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7.1. Esiti ineludibili

Quando il virus sarà battuto e l’emergenza finita, in sanità si dovrà fare i conti con gli effetti di un trauma ad impatti molteplici, a cominciare dal cambio di paradigma del rapporto con la salute e la sanità, tradizionalmente uno degli ambiti più coperti dal mix di tutele pubbliche e autotutele private, che oggi è diventato fonte di angoscia collettiva. La salute decolla al vertice delle preoccupazioni degli italiani, così come l’insicurezza sul grado di copertura in ambito sanitario di cui si potrà beneficiare anche in tempi post-pandemici.

Ecco solo una prima indicazione di priorità:

• espandere il numero di pazienti assistibili in contemporanea mettendo in campo più dotazioni, più strutture e più personale, incrementando la produttività delle risorse impiegate, cioè i pazienti assistiti per unità di servizio impiegato, accelerando i tempi di reazione del sistema ad uno choc incrementale della domanda, cioè la velocità con cui l’offerta anche strutturale e hard ospedaliera cresce per rispondere alla domanda;

• migliorare la capacità dell’offerta di intercettare i bisogni sanitari all’origine, in prossimità dei luoghi di vita delle persone, lasciando entrare nella catena sanitaria ospedaliera solo coloro che ne hanno realmente bisogno;

• integrare i segmenti dell’offerta sanitaria dai terminali sui territori ai pronto soccorso ai reparti ospedalieri, rendendo cosa fatta l’analisi, valutazione e ridistribuzione dei pazienti tra le unità di offerta in relazione ai propri bisogni;

• integrare in cooperazione operativa sanitario, sociosanitario, socioassistenziale e via via ambiti diversi della vita collettiva, nella logica da ecosistema sanitario che sola può evitare che sul sanitario strettamente inteso si riversi una domanda che non trova argini e contenimenti da alcuna altra parte.

Un elenco di priorità da affrontare che potrebbe ora apparire una fuga in avanti o semplicemente una whish list indigesta e irrealizzabile.

Invece è importante fissare le lezioni apprese in questa fase, a cominciare dal fatto che o la sanità intesa come ecosistema di tanti soggetti a partire dal Servizio Sanitario risponde alla sfida delle dinamiche erratiche e imprevedibili della domanda di salute, oppure ci porteremo a lungo gli effetti socialmente e individualmente ansiogeni di una salute che gli italiani percepiranno come perennemente sotto minaccia.

7.2. Frammenti di nuova sanità

La sfida per la sanità è rendere praticabile un obbligato modello tripolare, che tiene insieme acuzie, cronicità ed emergenze, che è capace di dare eccellenza in condizioni ordinarie, di espandersi in quelle eccezionali e di restare sempre sostenibile, nel breve come nel lungo periodo.

Per questo è semplicistico restringere il campo delle cose da fare oltre l’emergenza ad un ampliamento ex ante e per sempre dell’offerta di terapie intensive, reparti e letti ospedalieri da tenere pronti per essere utilizzati in caso di epidemie così da fronteggiare picchi.

Nel fuoco dell’emergenza la questione dei costi economici viene messa da parte e tuttavia nel ritorno all’ordinario tornerà il problema di capire come garantire la permanenza di matrici di offerta così ampie come quelle necessarie per una emergenza pandemica.

L’esperienza di questi mesi tra prima e seconda ondata mostra che l’intasamento che fa traballare la sanità riguarda non solo l’offerta ospedaliera (il cui deficit è emerso sin dalla prima fase dell’emergenza), ma quella territoriale, dalla medicina generale alle diverse articolazioni sui territori.

Non essere riusciti a sviluppare un’azione adeguata sul territorio, dalla fase di prevenzione intesa anche come monitoraggio preventivo di cosa stesse accadendo a quella di assistenza e cura sin al domicilio, ha finito per moltiplicare la potenza del virus e la sua pressione su pronto soccorso e terapie intensive.

Così è stato nella prima ondata e così sta accadendo nella seconda, con una reiterazione dei deficit, che conferma che si tratta di tare strutturali che chiedono una opzione forte, intenzionale, per poter essere oltrepassati.

Allora non sorprende che gli italiani già oggi non credano a soluzioni semplici: infatti, il 93,2 % ritiene che non basta ampliare il numero di posti letto in terapia intensiva, piuttosto la buona sanità richiede anche creazione e sviluppo di una sanità di territorio e di prossimità.

Se il terremoto del 1980 con la sua tragedia, i ritardi e gli infiniti costi umani e sociali ha portato poi alla costruzione della Protezione civile, l’esperienza di questi mesi ha fatto lievitare il consenso e l’aspettativa sociale per una sanità fatta di ospedale e territorio, di servizi ad alta intensità tecnologica e professionale e servizi di prossimità.

Un sistema integrato, appunto un ecosistema con una integrazione interna potente sui flussi informativi e di scambio di prestazioni con una distribuzione concordata e condivisa di ruoli soprattutto in relazione ai cittadini.

Un ecosistema potenzialmente aperto, cioè in grado di relazionarsi operativamente con altri attori, a cominciare ad esempio con il socioassistenziale che è l’anello più prossimo a quello sanitario, tanto da pagare le conseguenze della degenerazione patologica del suo intasamento.

A poco servirà rilanciare dicotomie desuete tra centralismo e federalismo o tra pubblico e privato o nuove nostalgie per una sanità d’epoca, che di fatto non è mai esistita e che invece si pensa di richiamare in vita pompando soldi pubblici di varia provenienza fino ad avere un sistema ciclopico che potrà dare tutto quello di cui c’è bisogno.

Meglio fissare la lezione dell’emergenza: ci vuole un modello di sanità che tiene in conto acuzie e cronicità e al contempo l’arrivo di improvvise epidemie, attrezzandosi per avere la flessibilità che consente di garantire l’assistenza e cura dell’ordinario e la capacità tempestiva, in breve tempo, di fronteggiare picchi.