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6. Il metodo

3.3. Cartoline neoliberali dal Messico

La piattaforma di sperimentazione dell’ALCA è stata il Trattato di libero commercio trilaterale fra Stati Uniti, Canada e Messico, noto come TLCAN o NAFTA a seconda della sigla utilizzata in spagnolo o in inglese. Firmato nel 1992, è entrato in vigore il primo gennaio del ’94, proprio quando iniziavano i negoziati per la più vasta Area di Libero Commercio delle Americhe. La contestuale sollevazione indigena neozapatista nello Stato messicano del Chiapas conferisce a questa data molto più di un già notevole valore simbolico.

Le procedure utilizzate per le trattative, la struttura formale del testo, la formazione dei gruppi di lavoro per materia e i meccanismi stabiliti per la risoluzione delle controversie del TLCAN sono servite al governo

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statunitense come modello per proiettare al resto della regione latinoamericana e caraibica le linee direttrici della propria politica estera emisferica. (Guerrero, 2008)

Il Messico è stato il primo paese in via di sviluppo al mondo ad avere scommesso e sperimentato concretamente la via dell’integrazione in condizioni di sostanziale reciprocità con due delle maggiori economie del pianeta. Il TLCAN, cioè, è stato concepito come una modalità di integrazione Nord-Sud. Inoltre, è un esempio di “integrazione profonda”, in quanto non si limita a regolare aspetti relativi all’eliminazione delle barriere doganali, ma include nella sua agenda le cosiddette “materie connesse al commercio”. (Briceño, 2007)

Si tratta, in sintesi, di un accordo che include in ogni suo aspetto l’essenza del neoliberismo: eliminazione delle frontiere per il libero flusso di capitali e il commercio di beni e servizi, regolazione della concorrenza per rafforzare la posizione del settore privato rispetto al pubblico, una accentuata tutela dei diritti di proprietà intellettuale, aumento delle opportunità di investimento estero diretto rigidamente protette, restrizione della mobilità delle persone (eccetto per gli agenti economici di peso e i professionisti altamente qualificati).

Un rapido esame dal punto di vista messicano mostra chiaramente come questo modello rafforza tre dei cinque monopoli che nella lettura di Amin presentata nel secondo capitolo caratterizzano strutturalmente e negativamente le relazioni Nord-Sud. Della tecnologia (con la rigida protezione della proprietà intellettuale), dei flussi finanziari (favorendo i movimenti di capitale con la decisiva intermediazione dei grandi gruppi bancari internazionali privati, senza o con minima possibilità di regolazione e controllo da parte delle autorità pubbliche), delle risorse naturali (aprendo alle transnazionali non solo la concessione ma anche la proprietà diretta per il loro sfruttamento). Al contempo, incoraggiando un modello di sviluppo orientato all’esterno, cioè strutturato e diretto dalle attività d’esportazione, con scarsa o nulla capacità di incidere positivamente sulle problematiche interne dello Stato messicano. A distanza di quindici anni dalla sua entrata in vigore i dati a disposizione lo dimostrano ampiamente.

I vantaggi comparati del Messico nei confronti degli Stati Uniti e del Canada - che nella teoria economica convenzionale rappresentano la pietra angolare del commercio internazionale - si riducono infatti all’eccesso di manodopera e ai bassi salari, all’abbondanza di risorse naturali molte delle quali scarse e strategiche sul piano mondiale, a leggi permissive sull’ambiente e lo sfruttamento del lavoro, ai benefici fiscali per le grandi imprese straniere, incluso discriminatori secondo alcuni perché in diversi settori vanno oltre “il trattamento nazionale all’investitore estero”. (Rodríguez, 2007a)

In Messico si osservano nitidamente tutti gli effetti perversi associati al neoliberismo: crescita lenta (di gran lunga inferiore ai livelli precedenti gli anni ’80), aumento della disuguaglianza sociale sia in termini di reddito procapite che di squilibri regionali, livelli di povertà stazionari o regressivi, ampi movimenti migratori “illegali”, esplosione delle attività informali (più di un terzo della popolazione è impiegata in questo settore) e, nello specifico, un peggioramento sostanziale della condizione dei piccoli e medi agricoltori a vantaggio dell’agro-business nazionale ma soprattutto straniero che ha accentuato significativamente la dipendenza alimentare del Paese. Tra il 1985 e il 1999 l’erosione del suolo è aumentata

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dell’’89%, mentre la contaminazione dell’aria del 97%, facendo tra l’altro di Città del Messico una delle capitali più inquinate del pianeta. (Katz, 2008)

Allo stesso tempo, però, vengono segnalati come risultati positivi un maggiore controllo delle variabili macroeconomiche (inflazione in testa), la duplicazione delle esportazioni e la triplicazione degli investimenti esteri. Questi due ultimi fattori, tuttavia, sono in ogni caso svincolati da una strategia nazionale di sviluppo e dalle catene produttive nazionali. Si tratta tra l’altro di un settore esportatore dominato da un numero limitato di imprese che monopolizzano l’offerta non petrolifera.

Quello messicano è un caso da manuale dell’atomizzazione della divisione internazionale del lavoro tipica della globalizzazione. Il modello incentrato sulle esportazioni si basa sullo scambio intra-aziendale praticato dalle corporazioni transnazionali e sull’acquisto di beni finali dall’estero. Sostituisce l’articolazione industriale interna con una produzione segmentata e d’assemblaggio controllata nella maggior parte dei casi da imprese statunitensi su entrambi i lati della frontiera. (idem)

L’unità specifica di questo schema è rappresentata dall’industria delle “maquilas”, che ostacolano lo sviluppo del mercato interno e disarticolano le catene produttive preesistenti. Hanno certamente creato posti di lavoro, è innegabile, anche se in misura inferiore all’incremento del 45% della produttività. I resoconti sul funzionamento di questa industria parlano inoltre dello sfruttamento di una manodopera giovane, mal remunerata, poco qualificata e sottomessa a condizioni di lavoro inumane (Garza Toledo, 2003, cit. in Katz, 2008), di cui non è in grado di assicurare la stabilità, poiché la maquila è un’industria vincolata ad altri comparti e agli alti e bassi dei mercati esteri e, come dimostra l’attuale crisi, particolarmente statunitensi. Non è irrilevante sottolineare che circa l’88% delle esportazioni messicane sono dirette verso gli Stati Uniti, mentre solo il 5% si muove a Sud del Rio Bravo. (Martínez, 2008a) Infine, sembra che complessivamente i posti di lavoro creati nelle maquiladoras non riescano a compensare quelli persi a causa della distruzione della piccola agricoltura e della frantumazione delle vecchie industrie locali in conseguenza dell’apertura dei mercati e della massiccia importazione di prodotti dall’estero.

L’esodo di un ampio segmento della popolazione messicana verso la frontiera delle maquilas o gli Stati Uniti in cerca di migliori condizioni di vita e opportunità di lavoro ne è la testimonianza diretta. Mentre un ulteriore effetto perverso di questo fenomeno è dato dall’enorme incidenza sul PIL messicano delle rimesse dei migranti che, allo stesso modo in cui avviene con gli altri paesi dell’America centrale, favorisce peculiari meccanismi di negoziazione politica (o ricatto).

In sintesi, in questo schema di integrazione sono visibilmente presenti i due fattori sintomatici del

sottosviluppo e della dipendenza segnalati da Alburquerque (1994): la disarticolazione sociale e

dell’economia interna come risultato di relazioni segmentate e intersettoriali orientate all’esterno.

Le cartoline che oggi arrivano dal Messico continuano a parlarci di tesori, culture millenarie e romantici eroi rivoluzionari, ma mostrano un paese sull’orlo del collasso, militarizzato, divorato dal narcotraffico e dalla corruzione, in cui i conflitti da “sviluppo” – con le comunità indigene, i movimenti contadini e dei lavoratori, i migranti e anche i settori del capitale non globalizzato – segnano l’agenda politica e le lotte

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sociali. Mentre “le briciole di assistenzialismo - sottolinea Katz (2008) - che offre la prima potenza per attenuare la povertà regionale (borse di studio, aiuti), suscitano solo ilarità e irritazione”.

Anche se attualmente si avverte da entrambe le parti la necessità di riformare il Trattato, attraverso l’ALCA si è cercato (e in parte riuscito) di vendere questo modello al resto dei paesi dell’America Latina.