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3.1 Reclutamento: il Programma TOKTEN 89

3.1.4 Riflessioni sul programma TOKTEN 96

Riteniamo che in queste ultime raccomandazioni vi siano indicazioni per un importante cambiamento nella struttura del programma. Allungare il periodo di soggiorno dei volontari, stimolare il loro ritorno definitivo, implicare i volontari anche nelle strategie di reclutamento di altri migranti – così come suggerito da Touray – significa modificare nella sostanza il programma TOKTEN, fondato invece sull’adesione volontaria e temporanea dei migranti.

Quando si tratta poi di riflettere sulla necessità di mobilizzare altre risorse, il valutatore evidenzia come dovrebbero essere le istituzioni e/o le organizzazioni beneficiare ruandesi where possible (Touray, 2008:26) a contribuire al mantenimento dei volontari e ai loro trasferimenti. Questo è in

profonda contraddizione con le considerazioni di base che hanno portato alla nascita dello stesso programma, e cioè che il Ruanda, come altri paesi in cui il TOKTEN è diffuso, ha una scarsa capacità di attrazione dei membri più capaci della diaspora, anche perché non dispone delle risorse necessarie per sostenere l’accoglienza di volontari dall’estero, ma a malapena di quelle per portare avanti le attività correnti. Ciò è in contraddizione anche con quello che lo stesso Touray afferma nelle righe successive: “Given that a number of volunteers complained of lack of facilities (e.g. computer and internet access, transportation facilities), institutions and organizations that apply to host volunteers should be evaluated as to their capability to provide volunteers with necessary support and facilities. If necessary, the institutions should be helped to upgrade their facilities by, for example, providing them computers and/or Internet access.” (Touray, 2008:27).

Nell’analizzare questo programma nell’esperienza ruandese, Touray ha considerato il suo funzionamento e la sua capacità di soddisfare gli obiettivi che esso si era posto. Questo obiettivo era stato concepito partendo da una considerazione precisa: nella diaspora si ritrovano spesso le persone più capaci e qualificate provenienti dai paesi in via di sviluppo, le quali scelgono di valorizzare le proprie competenze all’estero provocando il fenomeno del brain drain. Questo costituirebbe oggi uno dei principali ostacoli allo sviluppo di quegli stessi paesi.

Il perché della scelta di costruire un programma fondato brain reverse non può però essere data per scontata nelle nostre analisi. Anna Plyushteva (2008), prendendo in considerazione proprio il caso dell’Africa sub - sahariana, suggerisce di osservare questi programmi da un altro punto di vista, e cioè rispetto al ruolo controverso che i paesi avanzati hanno rispetto al fenomeno del brain drain.

Secondo la studiosa, la competizione mondiale per le competenze e i talenti è destinata ad intensificarsi. I paesi avanzati portano avanti delle politiche dirette a reclutare le persone altamente qualificate dai paesi in via di sviluppo a beneficio delle proprie economie, questi ultimi però, ed in particolare l’Africa sub-sahariana, subiscono gli effetti di questo “saccheggio” di risorse umane. Questa condotta da parte dei paesi più avanzati contrasta con gli obiettivi di sviluppo che essi dichiarano di voler mettere in pratica con programmi di cooperazione, come il TOKTEN.

Che il brain drain sia un fenomeno negativo per i paesi di partenza è una questione ormai accolta dalla letteratura, e verificata attraverso diverse ricerche: l’autrice riporta l’esempio del settore sanitario nell’africa sub- sahariana (Connell et al, 2007, citato da Plyushteva, 2008). Nonostante l’incompletezza dei dati, è stato stimato che dal 1990, all’incirca ventimila professionisti hanno lasciato l’Africa sub-sahariana (Akokpari, 2006, citato in Plyushteva, 2008). Se si tiene conto che, specie nel caso della sanità, la formazione dei professionisti ha un costo molto alto, che a fare le spese della partenza di dirigenti, insegnanti, esperti sono le nuove generazioni nei paesi in via di sviluppo, si può affermare che si sia consolidata una pratica di subsidy from the poor to the rich, come è evidenziato proprio nel titolo dell’articolo della Plyushteva.

L’autrice sottolinea come non sia ovvio che un professionista formatosi in un paese in via di sviluppo abbia come unica aspirazione quella di migrare, valorizzando il proprio capitale umano e ricevendo maggiori soddisfazioni economiche. La decisione di migrare, per qualsiasi altra persona più o meno qualificata, dipende dall’insieme di diversi fattori non esclusivamente economici, oltre che dai rapporti familiari, dal proprio ruolo nella società, dalle prospettive per il futuro. Inoltre, cambiando prospettiva, gli stimoli alla migrazione possono provenire non solo dal contesto di origine, ma anche, e nel caso dei migranti qualificati soprattutto, dai contesti di destinazione, che compiono molti sforzi per richiamare questo tipo di migrazione.

Come abbiamo affermato nei precedenti capitoli, molti paesi europei, come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, tentano, negli ultimi anni, di stimolare l’arrivo e la permanenza di professionisti elaborando politiche di reclutamento atte a soddisfare la domanda interna relativa a questi lavoratori e a semplificare le procedure per la regolarizzazione dei migranti qualificati. Il dibattito sulla Blue Card in seno all’Unione Europea, destinata ad uniformare tra gli stati membri un quadro normativo favorevole ai migranti qualificati, va esattamente in questo senso. Quello che ci sembra fondamentale sottolineare è che queste politiche sono estremamente selettive, proprio come selettivo è il programma TOKTEN appena descritto, e ad esse corrispondono – con pari efficacia e retorica – le politiche repressive, dirette a keeping out those regarded as less desiderable (Plyushteva, 2008:4).

Questo sistema, fondato quindi sulla divisione tra skilled e unskilled, professionisti e non, ma concretamente tra inclusi ed esclusi (nel mercato del lavoro, nella partecipazione ai programmi, nel godimento dei propri diritti, ecc.), è parte di quelle pratiche discorsive analizzate nei precedenti capitoli, in cui l’obiettivo è massimizzare i benefici provenienti dalle migrazioni limitandone gli effetti negativi. Ma a favore di chi? Dalle riflessioni sul brain drain risulta evidente che la risposta è per i paesi di destinazione dei migranti. La Plyushteva afferma infatti che la lotta al fenomeno del brain drain in Africa, attraverso iniziative come il TOKTEN, risulta immediatamente poco credibile se si osservano i risultati quantitativi di quei programmi e si comparano col numero delle partenze dai paesi in via di sviluppo e le – non quantificabili forse, eppure evidenti – perdite di capitale umano. Dall’analisi delle dinamiche circa il brain drain emerge come la logica imposta dalla globalizzazione, quella della competizione su scala mondiale, che si tratti di investimenti, di prezzi o di merci, influenza anche il discorso attorno alle migrazioni che si fonda proprio sulla concorrenza tra soggetti locali, statuali e transnazionali, per accaparrarsi i benefici da essa derivanti, in questo caso i “cervelli”. “The allocation of scarce African public budgets to creating educational institutions that can compete with the West, in a context of widespread hunger and child mortality, is a somewhat extravagant policy recommendation. Given the low base from which Sub-Saharan African states will have to compete for their qualified workers, their chances for success appear very limited. […] Even if the government of a Sub-Saharan country could find the funds to launch a big publicity campaign to attract as many qualified foreign workers as it loses annually, it is hard to imagine great numbers of people being lured by the “lifestyle” (and/or an Ethiopian teacher’s salary)” (Plyushteva, 2008:5,6).

Esistono molti discorsi sulle possibilità “compensative” delle perdite provocate dal brain drain nell’ambito dei processi migratori. Non si può trascurare, infatti, che in molti casi i migranti sperimentino delle forme importanti di trasferimento di capacità, competenze, esperienze, strumenti, che non sarebbero state possibili o altrettanto preziose al di fuori di un percorso migratorio. Pur non soffermandoci nello specifico su queste argomentazioni in questo capitolo, è importante cogliere alcune riflessioni suggeriteci dalla Plyushteva in questo senso. La studiosa evidenzia come la mancata valorizzazione del capitale umano dei lavoratori formatisi nei paesi in via sviluppo potrebbe non dipendere dalla loro personale incapacità nel

realizzarsi in loco, ma dalle condizioni avverse del contesto in cui sono nati e risiedono, e, in tal caso, non si comprende perché al loro ritorno – temporaneo, come previsto dal TOKTEN, o definitivo che sia – da un percorso migratorio le dinamiche dovrebbero essere diverse. Lo stesso discorso vale per le rimesse economiche: benché esse costituiscano una motivazione su cui si basa la stessa decisione di emigrare, queste non possono essere considerate come una valida controparte per riequilibrare la perdita di capitale umano.

Il programma TOKTEN, diretto a limitare gli effetti negativi del brain drain, si allinea agli altri programmi promossi dalla società civile e dai donors nell’ambito della cooperazione internazionale allo sviluppo, che tentano di ovviare ad un problema che chiaramente essi stessi continuano ad alimentare. Oltre a produrre dei risultati molto scarsi rispetto agli obiettivi posti, talvolta sono più evidenti le problematiche create da queste forme di intervento: si paga molto di più un esperto straniero per svolgere attività peggiori rispetto a quelle che potrebbero essere svolte da un professionista locale, ed inoltre “some critics would suggest that the ubiquitous foreign expert teams only reproduce the dependency processes which slow the development of Sub- Saharan Africa” (Plyushteva, 2008:8).

La mercificazione delle capacità e delle qualifiche delle persone nel mercato del lavoro internazionale pone dunque i paesi africani, e più in generale i paesi in via di sviluppo, in una condizione di subordinazione rispetto a quelli occidentali. Secondo noi, tutto ciò è da considerare come punto cruciale di una valutazione di un programma come il TOKTEN. Non ci si può aspettare un impatto positivo e concreto sullo sviluppo se le precondizioni sono quelle che abbiamo descritto: “While both rich and poor countries experience a growing need for engineers, teachers, doctors and nurses, African states will almost inevitably lose out in this “brain” marketplace, because they have fewer financial and welfare rewards to offer (Dodoo et al, 2006:156). In this context, the ethics of providing official healthcare, education and technology aid to African countries, while depriving them of their healthcare, educational and technical professionals, can be questioned.” (Plyushteva, 2008:8).