali, in cui quelli relativi al “buon governo” hanno un peso rilevante.

Anche l’IDA che, come si è detto, viene istituita insieme alle banche regionali di sviluppo nei primi anni 60’ per neutralizzare la richiesta dei paesi del Terzo mondo di creare un’agenzia di prestito maggiormente vincolata alle Nazioni Unite, adotta criteri di selettività per finanziare esclusivamente con fondi erogati in apposite sessioni triennali dai paesi più ricchi, quelli con un reddito pro capite inferiore a 900 dollari.

Una delle ragioni per introdurre i criteri di selettività nelle procedure delle istituzioni multilaterali, è anche quella di evitare l’interferenza dei paesi donatori e assegnare in modo equo i fondi disponibili. Tuttavia, come mostra chiaramente Easterly (2007), i donatori riescono comunque ad esercitare pressioni sulla destinazione degli aiuti, mentre spesso gli altri criteri vengono applicati arbitrariamente.

Qualche anno fa, sotto la presidenza Wolfowitz, la Banca Mondiale sospese dei finanziamenti all’India e al Bangladesh per corruzione, mentre gli impegni sottoscritti con il Pakistan, al tempo alleato strategico degli USA, non sono venuti meno nonostante casi accertati di appropriazione privata e malversazione dei fondi. Allo stesso modo, sono stati revocati all’Uzbekistan prestiti già approvati, dopo il rifiuto del governo di questo paese all’insediamento di una base militare americana. (idem) Gli esempi, ovviamente, potrebbero moltiplicarsi. E ultimamente, poi, alcuni paesi fra cui Spagna e Italia hanno iniziato ad utilizzare un criterio di selettività particolarmente odioso: la preferenza nella concessione di aiuti a quei governi che collaborano al rimpatrio degli immigrati “illegali”.

In questo senso, considerata l’arbitrarietà e la difficoltà di stabilire parametri misurabili relativi al “buon governo”, i criteri di selettività non sembrano altro che condizionalità sotto mentite spoglie. Gli stessi autori della Banca Mondiale che hanno disegnato gli indicatori utilizzati dall’Istituto e dal Millennium Challenge

Account, sono estremamente cauti nel consigliarne l’utilizzo per l’assegnazione effettiva degli aiuti, in

quanto sostengono espressamente che presentano “margini di errore sostanziale”. (Kaufmann; Kraay, 2002, cit. in González, 2007)

Smith (2006) allora parla piuttosto delle condizionalità “come una specie di ‘clausola di salvaguardia’, destinata a garantire l’autodifesa o protezione del donatore facilitando le condizioni che considera ideali o almeno accettabili per operare vantaggiosamente nei paesi recettori”.

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Alla luce di quanto detto – e senza entrare nella questione sulla efficacia “tecnica” di questi incentivi, la cui risposta, comunque, data dalla maggior parte degli studi, pare essere dubbia – è opportuno rilevare che: 1) condizionalità e selettività, in qualunque modo si intendano, stridono fortemente con i principi annunciati dalla Dichiarazione di Parigi che parlano di “appropriazione delle politiche” e di “paesi soci”; 2) l’elaborazione dei temi e gli indicatori chiave sono definiti dai paesi donatori e dalla Banca Mondiale sulla base di interessi propri o, nella migliore delle ipotesi, di quelli che presumono essere gli interessi dei paesi in via di sviluppo; 3) quindi, implicano una interferenza reale e sostanziale sull’autonomia delle scelte politiche dei potenziali governi “soci”, sovrapponendosi - allo stesso modo in cui il “pacchetto” dell’aggiustamento strutturale era venduto completo, senza considerazione per le necessità del “cliente” – alle specifiche dinamiche interne.

L’asimmetria su cui storicamente si fonda la relazione di “cooperazione” ne è senz’altro la ragione più plausibile, rappresentando la governance l’ultima metamorfosi per contraffare un rapporto concreto di subordinazione. L’ingegneria sociale occidentale, nella forma pseudo istituzionale del “buon governo”, è la scappatoia temporanea a problematiche che, guardate tanto dal punto di vista dei paesi del Nord e del Sud quanto del sistema internazionale nel suo complesso, sono di natura essenzialmente politica e non di “tecnica” politica. Nel tentativo, questo sì, di dare un minimo di governabilità a un sistema le cui contraddizioni rendono obiettivamente sempre più ingovernabile.