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3.3.1. Artaud e il corpo senza organi: il concetto di doppio

Il terzo percorso pratico del novecento che vogliamo evidenziare prima di produrci in un tentativo di training psicofisico capace di soddisfare le modificazioni fisiologiche brevemente analizzate nel primo capitolo e di produrre risultati sui tre piani (fisico, emozionale e mentale), è di carattere più specificamente teatrale. Sebbene anche l’addestramento teatrale, come l’allenamento ideomotorio (che abbiamo analizzato sotto la categoria sport, quindi riconoscendo una predominanza dell’aspetto fisico sugli altri due) e le tecniche mentali di Silva e Benemeglio (analizzate sotto la categoria “psicologia e ipnosi”, dunque riconoscendone predominante il lavoro sull’aspetto razionale-mentale) sia una disciplina in grado di produrre cambiamenti nel soggetto sui tre piani, sotto la categoria “percorsi teatrali”, riporteremo una forma di addestramento il cui accento sarà sull’aspetto emozionale. Ci conforta e ci suggestiona in questa direzione la splendida definizione di attore proposta da Antonin Artaud: “l’attore è un atleta del cuore”292.

Il regno delle emozioni, sollecitate sul piano fisico da postura e abilità cinestesiche e sul piano mentale dai pensieri condizionati da autosuggestione e visualizzazione, vede come principe di questa sconfinata e feconda terra il respiro. Il respiro, essendo realizzabile sia volontariamente sia in modo inconsapevole e automatico, si può considerare un “ponte” tra la parte conscia e quella inconscia dell’individuo. L’atto respiratorio dirige e spesso determina gli stati emozionali del soggetto in questione che, se non lavora specificamente sulle proprie emozioni, sarà continuamente condizionato dal (proprio) umore come una piccola barca è governata dalle correnti in un mare in tempesta. Per questo motivo Artaud, nel paragrafo “un’atletica affettiva”, indugia molto sulla respirazione, sui punti fisici del corpo nei quali l’emozione sembra potersi “poggiare” e sulle varie fasi della respirazione: l’inspirazione (che egli considera femminile), il trattenimento (neutro) e l’espirazione (maschile).

290 A. Fersen, Critica del teatro puro, a cura di C. Tafuri e D. Beronio, Akropolis Libri-Le Mani, 2013, p. 438.

291 Alessandro Fersen, regista, autore teatrale italiano di origine polacca […]. Fondò a Roma lo “Studio di arti sceniche” per la formazione dell’attore. http://www.treccani.it/enciclopedia/alessandro-fersen/. Considereremo specialmente in questo studio il suo lavoro pratico di laboratorio e la sua “Mnemotecnica” dalla quale si origina il “Mnemodramma”.

166 Artaud focalizza la sua ricerca sull’idea di doppio: “all’organismo atletico corrisponde in lui un organismo affettivo, parallelo all’altro, quasi il suo doppio benché non operante sullo stesso piano”293. Egli paragona questo corpo virtuale dell’attore al ka

egizio. Grazie a questo corpo virtuale, esatto doppio del corpo dell’attore, il soggetto può lavorare su se stesso senza concedere un’identificazione tra “sperimentatore” (l’osservatore) ed “esperimento” (il corpo-mente dell’attore inteso come “doppio”).

L’idea di un doppio virtuale ci risulta oggi particolarmente familiare grazie inizialmente a dispositivi come la fotografia e il cinema e, più recentemente, all’universo digitale che ci permettono di vedere quanto l’intuizione di Artaud sia visionaria e profetica.

Lavorare sul “doppio” oggi non si traduce soltanto a livello pratico nella tecnica, ormai abbondantemente consolidata di atleti e uomini di spettacolo di filmare le loro performances con la telecamera durante l’atto sportivo oppure le prove ed il training e rivedersi come in un film. Lavorare sul doppio significa indagare, nel modo più imparziale possibile, la nostra identità e rilevarne l’estrema frammentazione. Questa frammentazione porta ad un inevitabile cambio di prospettiva sull’idea che il soggetto ha di se stesso; da questo nuovo orizzonte ottico, le scelte che l’individuo può decidere di compiere sono sostanzialmente due, opposte tra loro.

La prima, maggiormente auspicabile, consiste nel seguire la suggestione dei grandi maestri del novecento impegnandosi nella realizzazione di un addestramento psicofisico che raccolga con pazienza e con amore i frammenti della nostra personalità, orientandoli in un’unica direzione in modo organico (più precisamente cercando di “ascoltare” il piano fisico-motorio, il piano emozionale e il piano mentale, volgendo le nostre azioni nella direzione di un “fare” che veda l’aspetto conscio e quello inconscio cooperare per la realizzazione del nostro obiettivo). Una scelta che, attraverso la suggestione del doppio, restaura, riorganizza e rinnova la funzionalità organica originale del soggetto. La seconda, meno auspicabile ma più facilmente realizzabile perché più “comoda” (anche se a nostro parere falsata da un grave strabismo mentale) prevede una lenta ma implacabile immedesimazione del soggetto con il proprio doppio virtuale (in qualsiasi forma questa identità virtuale si materializzi, attraverso social network come facebook, giochi come second life, oppure strumenti di addestramento come simulatori ecc.). Questa seconda possibilità prevede nell’individuo un sempre maggiore “scollamento” del piano fisico, di quello emozionale e di quello mentale. Questi, senza uno sforzo cosciente, potrebbe diventare incapace di reagire di fronte ad input contrastanti, “volendo” (o meglio decidendo razionalmente) una cosa e facendone un’altra (ovvero alimentando la separazione tra la sua parte cosciente, sempre più addormentata e il suo inconscio, che lo guiderebbe nelle azioni quotidiane come un bambino fa con la sua auto radiocomandata). Questa sempre più evidente aporia tra ciò che l’individuo ritiene giusto fare e le sue reali azioni, potrebbe spingerlo nella direzione di un malessere psicofisico di natura depressiva. Un’identità virtuale sembra dunque apparentemente più leggera, meno ingombrante e più facile da gestire di un’identità fisica. Ma questa progressiva sostituzione del corpo fisico con un corpo virtuale, questa sempre più pigra frequentazione degli aspetti più scomodi (e dunque celati nell’inconscio) di noi stessi, potrebbe lentamente generare una condizione schizofrenica collettiva (e dunque anche difficilmente riscontrabile dagli stessi esseri

167 umani) del sistema della personalità.

Oltre alla straordinaria intuizione di Artaud, consideriamo qui tre percorsi teatrali ma in realtà “parateatrali”, se non addirittura “extrateatrali” (almeno nel caso di Gurdjieff, il cui lavoro sulle danze sacre non è che una parte del complesso e articolato “sistema” finalizzato allo sviluppo armonico dell’individuo294), che smarginano i limiti del teatro e della danza, lavorando per uno sviluppo organico dell’attore (e dell’individuo in generale). La nostra attenzione si è focalizzata su queste tre grandi figure del secolo scorso, perché riteniamo siano quelle che più si sono dedicate alla creazione di un possibile “sistema psicofisico” che si avvicina alla nostra idea di training per l’attore organico. In ognuna di queste visioni si tiene conto della dialettica “compassione-repulsione” che abbiamo individuato in Aristotele e, più in generale, in tutta l’indagine sviluppata nella cultura occidentale intorno al concetto di presenza. Queste indagini partono da un concetto dualistico dell’esistenza umana dal quale tentano di svincolarsi con l’inserimento di una terza forza, alternativa a questa gabbia del ragionamento duale (o vero o falso).

Il cervello non è responsabile di quello che facciamo più di quanto non lo sia un surfista dell’onda che cavalca. Il cervello, il corpo e il mondo formano un processo di interazione dinamica. E’ qui che ritroviamo noi stessi295.

Il primo dei maestri di cui analizziamo il lavoro è Jerzy Grotowski.

3.3.2. Grotowski: apoteosi e derisione

Patrono mitologico del teatro indiano antico era Shiva, il Danzatore Cosmico che danzando “genera tutto ciò che è e tutto ciò che è distruggerà”; colui che “danza la totalità” [...] Shiva, nei racconti mitologici, appare come creatore degli opposti. Nelle sculture antiche veniva rappresentato con gli occhi socchiusi, appena sorridente; il suo volto portava l’impronta di chi conosce la relatività delle cose [...]. Se dovessi definire le nostre ricerche sceniche con una frase, con un termine, mi riferirei al mito della Danza di Shiva; direi: “giochiamo a Shiva”. C’è in questo un tentativo di assorbire la realtà come da tutti i suoi lati, nella molteplicità dei suoi aspetti, e contemporaneamente un rimanere come all’esterno, in lontananza, a distanza estrema. In altre parole, la danza della forma, il pulsare della forma, la fluida, rifrangente molteplicità delle convenzioni teatrali, degli stili, delle tradizioni della recitazione; la costruzione degli opposti: del gioco intellettuale nella spontaneità, della serietà nel grottesco, della derisione nel dolore; la danza della forma che spezza qualsiasi teatro di illusione, qualsiasi “verosimiglianza con la vita”, ma nel contempo nutre l’ambizione (evidentemente inappagata) di racchiudere in sé, di assorbire, di abbracciare la totalità, la totalità del destino umano, e attraverso ciò, la totalità della “realtà in generale”; e nello stesso tempo mantenere gli occhi socchiusi, un lieve sorriso, la distanza, la conoscenza della relatività delle cose [...]. Il teatro indiano antico, come quello giapponese antico e l’ellenico, era un rituale che identificava in sé la danza, la pantomima, la recitazione. Lo spettacolo non era “rappresentazione” della realtà (costruzione dell’illusione), ma “danzare” la realtà (una costruzione artificiale, qualcosa come una “visione ritmica” rivolta alla realtà). La danza mimica nella liturgia dei Pàsupata (una setta shivaista) era uno dei sei principali atti rituali [...]. La citazione mitologica: “Shiva dice: Senza nome sono, senza forma e senza azione [...]. Io sono pulsare, movimento e ritmo...” (Shiva-Gita)296.

294 Al lavoro di Gurdjieff abbiamo preferito dedicare un paragrafo a parte: I, 3.4.

295 Alva Noe, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2010, p. 99.

296 Jerzy Grotowski Giochiamo a Shiva Postilla a una certa pratica. Questa citazione è tratta da un frammento di testo allegato alla tesi di diploma in regia di Grotowski; dall’archivio della Scuola Teatrale Superiore di Stato di Cracovia, 1960; secondo Zbigniew Osinski, G rotow ski w ytycza

168 Questa identificazione dello spirito divino nel “pulsare, movimento e ritmo”, restituisce in modo forte e preciso, attraverso un sistema di immagini, quello che, all’inizio di questo studio abbiamo definito “energia”. Si tratta di un tessuto invisibile, di un campo di forza differente dall’elettromagnetismo, dalla gravità ecc., che pure esiste ed è alimentato dalle nostre intenzioni al quale, seppure con termini differenti, molti maestri del teatro fanno riferimento e sul quale si “appoggia”, la presenza dell’attore-danzatore. Questa rete di intenzioni, emozioni e di attenzione che gli esseri umani intrecciano tra di loro (non solo in situazione di relazione) è una rete organica che sostiene il corpo scenico, che con i suoi impulsi di “stimolo” e “rilascio”, “abita” e “danza” la struttura, per così dire, “gioca”.

Anche nel caso del frammento sopra riportato allegato alla tesi di diploma in regia di Grotowski, si può rintracciare questa danza degli opposti. Shiva è il danzatore cosmico (la terza forza) che danzando fa nascere tutto e tutto distrugge in un’eterna pulsazione della forma.

Grotowski inizia a porre le basi di quello che sarà una dialettica degli opposti, di “derisione e di apoteosi”297, una danza della forma che distrugge ogni verosimiglianza con la vita. La realtà è continuamente reinventata e bruciata. Il teatro è immaginato dunque non come una “presentazione della realtà” ma, al contrario, come “una danza della realtà”. In questa pulsazione, in questo eterno e incessante movimento sta il segreto del teatro: teatro inteso come evocazione e non rappresentazione di un’energia di altra natura, teatro inteso in modo fermo e definitivo come “rito”.

Fondando, nel 1959, ad Opole (piccola cittadina della Polonia sud-occidentale) il Teatro Laboratorio, Grotowski ha incarnato in un piccolo gruppo di attori la ricerca che lo ha condotto nella direzione di un “teatro povero”. Il “teatro povero” definisce una volta per sempre, non una tecnica attoriale, un insieme di pratiche volte ad accumulare una sorta di “bagaglio tecnico” l’attore ma, al contrario, una “via negativa”, attraverso la quale avviene una maturazione dell’attore “…che è espressa da una tensione verso l’assoluto, da una denudazione completa, dall’estrinsecazione degli strati più intimi del proprio essere e tutto questo senza la benché minima traccia di egotismo o di auto-compiacimento. L’attore fa dono totale di sé. Questa è la tecnica della ‘trance’ e dell’integrazione delle energie psichiche e fisiche dell’attore che, emergendo dagli strati più intimi del suo essere e del suo istinto scaturiscono in una specie di ‘transluminazione’. Nel nostro teatro formare un attore non vuol dire insegnargli qualcosa; noi cerchiamo di eliminare le resistenze del suo organismo al suddetto processo psichico. Il risultato è l’annullamento dell’intervallo di tempo fra gli impulsi interiori e le reazioni esteriori in modo tale che l’impulso sia già una reazione esterna. L’impulso e l’azione sono contemporanei: il corpo svanisce, brucia e lo spettatore non vede che una serie di impulsi visibili. La nostra è perciò una via negativa – non una somma di perizie tecniche, ma la rimozione dei blocchi psichici”298.

Il teatro povero nasce da un’attenta riflessione sul medium teatrale che ancora una trasy, Wyd. Pusty Oblok, Warszawa, 1993; in Ludwik Flaszen, Carla Pollastrelli, Renata Molinari, a cura di, Il Teatro Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969. Testi e materiali di Jerzy Grotowski e Ludwik Flaszen. Con uno scritto di Eugenio Barba, Firenze, la casa Usher, 2007, pp. 32-33 (trad. C. Pollastrelli).

297 G. Grotowski, Per un teatro povero, Roma, Bulzoni, 1970, p. 29. 298 Ivi, p. 22-23.

169 volta definisce se stesso “per sottrazione”: alla nascita del cinema e della televisione, il teatro per ritrovare se stesso guarda, con Grotowski, a tutto quello che peculiarità del teatro non è, o meglio, per ritrovare la propria essenza, si spoglia di tutto quello di cui può fare a meno.

Eliminando gradualmente tutto ciò che si dimostrava superfluo, scoprimmo che il teatro può esistere senza cerone, senza costumi e scenografie decorative, senza una zona separata di rappresentazione (il palcoscenico), senza effetti sonori e di luci, ecc. Non può invece esistere senza un rapporto diretto e palpabile, una comunione di vita fra l’attore e lo spettatore. Questa [concezione] si oppone alla concezione del teatro come sintesi di discipline creative disparate – letteratura, scultura, pittura, architettura, arte dell’illuminazione, recitazione (sotto la direzione di un regista). Questo teatro ‘sintetico’ è il teatro contemporaneo, che definiremo subito il ‘Teatro Ricco’ – ricco di difetti299.

Grotowski non “fa sconti” a se stesso e ai suoi: come in una pratica esicasta egli spoglia il lavoro del superfluo e si focalizza sull’essenza della ricerca teatrale: il rapporto fra l’attore e lo spettatore. Con lo studio che ci ha avvicinato all’energia di presenza abbiamo constatato quanto sia “falso” attribuire “carisma” o “presenza scenica” ad un attore: il suo carisma e la sua presenza sono e saranno sempre direttamente proporzionali alla qualità del rapporto che egli riesce a determinare con lo spettatore. L’unico “merito” (se così si può definire) dell’attore è quello di lavorare in laboratorio per prepararsi a questa “comunione con lo spettatore”, sciogliendo le proprie tensioni fisiche, emotive e mentali, abbandonando il perpetrare continuo e automatico di schemi, praticando un incessante ascolto di se stesso e degli altri in uno stato sciolto e rilassato, di a-tensione. Gesti e parole che lo abiteranno, in una parola, il personaggio, si “incarnerà” naturalmente nel corpo dell’attore se questo, per così dire, “gli ha fatto spazio”.

Vi è qualcosa di incomparabilmente intimo e fruttuoso nel lavoro che svolgo con l’attore che mi è affidato. Egli deve essere attento, confidente e libero, poiché il nostro lavoro consiste nell’esplorazione delle sue possibilità estreme. La sua evoluzione è seguita con attenzione, stupore e desiderio di collaborazione: la mia evoluzione è proiettata in lui, o meglio, è scoperta in lui, e la nostra comune evoluzione diventa rivelazione. Questo non vuol dire formare un allievo, ma semplicemente aprirsi ad un altro essere rendendo possibile il fenomeno di una “nascita condivisa o doppia”. L’attore nasce di nuovo – non solo come attore ma come uomo – e con lui io rinasco. È un modo goffo di esprimerlo ma quello che si ottiene è l’accettazione totale di un essere umano da parte di un altro300.

Questa pratica di “comunicazione totale” tra attore e spettatore (nel caso specifico anche e soprattutto tra attore e regista: Cieslak-Grotowsky) che permette ad entrambi una “rinascita” o “una seconda nascita” nella totale accettazione e nel totale abbandono all’altro prevede – come ovvio contraltare – una continua e rigorosa osservazione su se stessi, che si potrebbe definire una tecnica di “controllo”301. Quella che è considerata una

caratteristica delle produzioni teatrali grotowskiane, “variamente definita ‘collisione con le radici’, ‘dialettica di derisione e apoteosi’, o anche ‘religione espressa attraverso la bestemmia’; ‘amore che si esprime attraverso l’odio’”302, è riconducibile alle “tecniche di abbandono e controllo” proposte da Alessandro Fersen.

299 Ivi, p. 25.

300 Ivi, p. 32.

301 La parola “controllo” rimanda subito a un’idea di rigidità fisica, emotiva e intellettuale: per controllo vogliamo qui intendere un’osservazione di se che parte da un corpo-mente completamente sciolto e rilassato, privo di tensione.

170 3.3.3. Fersen: abbandono e controllo

Il secondo personaggio di cui ci occupiamo è Alessandro Fersen, e specificamente analizziamo il lavoro sull’attore da lui definito mnemodramma.

La mia vita teatrale si è sempre svolta sotto il segno di un Interrogativo: che metto in maiuscolo a contenere in esso questo incessante proliferare, ad ogni rara risposta, di interrogativi ulteriori. Interrogarsi è cercare: il mio Laboratorio è nato nel 1957303.

La straordinaria eco che Fersen riverbera sulla ricerca teatrale contemporanea (che in realtà a nostro parere sembra non dare il giusto peso alle indagini teoriche e pratiche di questo fondamentale ricercatore del secolo scorso) è il frutto del suo continuo interrogarsi come uomo e come artista, della sua irrequietezza intellettuale che lo “costringe” ad un moto perpetuo che lo vede passare dalla ricerca filosofica (l’origine del suo percorso si può individuare nell’Universo come giuoco, la sua tesi di laurea in filosofia), alla storia delle religioni, alla psicanalisi, all’antropologia e, naturalmente, al teatro (da quello classico e “stabile” alla più fertile, ma “settaria” ricerca nel suo atelier romano che lo condurrà a concepire il mnemodramma).

La sua indagine teatrale, il suo sistema di pensiero filosofico, il suo ragionamento antropologico, si fonda sempre sull’analisi dei rapporti che regolano e ricongiungono le dualità: sostanza e pensiero, corporeo e incorporeo, forma e contenuto, derivano sempre, nel pensiero ferseniano, da una matrice originale comune.

Il suo tentativo di ricongiungere la dualità in questo ritorno all’origine è presente fin nelle prime riflessioni giovanili di “Universo come Giuoco”:

in verità, vi è forma e forma: vi è la contingente manifestazione della vita, in cui la forma è la vita stessa, è la manifestazione stessa, la vita è quella manifestazione, cioè quella forma. Questa non può ancora chiamarsi forma, la forma qui non esiste. Quando invece si costituisce una forma estranea alla singola manifestazione della vita e che pure le si impone, la incanala, la cristallizza – allora nasce la vera micidiale forma, che uccide la vita e non le è affatto connaturata304.

Ritrovare questa forma potrebbe essere il compito dell’individuo, sperimentando quella “gioia oceanica”305 folle e tremenda, splendente e terribile, allo stesso tempo vita e dolore, che è ormai sopita nell’essere umano. Secondo Fersen occorre tracciare una fisiologia dell’evento attraverso il quale questa gioia si può manifestare, emergere, trovare spazio.

Un invasato, un poeta è il vero filosofo e la sua vita è gonfia di questa grandiosa esperienza che abbraccia tutte le cose. Il filosofo è fiero e insieme soffre di questa sua ricchezza, di questa fiumana di intuizioni che lo fanno tremare e fremere. Tale è un pensatore primitivo306.

303 A. Fersen, Conoscenza del teatro, in G. Polacco (a cura di), La dimensione perduta. Alessandro Fersen 1957-1978. Ventun anni di Laboratorio Teatrale, STET, Roma, s. d.

304 A. Fersen, Universo come giuoco (1935), a cura di C. Tafuri e D. Beronio, Akropolis Libri-Le Mani, Genova, 2012, cit., p. 187.

305 Cfr. ivi, p. 204-213. 306 Ivi, p. 189.

171 Nelle parole di Fersen si legge spesso la necessità di concretizzare una personale Weltenshung e il bisogno di ritrovare “un senso” del fare teatro moderno che, se non si abbevera a questa fonte primigenia, prede tutto il suo significato. Da questo fermento interiore prende vita la ricerca dello Studio Fersen307 sul corpo e sulla psiche dell’attore, la cui più alta elaborazione è rappresentata dal mnemodramma.

Il mnemodramma non è qui considerato soltanto come punto di arrivo di un lungo e complesso lavoro sull’attore, ma può essere utilizzato come uno strumento euristico per l’elaborazione di una nuova fisiologia dell’evento teatrale. Questa tecnica è strettamente