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Identificazione come ostacolo al “ricordarsi di sé”

Come abbiamo visto, secondo questi principi, il più grande ostacolo al “ricordarsi di sé”, che è qui inteso come la facoltà del soggetto di essere presente a se stesso “qui e ora”, con un’attenzione desta in tutti i suoi centri, è considerato l’identificazione nella propria personalità. Ogni essere umano si sviluppa immerso da relazioni e affetti e il mondo intorno a lui fatalmente lo condiziona e lo plasma secondo riti, credenze, ma anche modi di fare che diventano presto abitudini. Tutti questi eventi, accidentali ed esterni al soggetto, inevitabilmente ne alimentano il bagaglio esperienziale e ne favoriscono lo sviluppo della personalità. Secondo quanto detto non è la personalità o l’ego il “nemico” da combattere per sviluppare una nuova qualità di presenza (anche perché egli è un nemico ontologico, un doppio senza il quale svaporerebbe la stessa essenza del soggetto). Quello che si può (e si deve) fare è evitare che il soggetto si identifichi con la sua personalità.

E se a livello concettuale è per l’essere umano di oggi semplicissimo rendersi conto che la sua personalità altro non è che una maschera pirandelliana modellata “a caldo” sul proprio vero volto dal contesto sociale, dalla rete di relazioni ecc., è però molto più difficile comprenderlo profondamente, per così dire con tutto se stesso (cervello rettile, sistema limbico e neocorteccia). L’essere umano, seppur frammentato, riconosce anche inconsciamente che annientare la propria personalità equivarrebbe in una qualche misura a

199 “morire”, se non fisicamente o socialmente, almeno nell’idea che egli ha di se stesso. Questa sensazione interiore se non lo frena negli studi, lo rallenta o addirittura lo dissuade da qualsiasi pratica che preveda un annullamento della personalità. Ecco che il teatro ci permette però di identificarci non con la nostra personalità ma con quella di un altro soggetto e poi di un altro ancora, provando ad immedesimarci in sensazioni, emozioni e pensieri che “non sono i nostri” (in realtà sono nostri, ma possono essere sensazioni, emozioni e pensieri lontani dalla nostra confort zone). Facendo questo, duplicando la nostra personalità, moltiplicandola, il soggetto (l’attore) impara a relativizzarne il valore assoluto.

Se spogliarsi della personalità è difficile per ciascuno di noi proprio come risulta difficile compiere dei gesti che il nostro automa legge come contrari alla disposizione naturale alla conservazione di noi stessi e della nostra specie (digiuno, astinenza sessuale, ecc.), una pratica di immedesimazione in personalità distanti dalla nostra può, con il tempo e l’esperienza relativizzare l’immagine che noi stessi abbiamo della nostra personalità, permettendoci un iniziale parziale distacco da questa. Perché si passi da una relativizzazione della nostra personalità ad una non identificazione però questo sforzo, seppur necessario, non è sufficiente.

Per verificare davvero il completo automatismo al quale siamo assoggettati sia dal punto di vista fisico, che emotivo e mentale, occorre lavorare con un’altra tecnica attoriale: l’osservazione. Per ritrovare questa antica ed ancestrale qualità di presenza (che con estrema semplicità e levità tornano a ricordarci i bambini), dovremo spostare l’oggetto delle nostre osservazioni dal personaggio che studiamo per metterlo in scena al personaggio di noi stessi. Anche questa pratica, senz’altro già incontrata in molti libri di allenamento attoriale e di crescita personale, ha senso solo se praticata fino in fondo. Osservare se stessi in ogni momento, vedere come re-agisce il corpo sollecitato da un’agente esterno, ad esempio in una situazione di minaccia o da una sensazione che proviene dall’interno, come l’imbarazzo o la rabbia, e prenderne nota, senza tentare in alcun modo di intervenire. Soltanto osservarsi. Osservare i meccanismi di coazione a ripetere delle emozioni, i pensieri ricorrenti, le nevrosi e le psicosi che attraversano la nostra mente e la popolano impossessandosi della nostra identità.

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Prime conclusioni teoriche

Data questa prima parte di studio sulle pratiche di natura simile alla nostra che hanno preceduto la ricerca OAT non soltanto dal punto di vista del training teatrale ma, anche e soprattutto, pratiche di evoluzione interiore e di sviluppo psicofisico dell’essere umano, abbiamo potuto notare quante assonanze ci siano nelle “tecniche di allenamento interiore” proposte dalle religioni, dallo sport, dalle tecniche di rilassamento, meditazione, miglioramento di se e dalle arti performative.

In tutti questi campi, per migliorare la qualità di presenza del soggetto, sembra sia richiesto uno stato di ascolto e di a-tensione, irraggiungibile se il soggetto ha tensioni di tipo fisico, emozionale o pensieri associativi ossessionanti quali nevrosi o psicosi. Perché questa pre-condizione sia rispettata abbiamo individuato come “primo nemico” del soggetto la sua stessa personalità, ovvero tutte le false credenze che egli ha su se stesso e che gli fanno “spendere” una importante quantità di energia al solo scopo di “tenere alto il proprio status”. Questa identificazione con l’ego o la personalità è del tutto naturale e giustificata dall’importanza che l’identità ha nella nostra società (ma si potrebbe dire in tutte le società che conosciamo). Dal successo della nostra personalità non dipende soltanto il nostro personale successo ma la nostra sopravvivenza. Il bambino che vede nella mamma fonte di cibo e di affetto, presto diventa un adolescente che dipende sempre più fortemente dal giudizio di altri, dai genitori, dai maestri e professori, dagli amici, dal partner, dai datori di lavoro ecc. Quel cibo e quell’affetto che inizialmente per il soggetto erano scontati, con il tempo egli deve “imparare a procacciarseli”. È in questo modo che, in maniera più o meno consapevole, egli va formandosi una personalità al quale non solo si affeziona ma con la quale egli si identifica, come se fosse lui. Perdere questa illusione naturale e sana significa per il soggetto (o meglio soprattutto per la parte inconscia del soggetto) rischiare la vita, il suo sostentamento, i suoi affetti, ecc. Ma ecco che gli viene incontro l’escamotage del teatro. Per l’attore, che vive e si nutre dell’attenzione dello spettatore, questa richiesta di non assecondare la propria personalità sembrerebbe quanto mai assurda. Il paradosso è, in questo caso, dietro l’angolo. L’attore che, con tutto se stesso (ma se stesso chi?) si immedesima nel personaggio (anche se forse sarebbe meglio dire in un altro personaggio che non risponde al nome e alla biografia dell’attore) ha più carisma rispetto all’attore, semplicemente perché non ha bisogno di tenere alto lo status di quel personaggio, poiché artificiale e transitorio, e dunque non ha quella dispersione energetica che Benemeglio chiama “scarico tensionale” dovuta alla “paura di risultare insufficiente” agli occhi di terzi. Paradosso che gli attori hanno sempre saputo che si svela anche agli occhi dei neuroscienziati: l’attore mascherato si smaschera, ri-velato si svela nella propria potenziale essenza. Abdicando alla propria falsa personalità, vincolato da una parte (l’ultimo Stanislavskij preferisce parlare di parte piuttosto che di personaggio), giocando, l’attore, proprio come il bambino, può contattare quello stato psicofisico sciolto e naturale richiesto per iniziare l’addestramento. Egli lo può fare perché sa che, finito lo spettacolo, può abbandonare i panni di quel personaggio senza necessariamente difenderne azioni, emozioni, pensieri, scelte. Insomma, egli è forte perché sa che deve finire. Richiedere questa pre-condizione fuori dalla finzione scenica significa mettere il soggetto di fronte al problema della propria morte, pensiero scomodo che (ancora in modo del tutto naturale) egli cerca di non contattare prima che questo non diventi necessario. È proprio con la