1.2 LE TEORIE SULL’INTERNAZIONALIZZAZIONE D’IMPRESA 21
2.1.1 DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA E CRITICITÀ 79
Trattando più nello specifico i rischi connessi al fenomeno dell’offshoring, e della delocalizzazione produttiva delle aziende alla ricerca di un ambiente operativo differente dall’originario, è possibile considerare una serie di criticità e problematiche che sia hanno ovvia attinenza con quelle generali precedentemente analizzate sia costituiscono un insieme a sé stante. Infatti, trattare la tematica del rischio in relazione ai fenomeni di internazionalizzazione d’impresa, necessita che preventivamente si effettuino delle differenze tra le varie strategie di entrata in un mercato estero, siano esse di exporting, contracting o di investimento diretto. Ogni strategia, pertanto, sarà caratterizzata da un insieme di rischi specifici ai quali l’azienda sarà esposta.
L’analisi che è stata condotta nel paragrafo precedente determina quel cluster di rischi che possono affliggere una qualunque impresa che decida, indipendentemente dalla strategia in atto, di internazionalizzarsi. In relazione alle scelte di delocalizzazione produttiva tale insieme si amplia.
Innanzitutto, un’azienda che lascia il proprio Paese d’origine è senza dubbio soggetta al rischio Paese, precedentemente analizzato, della nazione ospitante e a tutti quei pericoli derivanti dalla sostituzione del contesto generale. Da un punto di vista prettamente aziendalistico, è naturale predire un aumento dei costi della logistica e dei rischi legati al trasferimento del know-‐how, che se gestiti in maniera non adeguata potrebbero rivelarsi un ostacolo all’operatività non indifferente. Come già approfondito, molto spesso il trasferimento dell’impresa o la creazione di una filiale all’estero nasce come bisogno per diminuire l’ammontare totale dei costi. Tale obiettivo il più delle volte è raggiunto come trade-‐off attraverso il sacrificio di alcuni attributi del prodotto o del processo produttivo. La perdita di
qualità, la perdita di immagine, la perdita di produttività e di produzione interna, con i rischi legati alla diminuzione del livello occupazionale – soprattutto dei Paesi
con un elevato livello salariale – ne sono un esempio84.
Tabella 2.1 – I RISCHI DELLA DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA − Rischio Paese
− Aumento dei costi di logistica
− Rischi legati al trasferimento del know-‐how
− Perdita di qualità − Perdita di immagine − Perdita di produttività − Perdita di produzione interna
− Diminuzione del livello occupazionale
In ogni caso, è importante precisare che non sempre questi rischi si presentano, e che il ruolo dell’imprenditore nella pianificazione del progetto di trasferimento è fondamentale per prevenire il più possibile eventuali danni all’impresa. Ciononostante, il più delle volte i manager si imbattono in problematiche, anche emergenti, le cui cause necessitano essere prima individuate, poi controllate ed infine cancellate. I rischi elencati in tabella 2.1, nella fattispecie, è molto probabile che si verifichino, ma è bene precisare che è raro possano presentarsi tutti insieme, né nella stessa intensità. Ciò è probabile possa dipendere anche dal grado di delocalizzazione esistente, e dall’effettiva lontananza della produzione trasferita all’estero. Si parlerà pertanto di offshoring, la scelta più rischiosa, qualora la produzione, o un altro business process, venga trasferita in un’altra nazione, anche
molto lontana; di nearshoring85 se la localizzazione sia a favore di Paesi esteri non
molto distanti dal Paese d’origine, spesso all’interno dello stesso continente; ed
84 Rielaborazione dati “Osservatorio Filas”. Tratti dall’articolo titolato “Delocalizzazione: Perché le Imprese
Puntano sull’Estero?”.
85 Per una maggiore comprensione del fenomeno e della terminologia utilizzata in dottrina, è necessario distinguere tra nearshoring (la delocalizzazione della produzione in Paesi non molto lontani da casamadre) e
near-‐reshoring (la ri-‐localizzazione della produzione da Paesi più distanti – rispetto quello d’origine – verso
infine di onshoring se lo spostamento avvenga all’interno del medesimo Paese, ma in una regione meno metropolitana e più economica.
Ognuna di queste scelte, guidata da soggettivi obiettivi strategici, sarà caratterizzata da uno specifico livello di rischio, che influenzerà senz’altro la riuscita ed il successo finale del progetto di delocalizzazione produttiva.
Il quadro completo fino a qui disegnato di rischi, criticità e problematiche inerenti al fenomeno dell’internazionalizzazione d’impresa, e gli effetti che questi hanno avuto negli anni sulle imprese, ha portato gli studiosi ad indagare sempre più a fondo. Alcune delle argomentazioni alla base delle scelte di delocalizzazione, infatti, sono state messe in discussione da pensieri confutatori, radicati proprio nel pensiero che l’offshoring, da un punto di vista strettamente numerico, abbia nel tempo fatto misurare benefici minori alle aspettative.
In relazione all’equazione maggiormente adottata secondo la quale delocalizzare la
produzione induce ad un abbassamento dei costi d’impresa, il rapporto Ventoro86
(2005) – condotto sulla base di 5.231 interviste ad imprenditori europei e nordamericani che hanno ricorso all’offshoring – afferma come il risparmio medio sul costo del lavoro sia solamente del circa 10%, e ciò in virtù degli svantaggi derivanti da un più difficile coordinamento delle attività e da una minore produttività. Addirittura il 28% dei progetti avrebbe persino portato ad un aumento dei costi complessivi, ed il 25% non avrebbe fatto generare alcun risparmio. Da un punta di vista macroeconomico, invece, la riduzione dei costi – principalmente ottenuta grazie alla diminuzione dei costi sui salari – non produrrebbe alcun effetto positivo. Il contrasto tra il risparmio di pochi e la sottrazione di reddito salariale a molti porterebbe infatti ad una sostanziale situazione di iniquità di spesa, che né aumenterebbe il reddito nazionale né genererebbe ricchezza globale, rendendo, a livello sistemico, l’«effetto risparmio» in molti casi trascurabile.
A favore dell’offshoring, comunque, molti autori (Friedman, 2004) sostengono come la presenza di una azienda proveniente da un Paese avanzato su di un territorio in via di sviluppo porti al cosiddetto “beneficio incrociato”, situazione ideale in cui entrambe le tipologie di Paese traggono beneficio dai processi di
86 Società che studia i fenomeni dell’offshoring e dell’outsourcing, con la finalità ultima di supportare imprenditori americani ed europei durante i processi di pianificazione, implementazione e gestione della strategia di trasferimento o di esternalizzazione.
delocalizzazione produttiva. Nello specifico, il Paese emergente si avvantaggerà della ricchezza generata dall’impresa straniera, ed i Paesi avanzati beneficeranno dall’aumento di domanda dei loro prodotti proveniente dai Paesi in via di sviluppo, secondo un andamento ciclico in cui un Paese favorisce all’accrescimento del reddito dell’altro e viceversa. In realtà, seppure i dati di lungo periodo effettivamente mostrino come la ricchezza complessiva di alcuni Paesi in via di sviluppo sia aumentata, i benefici per i Paesi sviluppati, invece, rimangono ancora marginali, e questo principalmente per via della netta disuguaglianza che ancora persiste tra Paesi del nord e sud del mondo, e per quest’ultimi anche al loro interno. Condizioni che senza dubbio negano la nascita di un effettivo mercato unico mondiale al cui interno i Paesi sviluppati potrebbero collocare i propri prodotti in maniera indifferenziata.
Ponendo il focus solamente sui sistemi economici industrializzati, di forte interesse risulta il lavoro di Kletzer, professoressa dell’università della California, in cui afferma come il fenomeno dell’offshoring nel tempo abbia creato importanti falle nel mercato del lavoro manifatturiero statunitense. Infatti, l’autrice sottolinea come nel periodo tra il 1979 e il 1999, in seguito alla delocalizzazione produttiva di molte imprese, negli Stati Uniti siano stati licenziati migliaia di lavoratori, e che solamente il 63,4% abbia poi trovato reintegro, peraltro con una perdita salariale del 13%: una perdita di ricchezza che nel tempo ha comportato, specialmente fino all’inizio del terzo millennio, problematiche sia a livello politico sia a livello sociale,
con ritorsioni da un punto di vista economico e sistemico87.
È importante evidenziare ancora una volta, comunque, che le riflessioni fin qui fatte non neghino i vantaggi – innegabili – dell’offshoring, ma hanno la mera funzione di confutare alcuni “luoghi comuni” sul fenomeno, determinando come gli effetti e i benefici ultimi siano meno importanti di quanto possa apparire superficialmente.
Ciononostante, l’analisi condotta sui rischi e sugli effetti sistemici della delocalizzazione produttiva, è di essenziale importanza per esaminare il comportamento delle aziende in risposta a tali criticità. Molte di queste, infatti, negli ultimi decenni, ma in maniera più significativa negli ultimi 7-‐8 anni, hanno
87 cfr. Martone A. (2016), Reshoring. Come e Perché Far Rientrare la Produzione in Italia, IPSOA Innovative Management
fatto registrare l’esistenza di un fenomeno di controtendenza, e di reazione alle problematiche emergenti, che ha visto migliaia di imprese in tutto il mondo riportare la produzione nei Paesi d’origine. Tale fenomeno, frutto di una più cosciente valutazione ex-‐post degli effettivi benefici dell’offshoring, è oggi identificato sotto il nome di «reshoring», e per la sua rilevanza socio-‐economica, attualità e novità scientifica sarà oggetto di studio delle prossime sezioni del capitolo.
2.2 STORIA DEL RESHORING E LETTERATURA ESISTENTE
Uno dei primi economisti a studiare il fenomeno del rimpatrio aziendale, e quindi ad avvicinarsi al concetto di reshoring, è stato Jungnickel (1990). Il ricercatore tedesco, infatti, con l’espressione “return relocation” ha identificato come inedito – a livello internazionale – il comportamento di quelle imprese che decidevano di ri-‐ localizzare geograficamente una o più funzioni aziendali dapprima trasferite all’estero. Questi studi, poi approfonditi negli anni, sono stati perfezionati da più autori, ponendo il dubbio se per “return relocation” si identificassero scelte inerenti l’intera impresa o solamente alcune sue funzioni (Hardock, 2000), se la ri-‐ localizzazione fosse in stabilimenti domestici di proprietà o meno (Holz, 2009), o infine se scelte di tale dimensione significassero la chiusura, anche solamente parziale, dell’unità produttiva precedentemente delocalizzata (Schulte, 2002). Un fenomeno, pertanto, allora poco chiaro, sia dal punto di vista della gestione operativa che motivazionale, ovvero delle ragioni alla base di queste scelte.
Gli studi, nel tempo, pertanto sono proseguiti. Altri autori, infatti, hanno cercato di arricchire il concetto, anche definendolo differentemente. Ad esempio, Dholakia (2012) ha definito “inshoring” non solo quella manovra di ri-‐localizzazione di impresa nel Paese d’origine, ma anche di realizzazione ex novo di impianti produttivi all’interno del territorio nazionale. Liao (2012), invece, sempre con il medesimo termine, ha inteso il fenomeno circoscrivendolo alle operazioni di approvvigionamento internazionale di fattori produttivi.
Il termine “back-‐shoring”, probabilmente più diffuso dei precedenti, deriva dalla ricerca accademica di origine tedesca, il cui esponente più di rilievo è il già
sopracitato economista Rüdiger Holz. Secondo la sua visione questo fenomeno concerne la mera ri-‐localizzazione geografica, da una località estera al Paese
d’origine dell’impresa, di una funzione operativa creatrice di valore88; secondo altri
autori, invece, lo stesso termine sta ad indicare il raggruppamento presso il Paese
di casamadre di tutte le unità produttive estere di proprietà o non89 (Kinkel e
Maloca, 2009). Interessante, inoltre, è il punto di vista di alcuni studiosi, che nell’indagare il back-‐shoring, si sono ritrovati ad accostare questo concetto con quello di «internalizzazione», e specialmente attraverso la distinzione tra back-‐
shoring e onshoring90 (Kinkel e Zanker, 2013). Da qui, ne sono derivate molteplici
definizioni e distinzioni, come ad esempio tra direct e indirect back-‐shoring (Renz, 2005), internal ed external back-‐shoring (Kinkel e Maloca, 2009), così come captive
back-‐shoring (Kinkel a Zanker, 2013) ed infine back-‐sourcing, circoscrivendo
quest’ultima accezione di significato al trasferimento d’azienda in base alla localizzazione dei fornitori.
Da questa breve panoramica è evidente notare come nel tempo non ci sia stata molta uniformità nel descrivere e nel formalizzare il fenomeno. Le principali ragioni stanno ovviamente nel fatto che si tratti di un qualcosa di “nuovo”, di un comportamento assunto dalle imprese solamente da poche decine di anni, e in virtù dei processi di globalizzazione che hanno condotto le imprese a oltrepassare i confini nazionali.
Ciononostante, seppure un medesimo termine è possibile possa avere più sfaccettature di significato, negli ultimi anni, e grazie al contributo di alcuni autori statunitensi come Ellram (2013) e Gray (2013), per indicare il fenomeno si è diffuso internazionalmente il termine reshoring, ovvero l’operazione di riportare la
produzione – precedentemente delocalizzata – nella nazione d’origine91. Termine
che, per ragioni di popolarità e semplicità, sarà utilizzato in questo lavoro di tesi.
88 Traduzione autonoma dalla definizione in lingua inglese “the geographic relocation of a functional value
creating operation from a location abroad back to the domestic country of the company”.
89 Traduzione autonoma dalla definizione in lingua inglese “re-‐concentration of parts of producion from own
foreign location sas well as from foreign suppliers to the domestic production site of the company”.
90 Seppure anche il concetto di onshoring sia stato oggetto di più definizioni, il significato più comune del termine è quello di «internalizzazione di unità produttive già presenti sul territorio nazionale», già trattato nel par. 2.1.1 (pag. 79).
91 Traduzione autonoma dalla definizione in lingua inglese “moving manufacturing back to the country of its
A prescindere dalla terminologia usata, comunque, la cui incertezza sopravvive tutt’oggi, è importante che nel riconoscere tale fenomeno si faccia riferimento ad una manifestazione aziendale, e del comportamento dei decisori a capo dell’impresa, che sia esattamente l’opposto di quanto accade nell’offshoring. Questa chiave di lettura, inizialmente suggerita da Skipper (2006), permette quindi di poter inquadrare al meglio la dinamica secondo cui:
• l’offshoring interessa la condotta delle imprese che delocalizzano la produzione da una nazione ad un’altra;
• e il reshoring considera quel cluster di imprese che, inversamente, hanno deciso di riportare la produzione – precedentemente trasferita – da un Paese estero presso quello d’origine.
La letteratura esistente, pertanto, sembra essere delimitata alle ricerche ed alle produzioni di quel gruppo di studiosi ed economisti che hanno visto nel fenomeno del rimpatrio aziendale – la cui novità scientifica è innegabile – un movimento significativo e meritevole di studio e analisi. In ogni caso, col passare del tempo e l’aumentare dell’intensità del fenomeno, l’attenzione verso il reshoring aumenta sempre più, e non solo per quanto possa concernere accademici o ricercatori, ma anche Stati, istituzioni, giornali e web, e ciò a testimonianza dell’importanza intrinseca del fenomeno, le cui ripercussioni non toccano solamente la sfera economica, ma anche quella politica e sociale.
La maggior parte di questi studi derivano oggi da ricercatori situati negli USA, peraltro il luogo in cui per primi a livello mondiale si sono evidenziati dei casi di rimpatrio aziendale, ma le indagini comunque si sviluppano in tutto il mondo occidentale, con punte considerevoli proprio in Italia.