In quest’ultimo paragrafo ci soffermiamo su una breve rassegna degli effetti dei dispositivi della migrazione circolare finora descritti. Le valutazioni dell’impatto delle attività create dai migranti e dai membri della diaspora, in seguito al loro ritorno definitivo nel paese di origine, analizzate
41 Anche documenti aggiornati più recentemente dal WTO sostengono che sia molto difficile valutare
l’impatto del MODE 4. (Vedere anche: Magdeleine, J., Maurer, A., (2008), Measuring GATS Mode 4 trade flows, staff working paper ERSD-2008-05, World Trade Organisation).
da Agunias (2006) sembrano dimostrare che questo abbia delle conseguenze positive sullo sviluppo economico e sociale. Un dato interessante – che conferma ciò che abbiamo colto anche durante la nostra ricerca empirica – riguarda il fatto che spesso nella creazione di piccole attività commerciali o imprenditoriali, i migranti di ritorno non si rifanno alla capacità specifiche relative al tipo di mansione svolta all’estero. Piuttosto, questi, individualmente o attraverso le loro organizzazioni, utilizzano il capitale risparmiato e valorizzano le capacità organizzative e interpersonali maturate durante il percorso migratorio anche aldilà della sfera lavorativa per migliorare il proprio reinserimento lavorativo o mettersi in proprio.
Per esempio, in uno studio svolto su alcuni migranti ritornati in Ghana, l’impatto sullo sviluppo locale è valutato positivamente rispetto all’obiettivo di ridurre la povertà: “migration, followed by a return to self- employment and the creation of a small business can represent a potential strategy for poverty alleviation” (Black, King, Tiemoko, citati in Agunias 2006:12). Anche altre ricerche segnalate da Agunias sembrano confermare che in taluni casi si possa verificare l’inversione del brain drain, e dunque che la mobilità internazionale dei lavoratori generi effetti positivi. Ciò è molto evidente in alcuni casi analizzati (Kapur, citato in Agunias, 2006:9) in cui i migranti di ritorno favoriscono un trasferimento di mezzi e competenze tecnologiche in funzione di un loro spostamento inverso a quello migratorio da un’economia avanzata al paese d’origine.
È importante sottolineare che nella letteratura relativa al legame tra le migrazioni e lo sviluppo, vi è una convergenza sul fatto che le caratteristiche della diaspora (motivazioni alla base della partenza, dei progetti comunitari e dell’eventuale ritorno) condizionino il funzionamento dello schema della migrazione circolare. Come si diceva poco prima, alcune evidenze empiriche mostrano che il potenziale di sviluppo dell’intervento dei migranti dipende anche dalla loro capacità e possibilità di risparmio durante il soggiorno all’estero e dunque dalla durata di quest’ultimo (Rush, 2005, Levitt e Sørensen, 2004, Black, Ammassari, 2001). Inversamente proporzionale al beneficio che si ottiene con una permanenza più lunga lontano dal proprio paese, è però l’allontanamento da quest’ultimo, con una potenziale perdita di conoscenze, contatti, necessari ad un buon reinserimento. Come sottolinea Ammassari (2001) analizzando il caso dei migranti ghanesi, al momento del ritorno può accadere che il migrante si trovi davanti ad una realtà diversa da
quella che aveva lasciato anni prima – ciò è possibile anche se questi ha mantenuto rapporti regolari con familiari e amici – e che dunque le sue aspettative e/o progetti non siano più adeguate. I migranti dovrebbero essere dunque capaci di valorizzare il capitale umano e sociale conquistato all’estero “conciliandolo” con i non-migranti che nel frattempo hanno acquisito conoscenze specifiche sul contesto locale. Laddove ciò non accada, potrebbero essere auspicabili, secondo la studiosa, delle politiche finalizzate al ricongiungimento delle capacità e delle risorse dei migranti con quelle di chi ha scelto di non partire.
Sebbene non si possano sottovalutare alcuni elementi positivi, altre analisi specifiche rispetto al ritorno definitivo dei migranti “temporanei” mostrano alcuni aspetti critici. Nair (citato in Agunias, 2006:13) sottolinea come il clima economico e politico nel paese di origine sia determinante nella valorizzazione dell’impatto delle migrazioni di ritorno sullo sviluppo. Esaminando il contesto di Kerala, in India, caratterizzato da un’assenza di investimenti e di politiche governative favorevoli al reinserimento dei migranti, lo studioso evidenzia come circa la metà dei migranti ritornati rimangano disoccupati, l’altra metà, non riuscendo ad avviare attività in proprio, si accontenta di un basso salario in agricoltura o nella pesca. Agunias, riprendendo le analisi di Kapur, evidenzia il caso dei migranti provenienti dal sud dell’Asia che svolgono attività di cura negli Stati Uniti, i quali hanno scarse possibilità di migliorare le loro capacità o specializzarsi e dunque di accumulare capitale umano; lo stesso discorso vale per i lavoratori provenienti dal Bangladesh che lavorano nell’edilizia a Singapore, i quali mostrano “little sign of stimulating technological change in that sector back home despite their exposure to superior technologies” (Kapur, citato in Agunias, 2006:13).
È necessario citare inoltre le considerazioni di alcuni studiosi che affermano come in molti casi analizzati vi sia una bassa percentuale di ritorni tra i migranti altamente qualificati: “limited evidence that return migration is significant among the high skilled […] the harsh reality is that only a handful of countries have been successful in luring their talented émigrés back home” (Docquier e Hillel, citati in Agunias, 2006: 18). Esattamente come l’emigrazione, la migrazione di ritorno è caratterizzata da un’autoselezione negativa: “in other word, if most of emigrants are highly-skilled, the returnees are
likely to be the least skilled of the emigrants” (Borjas e Bratsberg, citati in Agunias, 2006:20).
Lo stesso Wets (2004), già citato rispetto al pericolo del brain waste, afferma come l’alternarsi tra brain drain e brain gain dipenda da equilibri relativi alle condizioni specifiche del mercato del lavoro dei paesi d’origine: “There is a lower limit under which society suffers from consequences of all skilled and high skilled migration, because of there is no replacement capacity. Above this threshold migration can be positive until the number of migrant workers reaches the upper limit, above which emigration of professional and highly qualified become problematic again because the replacement capacity has been drained. Between the two limits, we can speak of “brain transfer”, “brain circulation” and even “brain gain”” (Wets, 2004:25).
Secondo quanto detto sinora, possiamo dunque asserire che la maggior parte delle promesse sui benefici derivanti da un sistema migratorio circolare e dalle politiche – di controllo dei flussi, di reclutamento e di selezione, di ritorno, di cosviluppo, e via dicendo – elaborate secondo questo modello, siano fondate, e possano dunque essere mantenute, solo in presenza di altre contingenze che raramente si verifcano. Il nostro interrogativo rispetto a questo è il seguente: per ritenersi adeguate e potenzialmente efficaci, le politiche non dovrebbero essere formulate a partire dalla realtà esistente e non da una immaginata e auspicata?
Anche inun documento dell’OIM, che suggerisce le misure più adatte
a stimolare l’utilizzo delle rimesse economiche da parte dei migranti in
attività legate allo sviluppo dei propri paesi, indirizzando questi flussi
monetari verso un impiego più utile alla crescita economica dei paesi d’origine, si sottolinea che, affinché ciò si realizzi, sia necessario un contesto “favorevole”: “Un climat économique favorable – caractérisé par une inflation stable, une stabilité économique, une ouverture aux activités entrepreneuriales, des institutions solides et une bonne gouvernance – est essentiel à toutes les approches énumérées ci-après. Lorsque l’on tente d’optimiser l’apport des diasporas au développement, il importe également de ne pas centrer uniquement sur les ressources financières des migrants et d’apparier ces mesures à une politique de développement économique saine.” (OIM, 2005 :6).
Considerazioni, queste, alle quali si aggiungono quelle di Black: “But in the absence of improvements in the economic and political conditions in migrants’ home countries, any scheme to facilitate sustainable return is likely to fail. Indeed, if
the conditions are not right, the return or repatriation of large numbers of migrants can place huge demands on a developing country, raising the potential for instability, conflict and renewed out-migration. […] If developing countries are to benefit from the sustainable return of their migrants, they need to pursue policies – better governance, less bureaucracy, and economic growth – which will make migrants want to return, and which will ensure that those migrants who have returned have a sense that they, and their country, are moving towards a brighter future” (UK, House of Commons, 2004:47).
In sostanza, dunque, affermare tutto ciò equivale a subordinare la possibilità di realizzare progetti di cosviluppo che prevedano l’investimento delle rimesse alla previa esistenza nei contesti d’origine di condizioni favorevoli per avviare attività economiche e/o produttive, come infrastrutture e risorse fisiche e immateriali, volontà politiche e capacità istituzionali. Questo non ha, secondo noi, molto senso, in quanto come abbiamo già sottolineato – e come emerge anche dalla ricerca empirica – i migranti intervengono spesso proprio laddove tutte queste condizioni non sussistono, proprio per tentare di colmarne l’assenza. Se poi si tenta di valutare l’impatto delle politiche migratorie circolari, allora si può prendere in considerazione quello che afferma Agunias (2006) riprendendo le conclusioni di molti altri ricercatori, e cioè che l’impatto di quelle politiche nei paesi di origine dei migranti dipenda concretamente dalle loro condizioni politiche, economiche e sociali. Trattandosi spesso di paesi definiti in via di sviluppo, questi non sono, per esempio, caratterizzati da condizioni tali da poter competere con altri a livello globale per attirare investimenti e risorse umane nei propri territori.
Per concludere queste riflessioni è importante considerare che tra le migrazioni e lo sviluppo non vi è un collegamento funzionale, anche s emolti vorrebbero vedere le prime come uno strumento per il raggiungimento del secondo. Le rimesse, per esempio, al pari di qualsiasi altro flusso monetario, possono prescindere dall’obiettivo di ridurre la povertà nei paesi di origine, e anche il trasferimento di competenze, esperienze, nuovi bisogni, dei migranti di ritorno possono essere indirizzati in attività di cui difficilmente la parte più povera della popolazione potrà usufruirne (Kapur, Khandria e Lucas, citati in Agunias, 2006).
Rispetto a questo, Wets sottolinea come tra migrazione e povertà vi sia un legame per nulla scontato: “Migration can help to reduce poverty, while
poverty itself is also a cause of migration. Although not all migrants are from among the poorest segment of their societies, the process of migration itself does affect the poorest, both directly and indirectly, and there remains significant potential to harness the benefits of migration to improve the livelihood of the poor.” (Wets, 2004:7).
A queste importanti affermazioni vogliamo aggiungere quelle di Agunias, in quanto la studiosa, analizzati presupposti, pratiche e conseguenze della migrazione circolare, arriva alla conclusione che in questo modello lo sviluppo sia marginalizzato: “With few exceptions, however, the recommendations so far have focused on how to ensure return with very little consideration of how return itself will affect the social and economic well-being of migrants and the development of their respective sending countries both in the short that in the long term. The development dimension is still largely marginalized in the national policy debates concerning temporary work schemes. […] in this scenario, the developing world may end up with policy recommendations that may satisfy their authors, but rarely their supposed beneficiaries.” (Agunias, 2006:44).
CAPITOLO TERZO: Analisi di programmi di cosviluppo
ispirati alle tre “R”
Introduzione
In questo capitolo analizziamo tre rilevanti esempi di programmi relativi al cosviluppo, per coglierne lati positivi e evidenziarne i limiti, ed identificare alcuni concetti necessari all’analisi dei casi studio di questa ricerca. Prendiamo spunto dal classico schema del win win, costruito sull’asse Reclutamento, Rimesse, Ritorni, perché crediamo che ciascuno dei programmi esaminati in questo capitolo sia focalizzato in particolare su uno di questi concetti, nonostante sia evidente che ognuno, diretto ad orientare una fase del processo migratorio, ne influenzi invece tutto il percorso.
Questo spiega la scelta dei programmi; la scelta, invece, dei casi specifici è stata operata in base alla possibilità di reperire valutazioni di una certa qualità. Nel primo caso, per esempio, affrontiamo la questione del reclutamento attraverso l’analisi del programma TOKTEN, portato avanti dal Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite, evidenziando come le pratiche discorsive relative al tema del brain reverse, fondamento del programma, siano direttamente collegate con le politiche di reclutamento dei paesi di destinazione dei flussi migratori. Questi, infatti, come abbiamo dimostrato nei precedenti capitoli, mettono in pratica strategie di reclutamento dei lavoratori altamente qualificati attraverso agevolazioni nelle dinamiche di arrivo e insediamento, pratiche che si inseriscono a pieno titolo nelle politiche relative alla migrazione circolare. In questo caso abbiamo analizzato come il programma si è svolto in Ruanda, essendo riusciti a reperire una valutazione più completa rispetto a quelle relative all’esperienza del programma in altri paesi (come il Senegal o lo Sri Lanka).
Nel secondo caso ad essere esaminato è il programma Tres por Uno, realizzato in Messico e fondato sul protagonismo delle associazioni dei migranti messicani presenti negli Stati Uniti. Questo esempio ci offre l’opportunità di evidenziare una lunga serie di riflessioni relative al secondo caposaldo della strategia win win, e cioè le rimesse. Innanzitutto il
programma dimostra l’importanza delle rimesse collettive nel portare avanti dei progetti condivisi dalla popolazione, le quali rispondono alle esigenze di sviluppo sociale nelle aree d’origine, rivelando con forza come i tentativi delle istituzioni internazionali – analizzati nel secondo capitolo – di stimolare l’investimento delle rimesse in attività produttive, si riveli difficile da realizzare e inopportuno in taluni contesti. Inoltre dall’analisi di questo programma emerge come si inneschi spesso un meccanismo incoerente con l’obiettivo esplicito di questi programmi, che è quello di far si che la migrazione costituisca una scelta per gli individui e i gruppi, e non una necessità: il governo messicano, consapevole dell’impatto degli investimenti dei migranti nel paese, non attua delle misure di sostegno alle popolazioni locali ed anzi incoraggia tacitamente i flussi migratori. Nel caso del programma Tres por Uno abbiamo tenuto in considerazione l’esperienza generale dello stato messicano, citando in particolare l’esempio dello stato federale di Guerrero.
Infine, il terzo programma analizzato, il Programme Développement Local et Migration, promosso dal governo francese nell’Africa sub-sahariana negli anni novanta, è uno degli esempi più rilevanti del fallimento dei tentativi di imporre ai migranti di ritornare nei propri paesi di origine mascherando l’azione come una pratica di sviluppo. La valutazione del programma rileva una serie di contraddizioni tra obiettivi e risultati raggiunti, tali da condurre gli autori delle ricerche ad affermare una riflessione profonda ed un cambiamento di prospettiva.
I programmi sopracitati si svolgono ormai da diversi anni nel mondo (il TOKTEN, per esempio, dal 1977): l’analisi inefficace dei loro limiti e delle loro distorsioni ha fatto si che nelle attuali politiche migratorie possano essere riproposti discorsi simili, basati sulla fondatezza e la necessità della strategia win win.