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Aggiustamento, sganciamento e sviluppo auto-centrato

2.4. Un punto di partenza per la ricerca di alternative

2.4.1. Aggiustamento, sganciamento e sviluppo auto-centrato

Samir Amin (1988) inizia a teorizzare la necessità per il Terzo mondo dello sganciamento dal mercato mondiale come “il logico risultato politico del carattere diseguale dello sviluppo del capitalismo”. L’elaborazione iniziale avviene in un momento di grave recessione per la maggior parte dei paesi in via di sviluppo, causata dagli effetti concomitanti della crisi del debito e della depressione del prezzo delle materie prime sui mercati internazionali. Più in generale, è la fase di crisi terminale dell’ideologia sviluppista e dei regimi che l’avevano praticata.

In realtà, nota Alburquerque (1994), anche se l’accezione grammaticale del termine suggerisce la rottura con le relazioni capitalistiche internazionali, di fatto la proposta di Amin è lontana da qualsiasi ipotesi autarchica. Per questo lo studioso spagnolo parla di “separazione selettiva temporale dall’inserzione dipendente nell’economia internazionale, cercando di proteggere in modo prioritario il processo di articolazione e diversificazione produttiva all’interno dei paesi sottosviluppati”. (corsivo nell’originale)

Come ha più volte spiegato lo stesso Amin, la sua idea non è l’uscita dal sistema mondiale, ma la ridefinizione dei criteri della razionalità economica sulla base delle pressioni e delle relazioni sociali interne in ogni paese. Sganciarsi significa sottomettere i vincoli con l’esterno alle priorità dello sviluppo interno. In questo senso, è l’esatta antitesi dell’aggiustamento, perché inverte la preferenza che la strategia neoliberale attribuisce all’apertura e orientamento verso i mercati internazionali. Ed è legato indissolubilmente alle esigenze di uno sviluppo auto-centrato.

Svilupparsi significa, innanzitutto, definire alcuni obiettivi nazionali per modernizzare i sistemi produttivi e creare le condizioni che li pongano al servizio del progresso sociale; poi, significa subordinare le modalità delle relazioni della nazione con i centri capitalistici sviluppati alle esigenze di questa logica. Questa definizione di «sganciamento» - la mia definizione, che non è l’«autarchia» - situa il concetto nel polo opposto al principio liberale di «aggiustamento strutturale» alle esigenze della globalizzazione, che comporta la sottomissione ai diktat esclusivi del capitale transnazionale dominante e acuisce le disuguaglianze su scala mondiale. (Amin, 2005)

Secondo questa visione, l’integrazione al sistema capitalista mondiale non è la soluzione alla polarizzazione e alla disuguaglianza, ma esattamente la sua genesi.

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La ragione è intimamente legata alla produzione teorica sviluppata nelle opere precedenti, il cui obiettivo principale era stato dalla fine degli anni ’60 spiegare proprio “perché la storia dell’espansione capitalista si identifica con una polarizzazione su scala mondiale tra formazioni sociali centrali e periferiche”. (Herrera, R. 2006) La risposta è che “la polarizzazione è immanente al capitalismo e si interpreta come il prodotto moderno della legge della accumulazione su scala mondiale – legge la cui spiegazione non può ridursi estendendo al mondo la teoria dell’accumulazione nel modo di produzione capitalista”. (idem) Nelle parole di Amin (2001c):

Nel capitalismo l’economico si emancipa dalla subordinazione al politico e si trasforma nell’istanza direttamente dominante che comanda la riproduzione e l’evoluzione della società. In questo modo, la logica della mondializzazione capitalista è, innanzitutto, il dispiegamento di questa dimensione economica su scala mondiale e la sussunzione delle istanze politiche e ideologiche alle sue esigenze. Pertanto, la legge del valore mondializzata che comanda questo processo non può essere ridotta alla legge del valore che opera a livello mondiale così come opera su un piano astratto del concetto di modo di produzione capitalista. La legge del valore, analizzata a questo livello, suppone l’integrazione dei mercati su scala mondiale solamente nelle prime due delle dimensioni che le sono proprie: i mercati di prodotti e di capitali tendono ad essere mondializzati, mentre i mercati del lavoro permangono segmentati. In questo contrasto si esprime l’articolazione, caratteristica del mondo moderno, tra una economia sempre più mondializzata da un lato, e dall’altro la permanenza di società politiche (Stati indipendenti o no) differenziate. Questo contrasto genera da solo la polarizzazione mondiale: la segmentazione dei mercati del lavoro produce necessariamente l’aggravamento delle disuguaglianze nell’economia mondiale. La mondializzazione capitalista è per sua natura polarizzante.

Storicamente – continua – “La polarizzazione che caratterizza la mondializzazione capitalista ha assunto forme associate alle caratteristiche principali delle fasi dell’espansione capitalista, che si esprimono in forme appropriate della legge del valore mondializzata”.

Queste sono prodotte, da un lato, dall’articolazione delle leggi del mercato tronco (come conseguenza della segmentazione del mercato del lavoro) e, dall’altro, dalle politiche di Stati dominanti, che si assegnano l’obiettivo di organizzare questo mercato tronco in forme appropriate. Separare il politico dall’economico qui non ha nessun significato; non esiste capitalismo senza Stati capitalisti […]. Queste

forme politiche appropriate articolano i modi di dominazione sociale interna propri delle società del sistema e i modi di inserzione nel sistema mondiale, o come formazioni dominanti (centrali) o dominate

(periferiche). (idem, corsivo mio)

Da qui, pretende di spiegare i limiti concreti di qualsiasi strategia sviluppista – definita in ultima istanza non solo dalla relazione di inserzione internazionale ma anche dai rapporti sociali interni - , e superare l’illusione o impasse teorico – al centro della riflessione degli esponenti marxisti della teoria della dipendenza - in cui erano finiti gli autori più noti dello strutturalismo latinoamericano (Prebisch) o della versione dominante e meglio conosciuta della stessa teoria della dipendenza (Cardoso e Faletto). Mentre questi ultimi sostenevano che la spiegazione della problematica dei paesi dipendenti obbliga alla comprensione del modo in cui sono tipizzate “le relazioni tra gruppi e classi interne e le relazioni di dominazione-subordinazione tra paesi nel contesto delle relazioni che caratterizzano il sistema capitalista internazionale”, di fatto, solo la relazione tra paesi rimarrà dominante nella loro analisi. (Cardoso; Weffort,

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1973, cit. in Gandarilla, 2005). Per Amin (1988) invece, così come sostanzialmente per gli altri esponenti dell’approccio del sistema-mondo, “la distinzione tra forze interne/forze esterne è […] artificiale e riduzionista: tutte le forze sociali sono interne dal momento che l’unità d’analisi è il sistema mondiale e non solamente le sue componenti locali […]”. Un altro modo, cioè, di vedere la “doppia complessità strutturale” già menzionata da Alburquerque (1994) che in questo caso però rimanda concretamente alle strutture di classe proprie delle diverse formazioni sociali.

Ai fini di questa analisi non è necessario approfondire la “legge della accumulazione su scala mondiale” che può essere e in effetti è stata criticata da diversi punti di vista. E’ sufficiente elencare brevemente i “cinque monopoli” attraverso cui tale legge secondo Amin si esprime nell’attualità e, successivamente, annotare i meccanismi che riproducono il carattere subordinato e dipendente delle relazioni centro/periferia, definiti nella letteratura di ispirazione marxista come di “estrazione e appropriazione dell’eccedente”.

I cinque monopoli in questione sono: a. delle nuove tecnologie; b. il controllo dei flussi finanziari; c. il controllo dell’accesso alle risorse naturali del pianeta; d. il controllo dei mezzi di comunicazione; e. il monopolio delle armi di distruzione di massa. Su ognuno di questi punti operati da “oligopoli finanziarizzati” si articola e approfondisce in forma legale ed extra-legale la frattura Nord/Sud, trovando nel controllo per l’accesso alle risorse naturali “l’asse centrale delle lotte e conflitti a venire”. (Amin, 2008)

Partendo da essi, diversi dati economici riflettono l’incalcolabile trasferimento di ricchezza dai paesi in via di sviluppo verso i paesi sviluppati, rispetto ai quali i flussi di aiuto pubblico allo sviluppo impallidiscono: 1) pagamento degli interessi sul debito estero; 2) mantenimento delle riserve internazionali; 3) fuga o volatilità dei capitali; 4) fuga di cervelli; 5) sfruttamento delle risorse naturali da parte delle società transnazionali; 6) sfruttamento della manodopera a basso costo nelle zone franche e transnazionali di servizi e commercio; 7) ossigenazione dei mercati imponendo tecnologie (e dipendenza tecnologica); 8) attraverso l’intercambio diseguale che, eccetto brevi periodi congiunturali, continua a riflettere il deterioramento delle ragioni di scambio.

Ciononostante, la visione dominante continua a spingere i paesi sottosviluppati alla specializzazione produttiva di prodotti primari o a basso valore aggiunto per l’esportazione, stimolando l’instaurarsi di condizioni favorevoli agli investimenti esteri e all’insediamento delle transnazionali facilitando il rimpatrio dei profitti.

Secondo Amin, queste nuove forme della legge del valore mondializzata non permettono il catching-up o

rattrapage. Il recupero, cioè, anche nel caso delle periferie o semiperiferie più dinamiche, non sarebbe

all’ordine del giorno.

Questa nuova tappa di sviluppo della legge del valore mondializzata non permette il rattrapage attraverso l’industrializzazione delle periferie dinamiche, ma al contrario fonda una nuova divisione internazionale diseguale del lavoro nella quale le attività di produzione localizzate nelle periferie […] funzionano come sub-contrattiste del capitale dominante (un sistema che evoca il “putting out” del capitalismo primitivo). (2001c)

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Da qui, le indicazioni per ciò che definisce sviluppo auto-centrato, che per superare un modello di sviluppo capitalista dipendente, inevitabilmente porterebbe allo sganciamento. Ciò implicherebbe come sintesi di una delle sue riformulazioni più recenti: a. il dominio nazionale dei mercati monetari e finanziari; b. il dominio delle tecnologie moderne già accessibili (disarticolando il monopolio esclusivo del Nord, sovra protetto dalle regole di proprietà industriale dell’OMC); c. il recupero dell’uso delle risorse naturali, al di là della proprietà formale; d. la liberazione dalle illusioni di un capitalismo nazionale autonomo, così come dei miti decadenti para religiosi o para etnici, ma non di un progetto di sviluppo nazionale, in cui sia centrale il controllo interno del processo produttivo, della commercializzazione e gestione dell’eccedente; e. la questione agraria; g. l’integrazione regionale.

Prima di approfondire quest’ultimo punto sono necessarie due osservazioni: la prima è che insieme a numerosi altri autori Amin (2005) sostiene giustamente che “lo sviluppo auto-centrato è stato, storicamente, il processo di accumulazione del capitale nei centri capitalistici e ha determinato le loro forme di sviluppo economico, rette principalmente dalla dinamica delle relazioni sociali interne, rafforzata dalle relazioni esterne poste al proprio servizio”. In più, nei casi di maggior “successo”, lo Stato, anche quando accompagnato dagli agenti privati, ha sempre avuto un ruolo attivo, selettivo e strategico di intervento. La seconda osservazione, direttamente legata alla prima, rimanda alla caratteristica principale del capitalismo dipendente:

La dinamica dello sviluppo auto-centrato si basa su una articolazione fondamentale che relaziona strettamente, in modo interdipendente, la crescita della produzione di beni di produzione con la produzione di beni di consumo di massa. Le economie auto-centrate non sono chiuse; al contrario, sono aggressivamente aperte, dato che conformano il sistema mondiale nella sua globalità per il loro potenziale esportatore. A questa articolazione corrisponde una relazione sociale i cui termini principali sono i due blocchi fondamentali del sistema: la borghesia nazionale e il mondo del lavoro. La dinamica del capitalismo periferico – l’antinomia del capitalismo centrale auto-centrato per definizione – si basa, al contrario, in un’altra articolazione, che relaziona la capacità di esportazione con il consumo (importato o prodotto localmente attraverso la sostituzione delle importazioni) di una minoranza. (idem)

Nel rapporto fra gli interessi del centro verso la periferia – come fonte di materie prime, area dove investire il capitale eccedente e mercato per le proprie manifatture - e le “borghesie compratrici”, si modellano le relazioni sociali di classe tipiche dei paesi periferici il cui marchio caratteristico è l’esclusione e la disuguaglianza.

Su questa base Amin, come si vedrà nel prossimo paragrafo, individua i limiti delle esperienze nazionaliste dell’era di Bandung, a cui contrappone la necessità di un nazionalismo progressista e democratico, orientato alla cooperazione regionale. Evidentemente, una condizione politica estremamente difficile da conseguire. Tuttavia sostiene che “l’insieme di questo ‘progetto’ ha qualche possibilità di avanzare progressivamente solo se a livello degli Stati nazione si cristallizzano delle forze sociali e dei progetti in grado di veicolare le riforme necessarie”.

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Che si tratti di riforme settoriali (come quelle relative alla riorganizzazione dell’amministrazione, al fisco, all’istruzione, alle formule di sviluppo sostenuto nella partecipazione) o di concezioni più generali della democratizzazione delle società e della loro gestione politica ed economica, queste tappe preliminari sono inevitabili. (Amin, 2001a)

In sintesi, quindi, sono tre gli elementi fondamentali della proposta di sganciamento: costituzione di fronti popolari democratici; la dimensione nazionale dei processi di sviluppo mettendo in questione le gerarchie del sistema mondiale; le nuove regionalizzazioni, ovvero l’integrazione regionale e la cooperazione Sud-Sud, come condizione essenziale per la lotta contro i monopoli.

Un mondo multipolare è anzitutto un mondo regionalizzato. L’interdipendenza negoziata e organizzata in maniera che permetta ai popoli e alle classi subalterne di migliorare le condizioni della loro partecipazione alla produzione e del loro accesso a un migliore tenore di vita costituisce il quadro di questa costruzione di un mondo policentrico. (idem)

Parla tuttavia di nuove regionalizzazioni, “diverse da quelle concluse entro il sistema attualmente dominante” perché “costituite come cinghie di trasmissione della mondializzazione polarizzante, collegando delle zone periferiche con dei centri dominanti che condividono le responsabilità del ‘colonialismo globale’”. (idem)

Lo scopo di nuove integrazioni regionali dovrebbe essere la rinegoziazione dell’accesso ai mercati di beni e capitali (rimettendo in discussione il ruolo dell’OMC e della Banca Mondiale), la rinegoziazione dei sistemi monetari (rimettendo in discussione l’FMI e il ruolo del dollaro), la democratizzazione dell’ONU.

“In questa prospettiva che concilia la mondializzazione con le autonomie regionali – continua - si apre lo spazio per una seria revisione del concetto di ‘aiuto’”. (idem)