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Realtà degli aiuti e integrità delle cifre (i vizi privati)

1.4. La cooperazione dopo il Washington Consensus: «vizi privati e pubbliche virtù»

1.4.4. Realtà degli aiuti e integrità delle cifre (i vizi privati)

Nel 2005 gli aiuti allo sviluppo hanno raggiunto la cifra record di 106.800 milioni di dollari, quasi il doppio rispetto ai 57 miliardi del ’97, anno in cui come media del PIL dei paesi DAC avevano rappresentato appena lo 0,22%, collocandosi al livello più basso dal 1969. Inoltre sembra essere aumentata la quota di dono rispetto al credito preferenziale – quasi il 90% contro il 10% - , e una maggiore attenzione al “sociale” come settore di destinazione. Nei paesi a basso reddito negli anni ’90 veniva assegnato soltanto il 29% del totale per progetti in quest’ambito, mentre la cifra nel 2005 era salita al 52%. (Sanahuja, 2007)

In ogni caso la percentuale del 2005 raggiunge appena lo 0,33% del PIL dei Paesi DAC – molto lontana dallo 0,7 ribadito in ogni vertice internazionale – collocandosi dunque nella media del periodo 1969-1998. In termini relativi, cioè, l’aumento delle cifre assolute implica semplicemente un recupero rispetto alla forte caduta sperimentata negli anni ’80 e ancora di più nei ’90. (idem)

Tale aumento è dovuto soprattutto a operazioni eccezionali di riduzione del debito, di cui hanno beneficiato in larga parte Iraq e Nigeria, e al crescente impegno di somme in aiuti d’emergenza che sino alla fine del 2007 ha riguardato principalmente i paesi colpiti dallo Tsunami. Disaggregando il dato del 2005, il

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53% è stato destinato in aiuti allo sviluppo, il 26,5% in riduzione del debito, il 9,6% in aiuti d’emergenza e quasi il 5% in spese amministrative dei donatori. Così, solo una quarta parte del totale è imputabile a nuove risorse. La crescita reale tra 2000 e 2005 è stata solo del 4,6%. (idem)

Nel 2006 viene registrata una prima riduzione, confermata l’anno successivo, mentre nel 2008 si raggiunge nuovamente lo 0,30% (122 miliardi). Seguendo questa tendenza, considerata la recessione in corso, non è improbabile che non sarà raggiunto per il 2010 neanche lo 0,36% del PIL previsto dai paesi DAC.

I tre grafici riportati mostrano una situazione sostanzialmente stazionaria con riferimento al rapporto aiuti/PIL e alle somme apportate da ciascun donatore, confermando una tendenza già di lungo periodo.

Fonte: DAC 2007

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La commistione fra aiuti militari ed aiuti economici è rimasta sostanzialmente immutata. Segue semplicemente traiettorie geopolitiche e slogan diversi dai tempi della Guerra Fredda – oggi guerra al terrorismo, al narcotraffico, export di democrazia ecc.

Il diverso ammontare e la ripartizione geografica continuano a rivelarne il carattere inequivocabilmente e stabilmente subordinato e sussidiario alle priorità dei paesi donatori e di selezionati alleati politici. Mentre gli obiettivi del millennio vanno assumendo progressivamente un ruolo secondario, gli Stati Uniti sono riusciti a coinvolgere in questa “securitizzazione degli aiuti” anche altri paesi. L’Unione Europea non fa eccezione.

Il condono del debito all’Iraq, sommato ai consistenti aiuti per la ricostruzione, lo hanno convertito nel primo paese recettore nel 2005, mentre l’Afganistan nello stesso anno si collocava al quarto posto. Contemporaneamente si osserva una maggiore concentrazione in paesi considerati chiave nella “guerra al terrorismo” – nel caso statunitense Egitto, Pakistan e, naturalmente, Israele, anche se per quest’ultimo la voce ufficiale è semplicemente “aiuto allo sviluppo” e non “aiuto pubblico allo sviluppo” – o nei cosiddetti Stati “fragili” – Sudan, Liberia, Repubblica democratica del Congo, Papua Nuova Guinea.

Nella stessa linea si colloca il caso dell’America Latina. La maggior parte degli Stati di questa regione è classificata a reddito medio. Nel complesso, dei 34 che comprende questa categoria, 24 hanno subito una contrazione nella quantità di aiuti ricevuti nel periodo 2000-2005. Ciò non si è verificato in Colombia, considerata prioritaria nella lotta al “terrorismo globale”, né, almeno fino al 2005, in Bolivia (a reddito medio basso), dove gli aiuti sono stati condizionati alla collaborazione dei rispettivi governi nei programmi per la distruzione delle piantagioni di coca.

In Bolivia ciò rappresenta un problema eminentemente politico ed economico oltre che culturale. Come si vedrà, l’elezione di un cocalero (ex coltivatore della foglia di coca) ha complicato la situazione fino alla recente espulsione dal paese “per ingerenza negli assunti interni” tanto dell’agenzia statunitense di lotta al narcotraffico quanto della stessa missione diplomatica. Una situazione piuttosto tesa oppone oggi l’attuale governo all’agenzia statale di cooperazione internazionale USAID, anch’essa più volte minacciata di espulsione e di cui in effetti sono state espulse alcune organizzazioni dipendenti, che in termini assoluti fino al 2004-2005 era stata il primo donatore. Non casualmente, al momento di investitura del nuovo presidente, USAID ha spostato il centro delle proprie operazioni nell’Oriente boliviano, dove è concentrata l’opposizione all’attuale governo.

Allo stesso modo il Plan Colombia è stato accompagnato da considerevoli somme utilizzate da USAID per costituire e finanziare Ong impegnate nella difesa dei diritti umani. Come è noto, quello dei diritti umani è un tema delicatissimo nello Stato colombiano a causa della conflittualità endemica nel Paese, legata al fragile e teso rapporto fra guerriglia, paramilitarismo, cartelli della droga, rifugiati interni, azione repressiva e spesso extralegale dello Stato, nonché alla presenza di multinazionali (molte delle quali statunitensi) impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali in territori abitati da comunità originarie. La stretta alleanza politica e militare fra il governo colombiano e quello statunitense, e la rilevanza degli interessi economici in gioco unita ai magri risultati ottenuti, mettono seriamente in discussione l’impegno di cifre così ingenti a una cooperazione internazionale nettamente filogovernativa.

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Sebbene a livello mondiale la percentuale più alta di povertà sia concentrata in Asia, la sua incidenza reale è di gran lunga superiore nell’Africa subsahariana, dove si trova il maggior numero dei “paesi meno avanzati” o a basso reddito. Circa la metà di questi riceveva nel 2005 meno aiuti che nel 2001.

Durante la riunione del G-8 nell’estate del 2005 a Gleneagles, in Scozia, i capi di Stato dei più ricchi paesi industrializzati si sono impegnati a raddoppiare entro il 2010 la quantità di aiuti da destinare a questa regione. Alla fine del 2007, eccettuato il condono di parte del debito e gli aiuti d’emergenza, tale impegno non si era tradotto in realtà. Segnala Sanahuja (2007) che “questa regione ha ricevuto il 35% degli aiuti totali tra il 1990 e il 2000, e il 38% tra il 2001 e il 2005. A cavallo fra 2004 e 2005 il volume è aumentato del 32%, raggiungendo un totale di 22.500 milioni di dollari. Tuttavia, se a questa evoluzione apparentemente positiva si sconta il condono del debito alla Nigeria, in realtà si registra una diminuzione e la cifra totale si riduce a 16.000 milioni”.

Nel 2006 la crescita del volume è stata solo del 2%, e una inchiesta del DAC a fine 2007 ha rilevato che difficilmente la percentuale si sarebbe incrementata nel 2008. Alcuni donatori si giustificano con la mancata capacità degli Stati del subsahara di assorbire maggiori risorse, il che può essere certamente vero per alcuni di essi, mentre i governi africani lamentano numerose difficoltà per adeguarsi a condizioni e criteri di selettività sempre più stringenti, la cui contropartita, però, a differenza di quanto pattuito nei vertici internazionali, non si traduce immediatamente in maggiori aiuti allo sviluppo.

L’utilizzo della cooperazione come ponte o copertura per favorire interessi di natura commerciale delle imprese dei paesi donatori e/o di elite beneficiarie – cioè la persistenza della pratica degli aiuti legati o della loro fungibilità, così come della corruzione ampiamente diffusa in entrambi sensi – , oltre ad essere denunciata ancora frequentemente, spiega in parte perché un numero rilevante di paesi non sia attraente in termini di “investimento” in aiuti, e che questi tendano a concentrarsi in quei paesi ricchi in risorse naturali, o a medio reddito con possibilità di sviluppo dei mercati, o dove vi siano governi particolarmente sensibili alle esigenze dei donatori. Recentemente, come parte dell’agenda di Monterrey e poi della Dichiarazione di Parigi, si è arrivati a un accordo sulla necessità di ridurre progressivamente gli aiuti legati e di eliminarli definitivamente per i “paesi meno avanzati”. Tuttavia, l’accordo non comprende né gli aiuti alimentari, né l’assistenza tecnica, due eccezioni – sottolineano Meyer e Schultz (2008) – sommamente importanti. Le agenzie nazionali, con la parziale eccezione dei paesi del Nord Europa, sono immerse in queste problematiche, segnalate nelle puntuali quanto meramente rituali osservazioni annuali del DAC. Smith (2006) segnala che nel caso di Austria, Regno Unito e Germania la proporzione tra aiuti legati al commercio e aiuti bilaterali supera il 65%, mentre per quanto riguarda l’Italia, il Canada e la Grecia supera il 50%. Il caso giapponese è sostanzialmente analogo. Anche se attraverso gli aiuti si continua ad alimentare il legame di dipendenza con i paesi tradizionalmente sotto l’influenza nipponica – qualcosa di simile avviene con le ex potenze coloniali verso le ex colonie – il ritorno di capitale fa sì che oggi i principali beneficiari della

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cooperazione giapponese siano Cina, Indonesia, Tailandia, India, Filippine, Vietnam, dove sono concentrati i suoi interessi economici. (Smith, 2006)

Un altro aspetto, forse meno noto ma di certo non meno rilevante, riguarda il tema della preferenza alle imprese locali e fornitrici di servizi nei contratti statali nel caso di gare internazionali e di crediti concessi dalle istituzioni finanziarie e dalle banche regionali di sviluppo. La politica adottata nella maggior parte dei casi tende ad escludere automaticamente le imprese nazionali a “causa degli eccessivi ostacoli amministrativi per competere in appalti internazionali”. (Meyer e Schultz, 2008)

E’ un fenomeno che riguarda direttamente anche la Banca Mondiale. Una parte rilevante del portafoglio è costituito dalle attività della IFC (International Finance Corporation) che è sostanzialmente la finanziaria dell’Istituto. Promuove, emettendo propri titoli sui mercati obbligazionari, lo sviluppo del settore privato dei paesi emergenti più dinamici nei settori finanziario, assicurativo, dei servizi di pubblica utilità, ma anche di quello minerario e petrolifero. E’ stata spesso accusata di non rispettare gli standard adottati dalla Banca in materia di diritti umani, impatto sociale dei progetti, rispetto dell’ambiente, e di essere in ultima analisi un agente delle multinazionali occidentali nei diversi rami di attività. (Saxe-Fernández; Delgado-Ramos, 2004; Toussaint, 2006) Secondo due funzionari italiani dell’Istituto (al 2007 ancora in servizio), la composizione del portafoglio di IFC “testimonia qualche difficoltà nel conciliare l’obiettivo della profittabilità con quello della promozione dello sviluppo”. (Magnoli; Piazza, 2007) E’ una finanziaria, fa business.

Un ulteriore problema emerso solo recentemente è relativo all’integrità o ai trucchi contabili per gonfiare le cifre totali degli aiuti.

Sembrerebbe che quelle di diversi paesi DAC oggi includano le borse di studio offerte agli studenti dei paesi in via di sviluppo per frequentare corsi nel paese donatore, o anche l’assistenza data ai rifugiati. I dati del 2005 del DAC riportavano a queste due voci rispettivamente un 2,1% del totale. In entrambi in casi è evidente che per il paese in via di sviluppo si tratti di un beneficio soltanto indiretto e, soprattutto, eventuale.

In secondo luogo, ancora più rilevante, è la questione del condono del debito. Dal 1992 il DAC ha dato via libera alla contabilizzazione come parte totale degli aiuti alla cancellazione degli interessi del debito bilaterale contratto sui crediti preferenziali. Nel quadro dell’iniziativa HIPC già menzionata, i condoni registrati come aiuti allo sviluppo sono passati da 2.500 milioni di dollari nel 2001 a 25 miliardi nel 2005, circa 1/5 del totale. (Sanahuja, 2007) Senza entrare nella questione su come si stia portando avanti questa iniziativa, su cui però è da segnalare che sono stati manifestati molti dubbi a partire dal fatto che accedono al programma solo quei paesi il cui “disimpegno” nelle politiche economiche è giudicato soddisfacente dall’FMI e dalla Banca Mondiale, in termini generali significa comunque varie cose. L’operazione di cancellazione certamente implica per il creditore una spesa in termini di bilancio, mentre per il debitore la possibilità di destinare alla spesa sociale, o alla normalizzazione del rapporto con altri creditori, l’ammontare risparmiato sul pagamento degli interessi del debito condonato. Ma il problema basilare è che il paese beneficiario non riceve concretamente nuove risorse se già non stava pagando gli interessi. Cosa assai

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frequente nel caso dei paesi più indebitati rispetto al debito bilaterale perché la precedenza, di norma, è data ai creditori privati o alle istituzioni internazionali. (idem)

Infine, è stata avanzata la proposta in seno al DAC, che in alcuni casi sembra già operativa, di conteggiare come aiuti ufficiali allo sviluppo le spese per i programmi di sicurezza, le missioni di pace e gli aiuti privati (imprese, Fondazioni, Ong ecc.). Cosa che significherebbe da un lato la legalizzazione della commistione sempre esistita fra aiuti militari e di altra natura, dall’altro la perdita totale di senso dell’utilizzo dell’indicatore DAC come aiuto pubblico allo sviluppo. D’altro canto, la proliferazione degli attori e la crescita esponenziale dei temi che oggi entrano nell’orbita dello sviluppo, hanno aperto lo stesso tipo di discussione negli istituti e think tank di tutto il mondo.