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Alcune definizioni della gioventù

LO STILE DIALOGICO DI PAPA FRANCESCO

LA CONDIZIONE DELLE NUOVE GENERAZIONI In margine a “Christus vivit”

1. I NUOVI GIOVANI

1.1. Alcune definizioni della gioventù

È da premettere che non esiste “la gioventù”, ma esistono “le gioventù”, anzi “i giovani”. Di gioventù si deve parlare al plurale dal punto di vista diacronico e sincronico; ci sono infatti tanti modi di essere giovani; non solo: sotto questa etichetta dobbiamo compren-dere “ragazzi” in diverse fasi dell’età evolutiva, cioè dall’adolescenza alla giovinezza, e va sottolineato che oggi siamo in presenza di una anticipazione e di una dilazione di queste fasi. Si può allora dire che la modernità ha prodotto la “scoperta dell’infanzia” e la “invenzione dell’adolescenza”, e la ipermodernità ha enfatizzato l’una e l’altra sul piano cronologico e su quello assiologico, per cui si sono spostati in avanti i confini dell’una e dell’altra e si è accresciuto il valore ad esse attribuito; il che va a scapito dell’adultità, la quale si va restringendo non solo in termini temporali, ma anche valoriali, così che la platea di coloro che interpellano (cioè i giovani) è sempre più estesa, e quel-la di chi è interpelquel-lato (cioè gli adulti) è sempre più limitata e anche sempre meno autorevole.

Detto questo, è da aggiungere che risale a vent’anni orsono, la denominazione dei giovani come “generazione invisibile”: era il titolo di una “inchiesta sui giovani del nostro tempo” (quelli del decennio di fine secolo) pubblicata a cura di Ilvo Diamanti (“Il sole / 24 ore”, 1999). Altra definizione potrebbe essere quella di generazione afona, ma il suo silenzio risulta assordante. Comunque sia, rimane il fatto

– come ha scritto Raniero La Valle in Lettere in bottiglia (Gabrielli, 2019 – che “non era mai successo che ai giovani fosse perfino im-possibile immaginare il futuro,” tanto che si parla drasticamente di

“generazione senza”, per dire senza lavoro, senza casa, senza politica, in una parola senza futuro: così Umberto Galimberti nel suo libro La parola ai giovani pubblicato da Feltrinelli nel 2018 a distanza di dieci anni dal volume L’ospite inquietante su “il nichilismo e i giova-ni”. Secondo questo filosofo, al “nichilismo passivo” si va sostituen-do un “nichilismo attivo” che tuttavia non cambia oggettivamente la situazione dei giovani, denominati anche “NEET” (l’acronimo coniato nel 1999), per indicare l’alta percentuale dei giovani che non studiano e non lavorano (detti anche per questo i “né né”). La gravità della cosa appare con particolare evidenza in quanto “l’attività lavo-rativa (sottolinea Galimberti, ma non solo lui) è diventata l’unico indicatore di riconoscibilità sociale”.

Al tema ha dedicato recentemente pagine importanti don Luigi Ciotti, il quale nel libro Per un nuovo umanesimo (Solferino, 2019) invita a prendere coscienza dei mali che ci affliggono al presente: “i mali di cui soffriamo sono sotto gli occhi di tutti, ma sono occhi spesso distratti, rassegnati o persino complici” (p. 30), e il fondatore di “Gruppo Abele” e dell’Associazione “Libera” richiama l’attenzio-ne su “l’esclusiol’attenzio-ne dei giovani dal mondo del lavoro” che non esita a definire “il grande scandalo di questo tempo. Un segno di egoismo ma anche di ottusità, perché un Paese che non punta sui giovani è un paese che sbarra la strada al proprio futuro.” Soprattutto da don Ciotti viene la richiesta a non limitarsi a censurare i loro “compor-tamenti intollerabili”, ma piuttosto a “riflettere sulle nostre respon-sabilità” per tanti “drammi interiori di tanti ragazzi”, e don Ciotti parla della “loro angoscia di non essere accettati e riconosciuti dalla

‘società dell’io’, di non rivelarsi all’altezza di obiettivi ossessivamente proposti come prioritari: la bella apparenza, la ricchezza, il successo”.

Da qui l’imperativo di cui Ciotti si fa portavoce: “dobbiamo interrogarci sul malessere giovanile, sulle forme sommesse o gridate

in cui si esprime, e chiederci se non sia anche frutto di un vero e proprio tracollo educativo e culturale. Chiederci se a scatenare queste forme di violenza e di rifiuto non sia un’ansia di protagonismo fru-strata e non indirizzata”. Dunque, un protagonismo negativo sembra affermarsi, quasi che solo in questo modo i giovani riescano a farsi vedere e sentire dal mondo adulto, che pretende di padroneggiare tali situazioni deprecandole con facile moralismo o pretendendo di spiegarle e risolvere autoritariamente; atteggiamenti, questi, che in-vece finiscono per incentivare quei fenomeni.

Tuttavia è da aggiungere che è presente anche un protagonismo positivo, quello dei “tanti giovani che anche grazie a realtà che han-no saputo accoglierli, accompagnarli e valorizzarli – si stanhan-no im-pegnando a costruire una società più giusta e più umana”(p. 32);

questi giovani testimoniano che è possibile per i giovani imboccare strade alternative a disagio, devianza e dipendenza: quindi, accanto ai giovani delle tre “d”, occorre segnalare quelli delle tre “c“, perché sono animati da creatività, criticità e coraggio. E non occorre dire che, se questi giovani andrebbero valorizzati, quegli altri andrebbero compresi e aiutati, senza cedere ad alcuna forma di manicheismo.

Dunque, una generazione – quella dei giovani di oggi – dai mol-teplici volti, tra cui marginalità e protagonismo, protagonismo in-dividuale e collettivo, protagonismo positivo e negativo, fino alle espressioni movimentiste che in questi giorni hanno rivelato nuo-vi volti; pensiamo al recente “monuo-vimento di Greta” (cosi detto dal nome della sedicenne che ha promosso manifestazioni di piazza sulla questione climatica) che ha reso i giovani (addirittura i ragazzi e gli adolescenti) presenti e vocianti: le loro manifestazioni esprimono risentimento, rifiuto e rivendicazione; così come altri movimenti chiedono il superamento di un clima sociale e politico inquinato da odio, intolleranza, esclusione. Questo quadro variegato e dinamico induce a parlare di generazione in trasformazione, per evitare rigide classificazioni e improprie etichette.