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Vocazione e missione

LO STILE DIALOGICO DI PAPA FRANCESCO

LA CONDIZIONE DELLE NUOVE GENERAZIONI In margine a “Christus vivit”

2. INTERROGARSI SUI GIOVANI 1. I giovani al centro

2.5. Vocazione e missione

Vocazione e missione costituiscono una coppia di parole su cui tutti dovrebbero riflettere per vivere in modo autentico la propria vita; occorre aggiungere, però, che sono parole con una molte-plicità di significati in rapporto ai campi di applicazione, tra cui quello religioso risulta prevalente, tant’è che, in genere, si parla di vocazione in riferimento agli ecclesiastici e si parla di missione in riferimento ai credenti; eppure, senza far torto a questi significa-ti, non bisogna dimenticare che le due parole hanno una valen-za più ampiamente esistenziale, e quindi a carattere universale.

Pertanto appare necessario riappropriarci sia della vocazione, come chiamata a cui tutti sono tenuti a rispondere con la costruzione della propria personalità, sia della missione come compito cui tutti sono chiamati ma ciascuno assolvendolo secondo l’orientamento dato alla propria vita. Si può pertanto dire che, dal punto di vista esistenziale, ciascuno ha una sua missione conseguente alla sua vocazione, e dal punto di vista cristiano ciascuno è impegnato a dare testimonianza della propria fede (missione) e lo deve fare secondo la scelta dello stato di vita scelto (vocazione).

Ebbene, anche il Documento finale del Sinodo sui giovani ha “rico-nosciuto il carattere analogico del termine vocazione e le molte dimen-sioni che connotano la realtà che designa. Questo conduce, di volta in volta, a mettere in evidenza singoli aspetti, con prospettive che non sempre hanno saputo salvaguardare con pari equilibrio la complessità dell’insieme. Per cogliere in profondità il mistero della vocazione che trova in Dio la sua origine ultima, siamo dunque chiamati a purifica-re il nostro immaginario e il nostro linguaggio purifica-religioso”, ppurifica-recisando che “l’intreccio tra la scelta divina e la libertà umana, in particola-re, va pensato fuori da ogni determinismo e da ogni estrinsecismo”.

Usando una metafora efficace, i Padri sinodali hanno affermato che “la vocazione non è né un copione già scritto che l’essere uma-no dovrebbe semplicemente recitare né un’improvvisazione teatrale senza traccia”; è invece “il segreto più bello e prezioso della nostra libertà” ed esclude che “essa sia determinata dal destino o frutto del caso, come anche che sia un bene privato da gestire in proprio. Se nel primo caso non c’è vocazione perché non c’è il riconoscimento di una destinazione degna dell’esistenza, nel secondo un essere umano pensato senza legami diventa senza vocazione”.

Per questo appare sempre più necessario che si sviluppi una sen-sibilità e una cultura vocazionali a diversi livelli: individuale, sociale ed ecclesiale, in modo da rendere avvertiti che la vita è vocazione e le vocazioni sono diverse e che, in ogni caso, non si deve essere “dimis-sionari”, bensì “mis“dimis-sionari”, per dire che la vocazione comune

(uma-na o religiosa) e le vocazioni particolari (professio(uma-nali e relazio(uma-nali) hanno bisogno di tradursi in un impegno quotidiano: è la missione a trasformare l’ordinario in straordinario, scoprendo il senso della vita o attribuendo un senso alla vita.

Se è vero che vocazione e missione riguardano ogni persona, è altrettanto vero che esse riguardano in modo specifico i giovani, ne costituiscono una peculiarità, oggi ostacolata da quella che il Sinodo chiama “colonizzazione” culturale o ideologica, che tende al cosid-detto “pensiero unico”, le cui conseguenze sono paradossali, in quan-to produce per un verso omologazione e uniformità, e per altro verso individualismo e narcisismo.

Il risultato è un “egocentrismo”, che è stato denominato “egocra-zia”, “egolatria”, “egolandia”, termini diversi che dicono qualcosa che deve preoccupare, dal momento che mal si concilia con il pluralismo e la differenziazione del nostro tempo, sempre più caratterizzato dal-le società multietniche e multietiche, multiculturali e multicultuali.

Pertanto il problema è quello di trasformare questa molteplicità in una interazione, caratterizzata da identità in dialogo sia in senso sociale (interculturale e interreligioso), sia in senso individuale (in-terpersonale e intergenerazionale), in modo da rendere possibile una convivenza civile all’insegna della reciproca comprensione e della concreta cooperazione.

Di fronte al “pluralismo culturale e religioso (che) è una realtà crescente nella vita sociale dei giovani”, il Sinodo ritiene che “i gio-vani cristiani offrono una bella testimonianza del Vangelo quando vivono la loro fede in un modo che trasforma la loro vita e le loro azioni quotidiane”. Da qui l’invito “ad aprirsi ai giovani di altre tra-dizioni religiose e spirituali, a mantenere con loro rapporti autentici che favoriscano la conoscenza reciproca e guariscano dai pregiudizi e dagli stereotipi. Essi sono così i pionieri di una nuova forma di dialogo interreligioso e interculturale, che contribuisce a liberare le nostre società dall’esclusione, dall’estremismo, dal fondamentalismo e anche dalla manipolazione della religione a fini settari o populisti”.

In tal modo il Sinodo precisa (ed è precisazione importante e da sottolineare) che, “testimoni del Vangelo, questi giovani con i loro coetanei diventano promotori di una cittadinanza inclusiva della di-versità e di un impegno religioso socialmente responsabile e costrutti-vo del legame sociale e della pace”.

Dunque, i giovani cattolici sono chiamati a vivere la vocazione e la missione umane e, insieme, la vocazione e la missione cristiane.

Già ora – ricorda il Sinodo – “i giovani sono protagonisti in molte attività ecclesiali, in cui offrono generosamente il proprio servizio, in particolare con l’animazione della catechesi e della liturgia, la cura dei più piccoli, il volontariato verso i poveri. Anche movimenti, as-sociazioni e congregazioni religiose offrono ai giovani opportunità di impegno e corresponsabilità”.

Tuttavia il Sinodo fa una duplice osservazione. Anzitutto, “è con-sapevole che un numero consistente di giovani, per le ragioni più diverse, non chiedono nulla alla Chiesa perché non la ritengono significativa per la loro esistenza. Alcuni, anzi, chiedono espressa-mente di essere lasciati in pace, poiché sentono la sua presenza come fastidiosa e perfino irritante. Tale richiesta spesso non nasce da un disprezzo acritico e impulsivo, ma affonda le radici anche in ragioni serie e rispettabili: gli scandali sessuali ed economici, l’impreparazio-ne dei ministri ordinati che non sanno intercettare adeguatamente la sensibilità dei giovani, la scarsa cura nella preparazione dell’omelia e nella presentazione della Parola di Dio, il ruolo passivo assegnato ai giovani all’interno della comunità cristiana, la fatica della Chiesa di rendere ragione delle proprie posizioni dottrinali ed etiche di fronte alla società contemporanea”.

Inoltre, il Sinodo riconosce pure che, “talvolta la disponibilità dei giovani incontra un certo autoritarismo e sfiducia di adulti e pastori, che non riconoscono a sufficienza la loro creatività e faticano a con-dividere le responsabilità”. Invece “i giovani chiedono che la Chiesa brilli per autenticità, esemplarità, competenza, corresponsabilità e solidità culturale. A volte questa richiesta suona come una critica,

ma spesso assume la forma positiva di un impegno personale per una comunità fraterna, accogliente, gioiosa e impegnata profeticamente a lottare contro l’ingiustizia sociale. Tra le attese dei giovani spicca in particolare il desiderio che nella Chiesa si adotti uno stile di dialogo meno paternalistico e più schietto”.