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Cammino e discernimento

LO STILE DIALOGICO DI PAPA FRANCESCO

LA CONDIZIONE DELLE NUOVE GENERAZIONI In margine a “Christus vivit”

2. INTERROGARSI SUI GIOVANI 1. I giovani al centro

2.6. Cammino e discernimento

La metafora della vita come “cammino” è certamente condivisi-bile, e nel tempo è stata condivisa; dove le opinioni divergono è sul significato di tale cammino: è un girovagare? è un vagabondare? è un visitare? è un pellegrinare? vediamo più da vicino queste diverse forme che possono essere assunte come metafore di stili di vita.

Il girovago o bighellone passeggia da estraneo tra estranei, cammi-na tra la folla ma senza appartenervi; guarda il mondo con distacco.

In senso metaforico, il girovago si muove senza legami, vive la vita in maniera frammentaria e senza continuità e le sue esperienze sono come episodi a sé stanti, senza passato e senza conseguenze.

Il vagabondo o nomade non si stabilisce in un luogo fisso; non ha né scopo né destinazione da raggiungere; vive senza ambientarsi troppo in un posto e perciò sfugge al controllo della società; non è del tutto solo perché incontra altri vagabondi, ma il suo essere peren-nemente sradicato gli consente di non prendere impegni duraturi o far proprie le regole del luogo che lo ospita. In senso metaforico, chi vive da nomade evade continuamente dalla realtà; entra in contatto con chi condivide la sua stessa condizione ma non si integra con coloro che vivono una vita stabile.

Il turista o viaggiatore è un ricercatore di novità; ha una casa ma la cambia continuamente; quando va in un luogo non vuole sentirsi estraneo eppure ne accetta solo ciò che gli piace. In senso metaforico, la condizione del turista è quella di chi vive continuamente in ricerca di un qualcosa che lo soddisfi; le sue mete sono illusorie e fittizie; cer-ca nella realtà un ideale che non esiste e vorrebbe poterla piegare ai suoi desideri; conosce tante persone ma non entra autenticamente in

relazione con loro; non riesce a fare tesoro delle esperienze vissute; ha una casa perché cerca sicurezza ma più fa il “turista” più rischia di non sapere cos’è “casa” per lui e di perdere per strada qualcosa di se stesso.

Il pellegrino o viandante è sempre in cammino, spinto dal desi-derio di raggiungere la sua meta, si rende disponibile a partire por-tando con sé poche cose e lasciando ciò che gli renderebbe difficile il percorso; rinuncia a qualcosa che ha già per qualcos’altro che è altrove; ha rispetto per il posto in cui sta andando; sa che non può arrivare d’un colpo, cerca la direzione del cammino, ne percorre le tappe e si sente inserito in un progetto di cui è parte; incontra altri pellegrini, si incammina con loro e mette in comune ciò che ha; la sua destinazione dà unità a ciò che è frammentario e continuità a ciò che è episodico; il pellegrino può guardare indietro ai propri passi e riconoscere la strada percorsa. In senso metaforico, essere pellegrini significa assumere come stile di vita l’essere per. Il pellegrino esce da sé per ritrovare se stesso; sa porsi in relazione autentica con il mondo e con le persone; le cose non corrispondono a criteri estetici o consumistici, ma hanno valore in rapporto alla destinazione del cammino; gli altri non sono estranei ma persone con cui condividere il percorso. Mentre il mondo contemporaneo si dimostra sempre meno disponibile al pellegrinaggio, i giovani invece tendono ad ap-prezzarlo e a praticarlo.

Il Documento finale del Sinodo sui giovani afferma che “il pelle-grinaggio è per i giovani un’esperienza di cammino che diviene me-tafora della vita e della Chiesa: contemplando la bellezza del creato e dell’arte, vivendo la fraternità e unendosi al Signore nella preghiera si ripropongono così le migliori condizioni del discernimento”.

Proprio al discernimento il Documento finale dedica tutto il capi-tolo IV chiarendo fin dall’inizio che “il termine “discernimento” è usato in una pluralità di accezioni, pur collegate tra di loro. In un senso più generale, discernimento indica il processo in cui si prendo-no decisioni importanti; in un secondo senso, più proprio della tra-dizione cristiana (…) corrisponde alla dinamica spirituale attraverso

cui una persona, un gruppo o una comunità cercano di riconoscere e di accogliere la volontà di Dio nel concreto della loro situazione”, per cui “il discernimento rimanda costitutivamente alla Chiesa, la cui missione è fare sì che ogni uomo e ogni donna incontrino quel Signore che è già all’opera nella loro vita e nel loro cuore”.

Dunque, il discernimento è un’altra di quelle parole privilegia-te dal Documento sinodale e da altri documenti ecclesiali. Qui inprivilegia-te- inte-ressa richiamare l’attenzione sulla molteplice valenza semantica del discernimento quale impegno per vivere la quotidianità in modo responsabile, una categoria che, ancora una volta, è esistenziale e sociale, oltre che ecclesiale e spirituale, ed è importante tenere pre-senti i diversi significati per evitare ogni forma di riduzionismo o di banalizzazione. Ne va della coscienza.

Al riguardo, il Documento finale del Sinodo ricorda che “la tra-dizione cristiana insiste sulla coscienza come luogo privilegiato di un’intimità speciale con Dio e di incontro con Lui, in cui la Sua voce si fa presente”, e precisa che “questa coscienza non coincide con il sentire immediato e superficiale, né con una consapevolezza di sé:

attesta una presenza trascendente, che ciascuno ritrova nella propria interiorità, ma di cui non dispone”.

Ebbene, la formazione della coscienza è un traguardo verso cui mi-rano le molteplici agenzie educative (dalla famiglia alla scuola, dalla chiesa all’associazionismo), che dovranno però procedere sulla base di due principi fondamentali: il riconoscimento e il rispetto dei gio-vani nella loro identità e specificità. E i giogio-vani sono particolarmente suscettibili alle “invasioni di campo”, per cui occorrerà che la neces-sità di accompagnarli – su cui tanto insiste il documento sinodale e su cui è tornata a insistere l’esortazione postsinodale – si traduca non in un accompagnamento subordinante, bensì in un affiancamento li-berante, nel senso che aiuta il giovane a fare da sé.

Non dunque un “accompagnamento che recide le radici o tarpa le ali, ma tale da permettere invece la conquista dell’autonomia at-traverso un esercizio della libertà: arricchito e non avvizzito da

lega-mi parentali e alega-micali, che siano espressione di una amorevolezza in grado di coniugare competenza e confidenza. In ogni caso, occorre tenere fermo che protagonista dell’accompagnamento è il giovane e non la sua guida, la quale deve infatti funzionare non come un direttore bensì come un facilitatore di scelte e di decisioni, che è il giovane a dover effettuare con crescente consapevolezza.