Come descritto, molte sono le imprese che ad oggi hanno deciso di ri-‐localizzare la produzione nel proprio Paese d’origine. L’Italia, attualmente, secondo le fonti più autoritarie che studiano il fenomeno del reshoring (Reshoring Initiative, Uni-‐CLUB MoRe Back-‐Reshoring), compare in seconda posizione nella classifica globale per numero di aziende rimpatriate. Le motivazioni e le cause, già discusse, sono varie e numerose. Certamente c’è da dire che i policy maker nel fenomeno hanno intravisto un mezzo ed una leva molto importante per ricucire – laddove serva – il tessuto industriale del Paese, contribuendo alla creazione nuovi posti di lavoro e a mettere in circolo l’economia interna.
Il reshoring, per via dello spiccato carattere di novità scientifica, si indaga – anche in campo accademico – con un tipo di ricerca cosiddetto “esplorativo”, che fa affidamento sia sui pochi riferimenti teorici esistenti sia su un’enorme quantità di dati secondari: notizie di stampa, documenti scientifici, opinioni espresse, report
aziendali, mezzi di comunicazione di massa152. Da queste fonti, molto spesso è
possibile leggere di casi concreti di reshoring e storie di imprenditori che hanno deciso di trasformare e modificare il proprio modello di business. Al mondo, molti sono gli esempi riportati: si citano ad esempio i rimpatri dei colossi multinazionali americani Apple, Google o General Electric, oppure quello più recente della tedesca Adidas.
In Italia, al 31 dicembre 2015, sono state contate 121 decisioni di rimpatrio su un totale di ottantotto aziende. Molte le micro e piccole imprese ad aver influito alla formazione del fenomeno, ma esistono anche casi di aziende di dimensione e notorietà maggiore, che si fanno da testimoni ed esempi “sponsor” per una crescita futura del reshoring nazionale.
Di seguito si racconteranno le storie di alcune di queste imprese, classificate in base alla motivazione primaria che le hanno spinte a rimpatriare, principalmente per dar modo di comprendere al meglio i numeri ed i concetti teorici finora
esposti153:
• migliori condizioni di contesto:
-‐ Fiamm (Fabbrica Italiana Accumulatori Motocarri Montecchio) è un’azienda italiana produttrice e distributrice di accumulatori e avvisatori acustici. Nata nel 1942 a Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza, dall’iniziativa dell’allora giovane e visionario ingegner Giulio Dolcetta, Fiamm è presente commercialmente in sessanta Paesi, con il 70% del totale del fatturato proveniente proprio dal commercio estero. La produzione avviene attraverso insediamenti in quattordici nazioni differenti, principalmente costruiti per l’esigenza di essere più vicina a clienti e mercati. Nel 2013, però, Fiamm annuncia la chiusura di un’unità produttiva localizzata in Repubblica Ceca, con la finalità di trasferire quella produzione presso lo stabilimento di Fucino, in Abruzzo. 110 nuovi dipendenti, grazie ad un accordo sindacale mirato a ridurre i salari del 20%, vengono assunti nella sede italiana. In
152 cfr. Fratocchi L., Ancarani A., Barbieri P., Di Mauro C., Nassimbeni G., Sartor M., Vignoli M., Zanoni A., (2015) “Il Back-‐Reshoring Manifatturiero nei Processi di Internazionalizzazione: Inquadramento Teorico ed Evidenze Empiriche”, Sinergie – Italian Journal of Management, Vol. 33, N. 98, CUEIM
153 cfr. Martone A. (2016), Reshoring. Come e Perché Far Rientrare la Produzione in Italia, IPSOA Innovative Management
contemporanea, inoltre, Fiamm decide di riaprire anche l’ex
headquarter di Montecchio Maggiore, oramai chiuso da quattro anni,
rinnovandolo tecnologicamente e favorendo l’assunzione di circa un centinaio di nuovi lavoratori. Secondo quanto riferito ai giornali dall’attuale presidente Stefano Dolcetta, tali decisioni di investire in Italia e di rimpatrio produttivo sono arrivate in risposta ad alcune problematiche derivanti principalmente dall’elevato turnover di personale, che sia creava difficoltà nei processi di formazione sia conduceva a bassa produttività e ad un elevato numero di scarti. Ravvicinare produzione e progettazione ha condotto l’impresa a migliorare la propria flessibilità ed ha favorito l’innovazione, potendo godere di maggiore dinamicità e di un contatto diretto con la filiera ed i clienti. In aggiunta, la manodopera italiana ha permesso di raggiungere risultati di più elevata qualità ed efficienza;
• “Made in” effect:
-‐ Azimut Yachts nasce nel 1969 dall’idea di Paolo Vitelli, studente universitario con la passione per la nautica e le imbarcazioni. La mission iniziale dell’impresa, di noleggiare a terzi barche a vela, col passare del tempo cambia, parallelamente alla crescita dell’impresa, e dal noleggio passa prima alla distribuzione – di numerosi marchi di lusso – e poi alla progettazione e alla costruzione delle imbarcazioni stesse. Nel 1985, la forza contrattuale dell’azienda e la sempre maggiore domanda di mercato, inducono Azimut Yachts ad acquisire i cantieri Benetti, famosi per la produzione dei cosiddetti “megayacht”, consentendo lo sviluppo della value proposition, sempre più unica nel design e differenziata nelle dimensioni delle imbarcazioni offerte. Negli anni successivi, le richieste di mercato e le esigenze di bilancio inducono l’impresa ed attivare linee produttive estere, in Brasile e in Turchia, per la costruzione di yacht
entry-‐level (di piccola dimensione). Queste scelte, apparentemente
vantaggiose dal punto di vista economico, col tempo sono state riviste, e nel 2012 l’azienda decide di far rientrare i processi produttivi interamente in Italia. Le motivazioni principali riportate da Paolo Vitelli sono legate alla necessità per l’impresa di avere una produzione
interamente Made in Italy, fondamentale per la riconoscibilità del brand e per la garanzia di qualità. Un Made in Turkey, infatti, per Azimut Yachts ha rappresentato una fonte di perdita di competitività nel mercato internazionale ed in quello della distribuzione di imbarcazioni, che di per sé già risentiva degli effetti della crisi economica. La scelta di ri-‐localizzare la produzione in Italia per il presidente è apparsa inevitabile, seppure sia andato incontro ad un aumento dei costi, specialmente in relazione a quelli del lavoro;
• vicinanza con il consumatore:
-‐ Piquadro è un’azienda emiliana, nata a Bologna nel 1987, inserita nell’industria delle produzioni di borse in pelle. Originariamente, Marco Palmieri – suo fondatore – lavorava in proprio nella supply chain di altre aziende di pelletteria di lusso; nel 1998, però, decide di mettersi in gioco lanciando sul mercato Piquadro. Nel 2000, mosso dall’eventualità di cogliere ingenti benefici di costo, firma alcune collaborazioni con imprese cinesi per la delocalizzazione di parte della produzione. Pochi anni dopo, però, deciderà di rivedere le scelte prese, interrompere gli accordi e di ri-‐localizzare in Italia tutti i processi produttivi. La ragione principale che ha portato Palmieri a prendere questa decisione deriva dall’aver adottato sul mercato e nella produzione iniziative commerciali di personalizzazione del prodotto, che necessitavano di un coordinamento perfetto tra consumatore e impresa, e all’interno di essa, tra reparto vendite e produzione. La distanza geografica tra funzioni, e tra produzione e mercati di sbocco, non ha permesso che si raggiungessero gli obiettivi pianificati in termini di soddisfazione del cliente e di tempi di consegna, tanto da indurre Piquadro ad adottare strategie di reshoring. In più, la produzione manifatturiera cinese nel tempo si è rivelata essere più costosa di quanto ci si aspettasse, e la qualità dei prodotti forniti inferiore rispetto a quella dei prodotti 100% italiani. Tutti questi, elementi che hanno contribuito al rimpatrio produttivo.
• manodopera specializzata:
-‐ Argo Tractors, azienda produttrice di macchinari agricoli, nasce nel 1988 dall’iniziativa della famiglia piemontese Morra. Molti i marchi posseduti, e tra questi si ricordano Landini, Valpadana e McCormick. Tra il 2007 e il 2010, dopo aver delocalizzato anni prima parte della produzione nelle vicine Francia e Regno Unito, Argo Tractors ritorna ad essere 100% italiana per via del rimpatrio di tutte le fasi di lavorazione presso casamadre. La specializzazione della manodopera italiana, il
know-‐how, le tecniche di costruzione e la disponibilità di tecnologie
avanzate, sono le principali motivazioni del rientro; • politiche pro-‐reshoring:
-‐ Natuzzi è la più grande azienda italiana del settore arredamento e leader mondiale nella produzione di divani in pelle. Nata nel 1959 dall’ingegno manifatturiero di Pasquale Natuzzi, l’azienda, tra l’altro quotata al New York Stock Exchange, vende i propri prodotti in tutto il mondo e negli anni ha localizzato la produzione in più Paesi esteri (Romania, Cina, Brasile), sia per ragioni di prossimità ai mercati ed ai clienti, sia per motivazioni di risparmio di costo. Natuzzi, in difficoltà da alcuni anni, poiché risentita particolarmente della crisi economica globale, ha considerato l’opportunità di riportare parte della produzione in Italia beneficiando di alcuni sussidi ed incentivi statali offerti in occasione dell’”Accordo di programma per la riqualificazione del distretto del salotto di Puglia e Basilicata”. L’accordo, che prevedeva il rientro di una linea allora prodotta in Romania e l’erogazione di finanziamenti regionali, purtroppo non è andato a buon fine, ma nonostante ciò Natuzzi continua a dichiararsi aperta all’attuazione di eventuali strategie di reshoring.
Questi appena finiti di descrivere, sono solamente alcuni degli esempi di aziende italiane che hanno deciso di ri-‐localizzare in patria la totalità o parte della produzione precedentemente trasferita all’estero. Esistono, infatti, molte altre imprese, altrettanto conosciute come Falconeri, Benetton, Roncato, Furla, Boghelli, Armani o Artsana, che negli ultimi anni hanno deciso di riorganizzare i processi produttivi in funzione di una maggiore valorizzazione della propria offerta.
Seppure le motivazioni alla base delle strategie di reshoring differiscano da azienda ad azienda, tutte, comunque, riconoscono nel brand Made in Italy un vero e proprio valore aggiunto per la competitività dell’impresa all’interno dei settori di appartenenza, ed è proprio per tale ragione che si prospetta che sempre più imprese nel futuro contribuiranno all’esistenza di questo fenomeno e alla valorizzazione delle produzioni 100% italiane, sinonimo di qualità e storia.
CONCLUSIONI
Al termine di questa analisi, pertanto, è possibile affermare come il reshoring sia un fenomeno in progressiva espansione, ed il comportamento di rimpatriare i processi produttivi precedentemente delocalizzati un’usanza sempre più diffusa tra le imprese situate in Paesi di tutto il mondo.
Le cause sono ricercabili in più fattori, a loro volta di diversa natura. Innanzitutto è bene considerare le motivazioni che a monte hanno condotto le aziende ad adottare strategie di offshoring, rappresentate perlopiù dalla ricerca di contesti normativi e sociali che favorissero lo snellimento della struttura dei costi aziendali e di quelli di produzione, per molte imprese diventati insostenibili. Infatti, in aggiunta a specifiche motivazioni di localizzazione geografica per favorire la prossimità presso determinati mercati di sbocco o clienti, l’internazionalizzazione produttiva nasce principalmente dall’esigenza di manager e imprenditori di ridurre i costi inerenti il lavoro, nelle economie avanzate spesso troppo elevati. Nel tempo, però, il venir meno di questo vantaggi, determinato dal progressivo sviluppo economico delle economie emergenti, ha comportato in maniera decisiva la nascita del reshoring. Più in generale, il fenomeno è stato favorito da errate valutazioni fatte in sede di progettazione del processo di delocalizzazione, in merito ai reali benefici e agli effettivi risparmi di costo conseguibili. Non considerare il «total cost of ownership» delle operazioni, infatti, ha portato molte imprese a dover sopportare una mole aggiuntiva di costi, ed ai quali necessariamente far fronte, cosiddetti nascosti. Costi della logistica, dei trasporti, costi derivanti dalla minore qualità dei prodotti e della manodopera, hanno reso il progetto di offshoring meno conveniente di quanto si fosse programmato, e soprattutto carico di rischi da dover attentamente gestire. Negli anni, per l’appunto, il costo del lavoro dei Paesi in via di sviluppo ha subito degli incrementi notevoli, con percentuali molto superiori rispetto a quelle caratterizzanti i Paesi industrializzati, che a loro volta hanno visto, invece, un sostanziale appiattimento della curva salariale.
Sempre più aziende, perlopiù di piccole o medie dimensioni, credono che rimpatriare la produzione possa portare benefici di ordine multiplo, vantaggi che se colti da un numero di imprese sempre maggiore potrebbero creare un circolo virtuoso i cui effetti ricadrebbero sui tessuti industriali interni, e favorire una loro riorganizzazione con prospettiva di crescita e sviluppo di lungo periodo. Il rilancio delle economie regionali, infatti, ad oggi appare un tema molto caldo, soprattutto perché in contrapposizione con un ambiente generale che vuole i processi di globalizzazione economica e di integrazione su scala internazionale alla base degli scambi tra aziende e dei meccanismi di divisione del lavoro.
Il rilancio della competitività delle nazioni, comunque, appare di rilevante importanza, e le istituzioni politiche, a tal fine, hanno intravisto nel reshoring un mezzo dalle forti potenzialità, attraverso il quale ricreare posti di lavoro, rilanciare la manifattura interna, sviluppare l’immagine del Paese.
Gli Stati Uniti, infatti, soprattutto con le iniziative dell’ormai ex Presidente Barack Obama, hanno cercato di creare un contesto ideale al rientro delle imprese delocalizzate, principalmente mediante l’utilizzo di politiche pro-‐reshoring basate sulla diminuzione dei costi dell’energia, sull’erogazione di incentivi, di agevolazioni finanziare e sull’organizzazione di importanti campagne finalizzate alla valorizzazione del Made in USA.
Le evidenze empiriche contenute nell’elaborato confermano che gli Stati Uniti ad oggi siano la nazione che più tra tutte al mondo abbia fatto registrare casi di rimpatrio produttivo, in più settori, e con effetti di ritorno economico e di immagine più che rilevanti, caratterizzati da continuità e crescita.
A differenza di quanto appena scritto, invece, il reshoring in Italia nasce come «convincimento spontaneo» di quegli imprenditori che, rivalutati i costi ed i rischi di una produzione offshore, e le esigenze di un mercato in continuo cambiamento, hanno ripensato a quali fattori alla base della catena del valore aziendale realmente fossero fonte di vantaggio competitivo per l’impresa. L’esigenza di offrire prodotti di qualità, la necessità di servirsi di una manodopera specializzata, il bisogno di cogliere i vantaggi derivanti da una produzione Made in Ialy, sono solo alcune delle motivazioni al rientro per le imprese italiane, ma le principali in ordine di importanza, rappresentando i tratti distintivi di una produzione 100% italiana, riconosciuta in tutto il mondo.
Non è casuale, pertanto, che in Italia il reshoring abbia interessato maggiormente quelle imprese operanti in settori che lavorano a stretto contatto con il consumatore, e per le quali elementi quali la riconoscibilità del brand e l’immagine dell’impresa siano di fondamentale importanza.
È anche per tali ragioni che quindi oggi più che mai si sente il bisogno di attuare politiche interne di valorizzazione e tutela del Made in Italy e del manifatturiero italiano – frutto di storia e di processi unici di tramandamento di know-‐how – che consentirebbero all’economia italiana di riconfermarsi su scala internazionale come una delle più influenti, leader del commercio mondiale di prodotti di tradizione qualitativamente superiori.
La ri-‐localizzazione produttiva, pertanto, sembra stia contribuendo a mettere in discussione il fenomeno della globalizzazione economica, per alcuni un processo di integrazione forzato, dai tratti e dalle dinamiche piuttosto dubbie, visti gli scarsi risultati in termini di lotta alle disuguaglianze sia sociali sia economiche. Il modello di impresa internazionale e di organizzazione delle attività lungo catene globali del valore, quindi, appare stia diventando sempre più un’opzione adatta solamente per le aziende di grandi dimensioni, in possesso di ampie risorse e con la necessità di dover servire mercati di sbocco localizzati in più aree geografiche del mondo. Al contrario, gli ecosistemi produttivi regionali, basati sulla vicinanza tra funzioni aziendali, si presentano sempre più come la risposta più efficace per incentivare lo sviluppo dei processi di innovazione e di creazione di conoscenza, fattori la cui importanza è cruciale per il rilancio delle economie e delle produzioni nazionali.
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