• Non ci sono risultati.

La cooperazione allo sviluppo nella configurazione dell’ordine post-bellico

1.2. Una cornice storico-mondiale

1.2.5. La cooperazione allo sviluppo nella configurazione dell’ordine post-bellico

Le ragioni profonde per l’emergere operativo di un sistema internazionale di cooperazione allo sviluppo sono legate indissolubilmente agli imperativi della Guerra Fredda e al governo della decolonizzazione. Precisamente qui risiede una delle cause essenziali del sorgere dell’“area politica” degli aiuti internazionali. (Menzel, 1995) Il “dilemma della sicurezza”, tanto come contenimento dell’avversario (militare, economico, ideologico) quanto delle spinte più radicali del Terzomondismo, ne favoriranno progressivamente l’evoluzione e, in maniera del tutto contingente, parziali riforme.

L’obiettivo principale è sperimentare dei dispositivi capaci di gestire non traumaticamente (laddove possibile) la sostituzione dei rapporti di dominio coloniale e guidare ordinatamente l’ingresso dei nuovi Stati nel sistema mondiale di mercato, nel momento in cui molti di essi sono naturalmente attratti dal modello sovietico o da qualche variante tutta da inventare di sviluppo socialista.

Da questo punto di vista, a uno sguardo più profondo, il Piano Marshall è stato molto più di un sostegno finanziario alle economie europee. Secondo Wood (1986) l’European Recovery Programme ha esercitato una influenza decisiva sulla struttura delle relazioni tra paesi occidentali e le colonie in quanto “[queste ultime] hanno assunto un ruolo cruciale per la ricostruzione del sistema economico internazionale”. Il

47

meccanismo che si instaura e che condizionerà il futuro regime di cooperazione internazionale è descritto sinteticamente da Isernia (1994) in questi termini:

Le colonie assicuravano da un lato i mercati di sbocco per i beni prodotti dai paesi europei, una volta venuti meno, per ragioni politiche, quelli nell’est europeo e dall’altro facevano sì che i paesi europei potessero pagare il loro deficit con gli Stati Uniti attraverso il surplus di dollari canalizzati dagli investimenti americani in quelle aree e l’esportazione delle materie prime necessarie alle industrie americane. I dollari che i territori coloniali avrebbero ottenuto in cambio delle loro materie prime sarebbero giunti ai paesi europei attraverso le esportazioni di questi ultimi alle proprie colonie, contribuendo così a colmare il gap di dollari dei paesi europei occidentali.

La ricerca di un ordine internazionale stabile, capace di garantire la crescita dell’economia mondiale, non poteva prescindere dal ruolo giocato nel sistema-mondo capitalista dalle ex colonie, le cui problematiche, piuttosto che esaurirsi, cominciano con l’indipendenza.

Dopo che la visione di Lord Keynes si sarà scontrata (perdendo) con quella dello statunitense White, le istituzioni disegnate a Bretton Woods nel 1944 a guardia di quest’ordine rifletteranno chiaramente l’incipiente passaggio dall’egemonia britannica a quella USA, che troverà nella Banca Mondiale e nel Fondo Monetario Internazionale – ritagliate a misura dei propri interessi – la possibilità di esprimersi al riparo di istanze formalmente collegiali e multilaterali. Il principio cardine statuito per entrambe le istituzioni - “1 dollaro 1 voto” - escluderà automaticamente dall’elaborazione delle politiche, “dalle decisioni che contano”, almeno i due terzi dei paesi aderenti. E poi, ricorda giustamente Ellerman (2005), i paesi del blocco sovietico, a differenza delle Nazioni Unite, non entrarono a far parte né della Banca né del Fondo, così che gli aggettivi “mondiale” e “internazionale” glissarono scaltramente per più di quattro decenni sulla realtà di due istituzioni a tutti gli effetti parte del blocco occidentale nella competizione per offrire al Terzo mondo il miglior modello di sviluppo.

Senza sminuirne il significato di grande movimento di liberazione, la decolonizzazione è comunque congeniale alle pulsioni egemoniche delle due superpotenze, mentre gli ex imperi, che come sostiene Wallerstein (2003) in molti territori “opportunamente e intelligentemente si ritirarono”, proprio attraverso la cooperazione internazionale cercheranno di limitare il danno della perdita del controllo diretto. Il carattere neocoloniale si manifesta immediatamente nella scelta di gestire l’assistenza prevalentemente nel quadro delle relazioni bilaterali, mentre le questioni politiche sono affrontate collegialmente nelle sedi in cui l’insieme dei paesi industrializzati può far valere il peso specifico dei rapporti di forza del nuovo ordine post- bellico e post-coloniale. Si chiarisce così perché la quasi totalità dei fondi per lo sviluppo alla fine degli anni ’50 (un po’ meno di 5 miliardi di dollari) fosse costituito da flussi finanziari di carattere bilaterale, e che buona parte di essi assumesse la forma dell’“aiuto legato”, concesso cioè dietro l’impegno di acquistare beni e servizi dal paese donante o soggetto a modalità di acquisizione con restrizioni geografiche. (Pino, 1977; Smith, 2006) E’ una pratica che, certamente da considerare come la prima forma di condizionalità in ordine cronologico (o ipoteca sugli aiuti), non verrà mai meno. Gli Stati Uniti sono il primo paese a metterla in atto con un obiettivo ben preciso: mantenere le proprie riserve d’oro e aggiustare la propria bilancia commerciale,

48

per evitare, cioè, che altri paesi accaparrassero mercati d’esportazione. Ancora nel ’69, solo il 18% degli aiuti bilaterali complessivi non era legato. La quota statunitense libera da questo vincolo era solo del 5%, quella giapponese appena del 2%, nel caso di Francia e Regno Unito attorno al 30%. (Smith, 2006)

Il miraggio della modernizzazione, nella versione del sogno americano, dell’utopia sovietica e poi della variante maoista, risultò una prospettiva attraente per i fragili governi partoriti da un’arbitraria geografia postcoloniale. Ne rafforzava le basi sociali urbane, ne consolidava il potere all’interno delle strutture dello Stato e ne garantiva il controllo sul mondo rurale piegato alle esigenze dell’industrializzazione.

Da qui uno dei paradossi evidenziati da McMichael (2006): il “progetto sviluppo” è nelle sue fasi iniziali una strategia di crescita economica su base nazionale con una regia internazionale, in cui sono coinvolti gli interessi di una pluralità di attori.

Questo spiega anche perché la decolonizzazione – ma in questo caso è certamente più appropriato il termine liberazione - non sia stata ovunque un processo pacifico, e che la persistente ingerenza occidentale - economica, politica, militare - non si sia limitata alle ex colonie, ma anche a paesi la cui indipendenza formale risaliva al XIX secolo. Non è senza ragioni che nel ’61, poco prima di morire, Frantz Fanon abbia sostenuto in un libro dal profondo impatto che la decolonizzazione è sempre un processo violento.

Non bisogna dimenticare, soprattutto, che nelle aree strategiche o economicamente più ricche in materie prime e risorse naturali, le grandi potenze hanno continuato dopo il ’45 a perseguire una politica della porta aperta, non esitando - insieme all’offerta di “cooperare allo sviluppo” - a corrompere, cospirare o rovesciare leader e governi ritenuti troppo autonomi o eccessivamente “nazionalisti”. Mossadeq, Sukarno, Lumumba, Arbenz, Allende, Torrijos, Sankara, non sono stati necessariamente dei grandi statisti né tanto meno degli eroi. Non hanno avuto il tempo per provarlo o smentirlo. Di certo, però, sono i nomi eccellenti di una lunga lista di personaggi meno noti la cui sorte è stata legata alla determinazione, coraggio e grande dignità con cui hanno cercato di praticare realmente una politica indipendente in zone troppo sensibili, rompendo gli equilibri dei rapporti di forza all’interno dei propri paesi ed internazionalmente. Per questo sono diventati dei martiri.

La sovrapposizione di pratiche e relazioni mutuate dal colonialismo - ora nella forma del fardello, ora in quella della rapina, ora della rivolta antioccidentale – ad altre di ingegneria sociale improntate all’inserimento dei e nei meccanismi di mercato delle società “sottosviluppate”, sono un aspetto permanente della storia della cooperazione, anche se si tratta di un nobile progetto foderato dai generosi principi di carta delle Nazioni Unite, scaturito dalla ecatombe del secondo conflitto mondiale, e quindi perfettamente idoneo a mobilitare consenso, speranze e risorse.

Il carattere inedito e contingente del contesto ha in realtà plasmato un sistema carente di un disegno ordinato, coerente, guidato da criteri razionali e, soprattutto, autenticamente accompagnato da principi solidaristici, i cui tratti fondamentali sono tuttora ravvisabili nella struttura e funzionamento delle principali agenzie ed istituzioni. In questo senso, non è azzardato persino sostenere che la stessa nozione di “cooperazione allo sviluppo” non è mai stata chiaramente univoca, perfettamente delineata, rigorosa; caricata periodicamente di a priori (cosa è “sviluppo”) e prescrizioni implicite (come raggiungerlo), si è prestata

49

immediatamente ad un utilizzo ambiguo e contraddittorio, subordinato alla cultura e alle priorità politiche dei soggetti che di volta in volta ne sono stati interpreti e attori.