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Alcuni princìpi ispiratori

LO STILE DIALOGICO DI PAPA FRANCESCO

2. Alcuni princìpi ispiratori

Dunque, tutto l’impegno di papa Francesco è ispirato al principio dialogico, che non è solo teorizzato ma praticato nei molteplici campi di applicazione e nelle molteplici modalità metodologiche con uno stile che ne rinnova la ragione e la funzione, tanto da configurarlo come luogo privilegiato per coltivare l’umano nelle sue relazioni:

con la natura e nella società, nella famiglia e tra le generazioni. In-fatti, il dialogo, per il carattere paritetico che riconosce ai dialoganti, si alimenta di rispetto reciproco e mira a una vicendevole crescita, per cui si configura come lo stile di vita proprio di chi vive la “fratellan-za/sorellanza” o “fraternità/sororità” quale relazione paradigmatica, che nella orizzontalità esprime al meglio l’umanità dell’uomo e nella verticalità apre alla paternità/maternità (non si può essere fratelli se non si è figli).

Così, per un verso, la parabola del “padre misericordioso” e dei suoi due figli, e, per altro verso, la parabola del “samaritano miseri-cordioso” e dello sconosciuto bisognoso di aiuto sintetizzano effica-cemente il senso di una fraternità/sororità che ha carattere universale.

La novità maggiore sta nel fatto che essa non è chiusa dentro un perimetro confessionale o nazionale, classista o lobbista, razziale o tribale, ma è aperta e inclusiva: si fonda su un’idea di umanità che segnala, oltre l’appartenenza biologica, anche e soprattutto la valen-za assiologica: l’umanità cui papa Francesco richiama non ha una connotazione autosufficiente o autoreferenziale, ma si colloca in un tessuto cosmico, entro cui si caratterizza tanto per la specificazione identitaria, quanto per la connessione relazionale.

A questo punto, torna opportuno sottolineare il fatto che la mo-dernità e la postmomo-dernità – processi ricchi di acquisizioni storiche e irrinunciabili – si sono inceppate in alcuni loro percorsi valoriali;

forse può aiutare a fuoriuscire dalla odierna situazione di crisi quel

“principio/misericordia” cui non si stanca di richiamare papa Fran-cesco, il quale (ecco il punto che mi preme sottolineare) ne dà una lettura non solo religiosa, ma anche sociale; in tal modo si rende

possibile ripartire dai valori che, radicati nel vangelo, sono stati seco-larizzati dall’età moderna nei suoi diversi momenti (prima e seconda modernità) o condizioni (condizione moderna e postmoderna).

Infatti, alcune emblematiche triadi assiologiche – come “libertà, eguaglianza, fraternità” o “solidarietà, rispetto, solidarietà” o “plura-lismo, dialogo, pace” – esprimono chiaramente la positività almeno programmatica dell’età moderna (che non a caso è stata definita “l’e-tà dei diritti” da Norberto Bobbio e, per lo stesso motivo, “e“l’e-tà por-tentosa” da Italo Mancini) e tuttavia è da rilevare che i valori apicali di ciascuna triade (cioè la eguaglianza, la solidarietà e la pace) non sono stati realizzati concretamente: la fraternità è stato un princi-pio trascurato quando non strumentalizzato in modo escludente, la solidarietà è stato un principio disatteso quando non frainteso con l’assistenzialismo, la pace è stato un principio deriso quando non confuso con l’irenismo.

Invece i tre principi avrebbero bisogno di essere concepiti come principi vitali, per cui la fraternità è chiamata a conciliare libertà e uguaglianza, la solidarietà è chiamata a concretizzare tolleranza e ri-spetto, e la pace è chiamata a coniugare insieme pluralismo e dialogo.

Ciò non è avvenuto e i tre percorsi dell’età moderna hanno porta-to alla “dialettica della modernità” e, per la “eterogenesi dei fini”, è accaduto che la fraternità, la solidarietà e la pace abbiano finito col diventare principi ispiratori di pratiche divisive, in quanto identifica-tive di alcuni e non di altri, cioè includenti alcuni ed escludenti altri.

Ciò che appare mancante in tutti e tre i casi è il “principio uma-nità”, inteso non solo come indicazione di appartenenza alla specie umana, ma soprattutto come una valenza di comportamento umano e umanitario; è mancata, cioè, la connotazione effettivamente uni-versale dei tre ideali, per cui la fratellanza deve riguardare non solo gli appartenenti a un gruppo (definito per religione, patria, classe, ecc.) ma tutti gli uomini; la solidarietà deve esercitarsi non solo con gli amici ma anche con gli estranei; la pace deve essere perseguita non solo tra soci ma anche tra avversari.

In tutti i casi ai tre ideali va riconosciuta una portata addirittura cosmica, cioè di condivisione con tutti gli esseri, per cui il “principio umanità” va iscritto nel più ampio “principio creaturalità”, che porta a nutrire (francescanamente) sentimenti di condivisione con tutte le creature; in tale contesto si supera lo “specismo” senza rinunciare alla specificità umana, rivendicando la quale non si cede al naturalismo o all’ecologismo, bensì si legittima la “cura della casa comune”.

Insomma fraternità, solidarietà e pace riguardano gli uomini tutti, che sono “tutti fratelli e sorelle”, al di là delle loro differenti conno-tazioni etniche ed etiche, culturali e cultuali, anzi riguardano tutti gli esseri, perché tutte le creature costituiscono un’unica famiglia, nell’ambito della quale si colloca la famiglia umana, e quindi nella unità ontologica del creato va posta la “eccezione” antropologica, e, insieme con essa, la “mission” ecologica dell’uomo nei confronti della creazione.

Ciò comporta il superamento di due atteggiamenti: per un verso l’imperialismo dello “specismo” umano che strumentalizza il creato, e per altro verso il dissolvimento umano nel “biologismo”, appiattito sulla sola dimensione naturalistica; rifiutando queste due imposta-zioni è possibile salvaguardare la “specificità” umana, la quale com-porta non che tutti gli esseri siano in funzione dell’uomo, ma che l’uomo sia chiamato a interessarsi di tutti gli esseri, cioè ad avere cura del creato che gli è stato affidato, per rispondere al duplice grido:

della terra ferita e degli ultimi esclusi, e per tessere rinnovati rapporti familiari e intergenerazionali.

È peraltro da riconoscere che pure in passato i principi di frater-nità, umanità e creaturalità erano stati invocati, senza però sortire gli effetti sperati; affinché possano effettivamente funzionare debbono allora essere rinnovati con un principio che finora è stato emargina-to dalla società e confinaemargina-to nell’ambiemargina-to religioso (e anche qui non sempre valorizzato adeguatamente, almeno a livello motivazionale):

è il “principio misericordia”, da intendere come consapevolezza della miseria di ciascuno e come capacità di dare e ricevere compassione e

conforto da parte di tutti. Se la misericordia acquista tale significato umano oltre che divino, sociale oltre che personale, la misericordia può essere considerata una carta finora non giocata, e su cui invece puntare.

È, questo, l’invito che viene da papa Francesco, il quale non si stanca di richiamare la miseria che caratterizza la condizione umana in generale e che può accentuarsi in determinate situazioni (di pa-tologia, di povertà…) e di richiamare la misericordia non solo come proprietà di Dio, ma anche come possibilità dell’uomo, che è quindi chiamato a esercitare la misericordia o a beneficarne, cioè ad essere

“misericordioso” e “misericordiato”. Tanto la miseria quanto la mise-ricordia – nella loro portata universale – evidenziano che la persona è fragile e preziosa nello stesso tempo.

In tal modo, la misericordia – intesa come capacità di avere a cuore il misero, essere nel cuore del misero – si configura sia come attitudine connaturata visceralmente all’uomo, sia come virtù acquisita razio-nalmente dall’uomo; in breve, la misericordia è la capacità di “farsi misero col misero” e si traduce concretamente nel “farsi prossimo”, per cui, evangelicamente, non si tratta di individuare astrattamente il prossimo, ma di diventare concretamente prossimo. Così l’uomo esprime il senso più alto della sua umanità, e fa una esperienza che ne accresce l’umanità; la misericordia si configura allora come un efficace fattore di umanizzazione che tiene conto tanto della fragilità dell’uomo legata alla sua creaturalità (o finitezza), quanto della pre-ziosità dell’uomo conseguente alla sua dignità (trascendente).

Si potrebbero quindi assumere come “idealtipi” due atteggiamen-ti: quello maramaldesco della tradizione storica e quello samaritano del racconto evangelico, e dire che ancora una volta l’uomo si trova di fronte a un bivio tra violenza e nonviolenza, crudeltà e compassio-ne, iniquità e cura, ma avvertendo che non si tratta di una differenza antropologica (tra buoni e cattivi), perché (parafrasando l’afferma-zione di uno scrittore svizzero) potremmo dire che in ognuno di noi sonnecchia un piccolo “Maramaldo” e, quindi, occorre evitare che si

risvegli. Da qui l’imperativo di umanizzare l’uomo, di coltivare certe virtù deboli che però non sono dei deboli, di incentivare certi atteg-giamenti che nella quotidianità siano ispirati a fratellanza, umanità, creaturalità, misericordia e prossimità: tutte categorie evangeliche che papa Francesco rinnova nel modo di porgerle e testimoniarle.