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Alchimia e fisiologia: alcuni esempi 1 Cenni di disciplina alchemica

Un vero e proprio “manuale alchemico moderno”, può essere considerato il triplo volume Introduzione alla magia del Gruppo di “Ur”, attivo in Italia intorno alla fine degli anni '20, capeggiato da Julius Evola141.

Si tratta di un contatto importante con la “Tradizione”, seppur non scevro da ombre. Sicuramente sedotti da un immaginario settario e iniziatico, il gruppo di giovani che hanno dato vita a questa “catena” esoterica, si sono ispirati agli insegnamenti dell'antica alchimia e della magia, operando spesso veri e propri rituali. Nonostante quest'aura mistica così presente nei loro scritti, e nonostante la successiva connotazione politica del loro operato, non possiamo non notare in alcuni dei loro scritti, poi riuniti appunto nei tre volumi denominati “Introduzione alla Magia”, punti di contatto con la nostra ricerca.

Primo obiettivo del Gruppo di Ur era suscitare una “superiore forza metafisica” che potesse aiutare i singoli membri a “operare magicamente”. Per ottenere questo risultato, pur descrivendo le loro tecniche con termini legati alla sfera del magico, di fatto lavoravano operando un training fondato sulla visualizzazione e sulla concentrazione. Tutt'altro che cercando una “mortificazione dell'Ego” – come spesso accade nelle discipline orientali – il Gruppo di Ur, come la maggior parte dei ricercatori spirituali occidentali in quel periodo, lavorava nell'opposta direzione di un'esaltazione di se stessi. Il punto di partenza però, era sempre la ricerca psicofisica di un livello zero o situazione base nella quale il corpo-mente risultasse recettivo e potesse mettersi “in ascolto”.

Torno a dirlo, perché equivoci non sorgano – circa quanto sono venuto comunicando su queste pagine – da parte di illusi nelle presunte virtù che avrebbe una formuletta o un 'segreto' quando sussista l'abitudine di un pensiero periferico, distratto, sfarfallante, astrattistico, discontinuo. Prima di qualsiasi opera, devi saper giungere alla concentrazione assoluta. E ciò vuol dire: penso l'oggetto, penso all'oggetto, penso sull'oggetto, vivo l'oggetto, non esiste né 'io' né null'altro, ma fermo, unico, isolato, al centro del fuoco della mente sta l'oggetto: come la freccia lanciata e profondamente infissa più non si scuote – come la salda roccia che non ha nessun moto ai colpi del vento – così sussista l'unico oggetto, nel 'vuoto' della mente. Che a questo sforzo ti occorrano mesi od anni, non importa. Se non hai la forza, o se troppo dura ti sembrasse questa condizione, considera a quante altre belle cose può dirigersi l'azione, nella vita degli uomini, oltre che alla Magia142.

Raggiunta questa precondizione di “vuoto mentale” è possibile, secondo il Gruppo di

141 Gruppo di Ur, Introduzione alla magia, Roma, Ed. Mediterranee, 1971, voll. 1, 2 e 3. 142 Abraxa in Gruppo di Ur, La nube e la pietra in Introduzione alla Magia, vol. 3, p. 15.

83 Ur, dare spazio alla “Super-coscienza” che, pur essendo un portato del corpo fisico – poiché scaturita da dinamismi mentali prodotti dal cervello – di fatto scrive una “storia a venire dello spirito”.

La percezione sopranormale di uno stimolo sensoriale è la telestesia o ricezione sensoriale telepatica, o percezione psichica [...]. Si tratta di un'esperienza realizzatasi nell'anima sensitiva, sotto uno stimolo che ha saputo giungere ad essa direttamente, senza il tramite delle correnti nervose o di modificazione dei rispettivi centri [...]. Nella misura che questi processi e 'nuclei' non hanno corrispondenze 'cicliche' anche nei campi di energia degradata fino alla forma della materia e del movimento percepibile fisicamente, oltre ad aversi la ricezione sensoriale telepatica, si potranno avere anche esperienze di forze e di realtà puramente psichiche, cioè di un piano superiore di esistenza, che prescinde dal sostrato fisico, proprio all'esperienza nel mondo dei corpi [...]. È un nuovo mondo di rapporti di cui l'Io si rende consapevole, nella misura, ed alla condizione (raramente soddisfatta) che la sua coscienza di veglia sappia seguire la supercoscienza [...]. Il caso limite è dato [...] dalla percezione diretta dell'essenza una dell'Io [...]. È una forma che, di fatto, non ha più corrispondenze fisiologiche. Non si può più parlare né di stimolo né di reazione, anche nel significato più generale di questi termini. Il processo di conoscenza qui è identificazione, rapporto immediato con le essenze; è un farsi essenza143. Il nostro cervello è sensibile all'energia mentale la quale però risulterebbe essere troppo mediata da quella sensoriale. Più che un dinamismo mentale si tratta così di un dinamismo sensoriale mentalizzato. Il pensiero si appoggia sulle sensazioni e il “pensiero puro”, non percepito dalla nostra sfera cosciente, cade nella regione della subcoscienza superiore. Quando il nostro cervello riuscirà ad attingere all'energia mentale senza mediazioni sensoriali, il pensiero smetterà di essere un fatto interno e diverrà un fatto reale, oggettivo. In questo mentalismo che traduce il nostro immaginare e volere interiore in realtà fisiche, semplificando starebbe, secondo il Gruppo di Ur, il concetto di Magia.

L'antica arte della magia, dal secolo dei lumi in poi, è stata bistrattata dal mondo della “cultura”, che ha sempre di più spostato il suo punto d'osservazione nella direzione della scienza, relegando di fatto questo antico sapere così fortemente connesso alla Tradizione esoterica occidentale, in una posizione marginale, spesso considerandolo al pari della stregoneria, del gioco di prestigio, del trucco da baraccone del ciarlatano da fiera che millanta chissà quali poteri della mente. Questa tradizione ha però continuato a lavorare sottotraccia, manifestando il suo potere simbolico attraverso l’architettura (basti pensare a Giulio Camillo e il suo vagheggiato e utopico teatro della memoria, oppure alla Scarzuola, “Città ideale” a Montegabbione, frazione di Montegiove, dove la tradizione racconta che S. Francesco abbia dimorato prima della costruzione della struttura, o ancora ai giardini di Bomarzo, per citare soltanto gli esempi più noti), la scultura, le lame dei tarocchi. Un sapere antico legato all’aspetto più fisiologico della “Tradizione” può essere riscoperto anche nelle posizioni delle maschere della “commedia all’improvviso”, detta anche commedia dell’arte, nella quale un occhio attento non fatica a riconoscere posizioni che riecheggiano anche le conoscenze orientali di Tai-chi, Chi-gong e Nei-gong.

Seppure la stragrande maggioranza di maghi e occultisti in genere possano essere considerati personaggi ambigui, che nulla o quasi hanno a che fare con un serio lavoro di ricerca su se stessi, non vogliamo perdere l'occasione di considerare chi, secondo noi, può contribuire in qualche modo alla nostra indagine. Con il termine “magia” si vuole qui indicare una tecnica che, attraverso l'utilizzo della volontà, è in grado di modificare, o quantomeno influenzare, il mondo circostante con pensieri, gesti, atti e formulazioni

84 verbali. Non pensiamo dunque a “magia” come ad una parola contrapposta a “scienza”, poiché siamo sicuri che la reale facoltà di “percepire” un qualche fenomeno di natura fisica sottile, funga da “testa d'ariete” per la scienza, nell'attesa che questo fenomeno, già evocato ed utilizzato, possa essere misurato, reso ripetibile, ed infine compreso.

“Scienza e spiritualità non saranno più considerate nemiche. I riti torneranno ad essere esperimenti e la visione sarà parte della ricerca”144. La magia opera dunque attraverso “simboli” (dal greco συνβαλλω simballo – “unire”, contrario di δίαβαλλω diaballo “disunire”), incantesimi, formule, divinazioni, e similitudini.

Ci siamo già soffermati sulla facoltà dell'essere umano di modificare la propriocezione in qualche modo “per simpatia”, osservando cioè qualcuno che compie un'azione e attivando, tramite i neuroni specchio, le stesse aree cerebrali della persona che agisce, andando di fatto a supportare scientificamente il concetto aristotelico di “catarsi”. Qui si tratta di verificare come e in che modo, questa “simpatia” (di fatto unico reale, seppur invisibile, legame fisiologico tra attore e spettatore), possa essere misurata, allenata e utilizzata per finalità sceniche.

2.2.2. Verso una nuova alchimia

La Grande Opera (Magnum Opus in latino) è da sempre considerata un itinerario alchemico di lavorazione e trasformazione della materia prima finalizzato alla realizzazione da parte dell’alchimista della “pietra filosofale”, detta anche “polvere di proiezione”, ovvero una materia capace di trasformare i metalli vili in oro. Questa lavorazione, secondo la tradizione ermetica consisterebbe di diversi passaggi o processi di laboratorio caratterizzati da specifici cambiamenti di colore della materia sottoposta alla lavorazione. Non è un segreto che la materia sottoposta alla lavorazione alchemica fosse l’alchimista stesso. Si pensa dunque che, accanto (o al posto) di questa operazione di chimica ante litteram lo studioso di alchimia (l’iniziato) tentasse un pericoloso e spesso solitario percorso iniziatico di individuazione.

Originariamente, le fasi della Grande Opera erano quattro: nigredo, annerimento o melanosi, associato all’elemento terra, albedo, sbiancamento o leucosi, associato all’elemento acqua, citrinitas, ingiallimento o xanthosis, associato all’elemento aria,

rubedo, arrossamento o iosis, associato all’elemento fuoco. Se le prime tracce delle fasi

alchemiche si trovano negli scritti di Zosimo di Panopoli che intorno alla fine del terzo secolo cita Maria la Giudea (considerata la prima alchimista nella storia dell’occidente a non essere una figura inventata, ma che la tradizione accosta addirittura a Miriam, figura biblica sorella di Mosé e del profeta Aronne) come fonte di conoscenza e sapere alchemico, sarà solo dopo il medioevo che molti scrittori si rifaranno alle fasi alchemiche prendendone in considerazione soprattutto tre, l’opera al nero o nigredo, l’opera al bianco o albedo e l’opera al rosso o rubedo (inglobando di fatto la citrinitas, ovvero l’opera al giallo, nella rubedo). Le prime due fasi conducono alla realizzazione della “Piccola Opera”, ovvero della realizzazione dei due opposti che avrebbero trovato una sintesi nel

144 P. Marshall, Un messaggio decisivo per la nostra epoca in I segreti dell'Alchimia, Ed. Mondolibri, Milano, 2001, p. 526.

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colore rosso della terza fase, vero e proprio compimento della Grande Opera. I tre colori erano spesso associati a tre uccelli, corvo, cigno e fenice. A queste tre fasi possono essere associati precisi processi chimici (la putrefazione per la nigredo, la putrificazione ottenuta per distillazione o calcinazione per l’albedo e, dopo la combustione della citrinitas, la sublimazione o fissazione della rubedo. La calcinazione consisteva nel riscaldamento ad alte temperature del mercurio fino a farne evaporare tutte le sostanze volatili, la fissazione viceversa consisteva nell’addensamento di un elemento chimico, ad esempio coagulando il mercurio nello zolfo (Mutus Liber, Basilio Valentino).

Ma il vero motivo per il quale in questa sede facciamo cenno all’alchimia è quello di ritrovare nelle antiche tradizioni una eco del lavoro fisiologico che immaginiamo essere utile all’attore per modificare la propria qualità di presenza. Continuando a mettere in parallelo il lavoro di evoluzione interiore con un’operazione materiale, si può immaginare di vedere nelle tre fasi di evoluzione dell’essere umano tre diversi stati del carbonio: dal carbone si passa al diamante e da questo al brillante. La metafora è sviluppata da Arcangelo Miranda, un ricercatore contemporaneo indipendente145, che collega il diamante grezzo alla coscienza-ego del soggetto e alla zona della testa, il carbone alla coscienza-ego alterata e alla zona del bacino e infine il brillante alla coscienza divina che corrisponde alla zona del cuore. Siccome i tre elementi sono tuti costituiti di carbonio, Miranda sottolinea attraverso questa metafora il fatto che la coscienza umana è una, ma che in un essere umano degradato (questa è, secondo Miranda la nostra attuale condizione) comporta almeno tre stati di manifestazione differenti. Quando il soggetto riuscirà a “trasformare in brillanti” le altre due coscienze facendole brillare con la forza della gnosi, allora assisteremo alla trasformazione dell’essere umano146.

Sempre seguendo le suggestioni di Miranda, occorre coordinare ed armonizzare le tre coscienze, definite i tre templi: il tempio del cuore, il tempio della testa (mente) ed il tempio del bacino (anima), in un profondo lavoro di alchimia interiore. La coscienza del bacino, che nella metafora del carbonio corrisponde al carbone, rappresenta la sede di tutte le nostre caratteristiche bipolari ed è quella che orchestra e dirige in modo subdolo e feroce le altre due coscienze. Essa è fisiologicamente orchestrata dal secondo cervello o cervello enterico: l’intestino. Quando l’intestino è alterato, esso crea una regolazione negativa delle ghiandole endocrine producendo un’alterazione energetica dell’individuo. Le ghiandole endocrine, invece di essere controllate dall’epifisi, sono controllate dall’ipofisi e dall’ipotalamo, zona del cervello nella quale sembrano essere “registrate” le emozioni negative. L’attivazione dell’asse HPA (hypotalamic-pituitary-adrenal axis), quando non assolve alle fisiologiche funzioni vitali, “intossica” l’alchimia dell’organismo, producendo a livello ipotalamico neuropeptidi che inducono il soggetto a vivere immerso nelle emozioni negative. Non è un caso, secondo Miranda, che l’avvelenamento del sangue inizi proprio per disbiosi intestinale: i batteri intestinali risentono del turbamento del plesso solare. Se al contrario il plesso solare funziona in modo corretto, il benessere psicofisico del soggetto è garantito. Viceversa, si presenteranno disturbi intestinali e del sistema nervoso enterico (terza parte del sistema nervoso autonomo, punto di contatto tra la vita emotiva e quella cosciente).

145 Immortalità e gnosi in A. M. King, A. Miranda, Life: i segreti della ghiandola pineale, Io Sono Edizioni, Milano, 2012, p. 529.

146 Cfr. Matteo 22:37 “Devi amare il tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutta la tua anima”.

86 2.3. Fisiologia della trasformazione nella tradizione giudaico-cristiana

“Per impazienza l’uomo ha perduto il paradiso, per pigrizia non vi ritorna”.

F. Kafka

La religione cristiana, con la scienza ci ha da tempo abituato a pensare l’essere umano come il vertice della creazione. L’essere umano, con le sue caratteristiche uniche in natura (posizione eretta, pollice opponibile, articolazione di un linguaggio complesso, presenza di un “terzo cervello” neocorticale, ecc.) ha indubbiamente sviluppato funzioni superiori agli altri esseri presenti sul pianeta. Ma seguendo le suggestioni di quest’ottica emanazionistica possiamo provare a spingerci oltre la logica funzionale dello sviluppo organico creazionistico ad esempio legato alla logica darwiniana di evoluzione (basata cioè su modificazioni funzionali dettate da esigenze di sopravvivenza che avrebbero nel tempo modificato la fisiologia degli animali e degli esseri umani). Questo più antico punto di vista immagina che esistano delle forze o leggi superiori alla vita organica sulla terra, forze che permeano tutti gli esseri e di cui il mondo fenomenico oggettiva la funzione. Da questa prospettiva è la vita organica a svilupparsi assecondando questa forza, causa generatrice del mondo.

Come per la tradizione egizia, anche per quella giudaico-cristiana, ogni organo, struttura, funzione o meccanismo del corpo è soltanto una manifestazione apparente, ad un certo stadio, di uno degli archetipi vitali fondamentali. Separare la manifestazione fisica dal suo archetipo significherebbe impedire a questa di comprenderlo. Per questa ragione, considerare la fisiologia del corpo umano, distinguendolo in zone ed identificarne delle funzioni (sia organiche sia di natura “spirituale”), è di fatto una forzatura. Dunque la divisione degli organi e delle parti del corpo che segue è da intendersi soltanto come funzionale ad una prima semplice comprensione di una “mappa del territorio”, che non potrà essere utilizzata se non si considererà il corpo umano come un organismo le cui funzioni organiche sono interdipendenti e ancora, inutile se non si considererà l’essere umano immerso in un sistema di relazione con tutti gli altri organismi e con l’intero mondo che lo circonda, parte integrante e “organo” di un organismo vivente che lo comprende e dal quale la propria esistenza non può prescindere.

2.3.1. Qabalah e corpo umano

Dall’albero delle sefirot allo schema corporeo. Psychê (anima) e sôma (corpo) sono da intendersi solo in virtù del loro grado di partecipazione ad una terza dimensione dell’essere. Senza questa “connessione” con una dimensione altra, queste non sono, ma esistono; il corpo in particolare non esiste se non in funzione di un miglior funzionamento, di una ricerca di un rendimento ottimale, che orientano l’individuo nel quadro della sopravvivenza. Dunque, qui si intende il corpo come un elemento della trilogia (spirito, anima, corpo) chiamata a trovare l’armonia che permetta di trasmettere e manifestare il mondo dell’alto, la pura verità. Senza questo terzo elemento, il corpo è schiavo dell’esistenza e schiacciato da questa. Il corpo può essere dunque “vissuto” (immagine del

87 corpo divino e tendente ad identificarsi con questo), o il corpo è “mantenuto” (subendo l’identificazione con la banalizzazione esteriore). Prima di procedere nel dettaglio dunque, occorre distinguere coloro i quali “sono un corpo” da quelli che “hanno un corpo”147.

La visione del corpo umano proposta da A. De Souzanelle corrisponde a quella del “corpo divino”. Dunque la sua costruzione deve obbedire allo schema ontologico delle strutture divine, ovvero l’albero delle sefirot148. Se l’albero è lo schema della costruzione del mondo, a sua immagine, il corpo umano è lo schema della costruzione nel nostro divenire. “Il corpo è ad un tempo lo strumento, il laboratorio e l’opera per raggiungere la nostra vera statura che è divina”149.

Lo schema corporeo è strutturato in un’asse centrale, la colonna vertebrale, che unisce la testa ai piedi. Nel paragone con l’albero sefirotico, i due assi laterali costituiscono rispettivamente il pilastro del rigore a sinistra e quello della misericordia a destra. Su queste strutture verticali poggiano tre triangoli, il triangolo superiore corrisponde alla testa, il triangolo rovesciato centrale si riferisce al complesso cardiaco polmonare e il terzo al plesso uro-genitale (basso ventre e pube).

Dall’albero della vita, nella simbologia ebraica (nella quale si può vedere una forte assonanza con la kundalini, alla quale la simbologia cristiana spesso fa riferimento, basti pensare al bastone del pontefice con sopra la pigna/pineale) si passa, con l’avvento del cristianesimo al “corpo glorioso”. Nelle nuove scritture si parla espressamente di “resurrezione della carne”. Il corpo di Cristo, una volta terminata la sua missione terrena si è trasformato in un “corpo di luce”. Anche i taoisti immaginano di visualizzare una perla di luce (un esempio su tutti si trova nella “meditazione della perla”). Forse quando Artaud parlava di un doppio immaginato dall’attore era suggestionato da un’immagine simile a quella che molte delle tradizioni da noi intercettate ci propongono.

2.3.2. La pratica cristiana: meditazione e preghiera

La pratica della preghiera ha molti punti di contatto con le tecniche di meditazione di derivazione orientale. La chiusura degli occhi evita che lo sguardo si posi all’esterno e automaticamente riporti la mente nella direzione automatica delle associazioni mentali. Chiudendo gli occhi e concentrando la propria attenzione sul respiro (oppure ripetendo mentalmente una preghiera o un mantra), la mente si trova costretta a evitare di rincorrere pensieri che si generano in modo automatico e a coltivare l’attenzione e l’ascolto interiore. Il ritmo cerebrale rallenta e il consumo di ossigeno si riduce drasticamente, la frequenza respiratoria si abbassa e si produce un naturale sollievo alle alterazioni generate dalle emozioni. A livello meramente neurofisiologico la preghiera (ma anche il training

147 L’identificazione è qui intesa in senso di semplice proiezione della legge ontologica di immagine e somiglianza. A. De Souzanelle, Il simbolismo del corpo umano, Triona (EN), Ed. Servitium, 2004, p. 47.

148 “L’albero delle Sefirot […] a partire dal XIV secolo è raffigurato da un diagramma dettagliato elencante I simboli fondamentali appropriati a ogni Sefirah. L’albero cosmico cresce verso il basso dalla radice, la prima Sefirah, e si estende attraverso le Sefirot che costituiscono il tronco, fino a quelle che formano i rami principali o la chioma. Questa immagine si incontra per la prima volta nel Sefer ha-Bahir”. G. Scholem, La cabala (1974), trad. it. di R. Rambelli, Roma, Edizioni Mediterranee, 1992, p. 112.

88 autogeno, la meditazione, le tecniche di rilassamento e visualizzazione), se praticata con costanza lenisce lo stress dell’individuo, calmando il suo corpo, le emozioni e la mente e rendendolo più sensibile a percezioni interiori ed esteriori.

Tra le varie pratiche di preghiera, l’esicasmo (una “corrente” della spiritualità orientale antica) può considerarsi il vero cuore del monachesimo ortodosso. Si tratta di una preghiera incessante che ha come scopo per il fedele la ricerca del perfezionamento interiore e il ricongiungimento con l’Assoluto. La storia dell’esicasmo comincia con i monaci del deserto d’Egitto e Gaza. Attraverso la pratica incessante della preghiera e la ricerca della solitudine questi monaci piangono i loro peccati e mirano a custodire e a sviluppare la propria interiorità vivendo con umiltà un silenzio esteriore e ricercando quello interiore. Proprio l’escamotage della ripetizione continua di una preghiera o di un