1.2 LE TEORIE SULL’INTERNAZIONALIZZAZIONE D’IMPRESA 21
1.5.4 LA CATENA GLOBALE DEL VALORE 73
Le considerazioni fatte sinora in merito al fenomeno della delocalizzazione aziendale pongono l’attenzione sulla tematica della frammentazione internazionale dell’organizzazione di un’impresa e dei processi di cui si compone.
Tradizionalmente, per individuare le componenti strutturali di un’azienda è
utilizzato il modello della «catena del valore»73, introdotto nel 1985 dal già citato
economista statunitense Michael Porter nel suo elaborato intitolato “Competitive
Advantage: Creating and Sustaining Superior Performance”.
Egli sostiene che ogni impresa sia composta da un numero di processi definito e limitato, il cui lavoro sinergico porta alla creazione di prodotti e servizi destinati al mercato e al consumatore finale, soggetto per il quale l’impresa crea valore.
In figura 1.19 è rappresentato lo schema base di una catena del valore. Porter classifica le parti costituenti la catena in nove attività, primarie e di supporto, ognuna che contribuisce a fornire valore aggiunto per la produzione del bene finale. Si differenziano, pertanto, i processi primari di logistica, produzione, marketing e assistenza al cliente, da quelli secondari (di supporto) di approvvigionamento, sviluppo delle tecnologie, gestione delle risorse umane e di gestione delle infrastrutture.
Figura 1.19 – LA CATENA DEL VALORE
Questo modello è stato per anni, e lo è tuttora, un mezzo per descrivere e formalizzare l’organizzazione di imprese e talvolta anche di interi settori.
L’evoluzione del contesto però, dell’ambiente in cui le imprese sono costrette a concorrere, oramai sempre più internazionalizzato e unificato territorialmente, ha portato nel tempo a considerare la catena del valore come un modello dinamico, le cui componenti non sono sigillate all’interno del sistema, ma anzi possono essere dislocate ed esternalizzate. Assieme al concetto di divisione del lavoro, divisione che oggi è ritenuta essere internazionale, nasce pertanto quello di «catena globale
del valore»74, il cui risultato è un prodotto o un servizio frutto di lunghe catene
produttive globali alle quali imprese di differenti nazioni aggiungono pezzi di
valore75.
Si verifica esattamente una situazione in cui le imprese vanno alla ricerca di contesti e Paesi in cui delocalizzare fasi o interi processi produttivi, con il primario obiettivo di beneficiare dai vantaggi comparati di ogni economia. L’organizzazione internazionale della produzione, pertanto, adattandosi al contesto in cambiamento, comincia a basarsi su nuovi paradigmi, come quello dello scambio di funzioni produttive, che inducono i Paesi a specializzarsi verticalmente non più in industrie o settori ma bensì in specifiche funzioni.
74 In lingua inglese “global value chain” (GVC).
75 cfr. Battisti D., Iacorossi E. (2013), Note sulle Global Value Chains, Diplomazia Economica Italiana, Ministero degli Affari Esteri
L’affermarsi delle global value chain, comunque, oltre ad essere senza dubbio legato alla propagazione del fenomeno della produzione internazionale – tema principale di questa sezione del capitolo – è sensibilmente connesso alla diffusione di un innovato sistema di fare impresa, detto “multinazionale”.
Questo modello, protagonista delle GVC, si basa su un nuovo assetto organizzativo secondo cui asset e risorse sono disperse in tutto il mondo, tra sussidiarie altamente specializzate collegate tra loro da relazioni di interdipendenza. Le strutture sono necessariamente flessibili e sempre in cambiamento, ed i manager attivano strategie e innovazioni che diventano attuative per l’intera corporation. Cultura aziendale, valori, vision condivise e stili di gestione, infine, a discapito di forme di governance che prevedano strutture e sistemi formali, divengono
fondamentali per raggiungere unità e coordinamento76.
L’economia mondiale, pertanto, appare crescentemente strutturata attorno a catene del valore globali, i cui cambiamenti ed evoluzioni generano implicazioni determinanti in termini di commercio internazionale, produzione e occupazione. Le GVC assumono un’enorme importanza in quanto connettori di aziende, lavoratori e consumatori in tutto il mondo, promuovendo costantemente l’integrazione internazionale di imprese e nazioni. Per molti Paesi, infatti, specialmente quelli emergenti, la possibilità di inserirsi in catene del valore globali rappresenta per numerose ragioni una condizione vitale per il loro sviluppo, specialmente in termini di crescita economica e costruzione di competenze
specifiche77. Il fenomeno della frammentazione dei processi produttivi diviene
quindi un motore dell’economia e per l’economia, sostenendo allo stesso tempo sia la crescita della ricchezza globale sia delle forme di collaborazione degli attori che la promuovono, e pertanto risultando di fondamentale importanza nel sostenimento dei processi di globalizzazione in atto.
76 cfr. Daft R. L. (2010), Organizzazione Aziendale, Apogeo
77 cfr. Gereffi G., Fernandez-‐Stark K. (2011), Global Value Chain Analysis: a Primer, Center on Globalization Governance & Competitiveness
CAPITOLO 2
IL FENOMENO DEL RESHORING
2.1 I RISCHI DELL’IMPRESA INTERNAZIONALE
Nel Capitolo 1 si è discusso dei processi che inducono un’impresa a internazionalizzarsi. Molte sono le cause alla base di queste scelte, ma principalmente le motivazioni che sino ad oggi hanno condizionato più di tutte tali decisioni si possono ricercare in due principali fattori: il contesto competitivo, un ambiente sempre più dinamico e globalizzato, e i dichiarati obiettivi di risparmio di costo, raggiunti prevalentemente attraverso l’insediamento produttivo in Paesi esteri con economie comparate più vantaggiose. È pertanto che le tematiche dei fenomeni di globalizzazione e di internazionalizzazione produttiva nel corso del capitolo precedente hanno avuto un’importanza cruciale per la descrizione del modello di impresa internazionale.
Molte aziende – tipologia di impresa poi definita «multinazionale» –, nel corso degli ultimi decenni, hanno infatti deciso di delocalizzare la propria produzione oltre i confini nazionali, e ciò per incontrare una serie di benefici che nei Paesi
d’origine erano considerati difficilmente o per nulla raggiungibili78.
Ciononostante, insite alle scelte di internazionalizzazione e di offshoring esistono molteplici incognite, ma soprattutto rischi che, se non considerati o gestiti superficialmente, nel tempo possono indurre i manager a riconsiderare le decisioni prese. Trattasi di minacce ed eventi indesiderati il cui verificarsi può compromettere il raggiungimento degli obiettivi prefissati, e così far registrare danni economici agli investimenti effettuati. Ovviamente, ogni tipologia di attività
di impresa, anche domestica, prevede un certo ammontare di rischio79, ma nel
discutere di operazioni commerciali internazionali e di investimento diretto estero
78 Vedi Cap. 1.
79 Il cosiddetto “rischio d’impresa”, che in un contesto internazionale è caratterizzato da fattori di natura differente, non presenti nel contesto domestico, e che aumenta per via di una minore conoscenza del mercato, della concorrenza, del sistema normativo, ecc.
sicuramente tale percentuale di rischio tende ad aumentare, considerati fattori quali incertezza, inferiore conoscenza e a volte minore esperienza.
Si distinguono il rischio monetario e di cambio, relativamente alle svalutazioni o rivalutazioni della moneta estera rispetto a quella nazionale, il rischio di variazione dei costi di produzione, il rischio finanziario e di tasso, il rischio economico dovuto alle oscillazioni imprevedibili della domanda internazionale, e quello commerciale, dipendente dalla possibilità che il debitore possa non adempiere ai propri obblighi e rimanere insolvente anche dopo le opportune ma difficili manovre della controparte creditrice.
I rischi più comuni dai quali le imprese che si spingono oltre i confini nazionali devono guardarsi, e cercare di prevenire attraverso le opportune valutazioni, sono pertanto molteplici, e dipendono dalle diversità esistenti tra i Paesi che pongono in atto la forma di collaborazione internazionale. Infatti, un’impresa con finalità esplorative di questo genere è necessario comprenda il significato delle proprie scelte e agisca coscientemente in virtù delle differenze che caratterizzano i mercati
esteri80:
• differenze linguistiche e culturali; • differenze nei sistemi bancari; • differenze nel rischio di credito; • differenze nei sistemi giuridici;
• differenze nelle regolamentazioni tecniche, delle formalità valutarie e doganali e in tema di sicurezza.
Tale schema di differenze esistenti permette di descrivere una tipologia di rischio che, affliggendo le imprese internazionali, può condurre i debitori a rimanere insolventi indipendentemente dalla loro volontà. Il «rischio Paese», infatti, accorpa tutta una serie di rischi che dipendono direttamente dallo specifico contesto in cui l’azienda è localizzata. Una serie di eventi, non controllabili dalle controparti, che colpiscono imprese e imprenditori e derivano dalla gestione politica assunta dalle istituzioni governative di un determinato Paese. È per tale ragione che negli anni
molti autori81 hanno usato identificare questo rischio con quello politico,
80 cfr. Di Meo A. (2012), Il Decalogo per l’Esportatore, Assolombarda
adottando definizioni univoche. I primi a considerare il rischio Paese come concetto più ampio sono stati gli economisti Gabriel, Stobaugh e Robock, i cui studi hanno portato a valutare di importante influenza anche le differenze di tipo sociale – oltre quelle di tipo politico ed economico – così conducendo ad una definizione di rischio Paese come “l’insieme dei rischi che non si sostengono se si effettuano delle
transazioni nel mercato domestico, ma che emergono nel momento in cui si effettua un investimento in un Paese estero” (Meldrum, 2000)82. Questa visione, pertanto,
non ha fatto altro che estendere il significato di rischio Paese, comprendendo al suo interno non solo il rischio politico, tutte quelle decisioni politico-‐governative che possono compromettere il buon esito di un investimento estero, ma anche altre cinque tipologie:
• il rischio economico: distinguibile in rischio macroeconomico, se riferito all’intero Paese, e microeconomico, qualora il rischio sia della singola impresa o investimento;
• il rischio di trasferimento: rischio che il Governo del Paese possa attuare politiche restrittive per gli investimenti provenienti dall’estero;
• il rischio di fluttuazione del tasso di cambio: già citato in precedenza, si riferisce al rischio che il tasso di cambio possa mostrare fluttuazioni sfavorevoli all’investitore;
• il rischio di localizzazione geografica: rischi derivanti dalla particolare posizione e ubicazione geografica del Paese;
• il rischio derivante dal merito creditizio governativo: relativo al grado di solvibilità dello Stato.
In ogni caso, tutt’oggi esistono perplessità circa il rischio Paese, e non solo riguardanti la ricerca di una definizione univoca, ma anche in merito alla sua misurazione. In questa fase servirebbe unire un numero molto esteso di dati e indicatori, che renderebbe l’analisi molto complessa, quasi impossibile. Ecco perché la componente soggettiva, circa la reale percezione del e delle sue componenti, gioca una ruolo cruciale nella valutazione totale del progetto di
82 cfr. Meldrum D. H. (2000), Country Risk and Foreign Direct Investment, pubblicato in Business Economics:
the Journal of the National Association for Business Economists, Palgrave Macmillan.
L’autore, nel suo elaborato, esamina il concetto di rischiosità in relazione ad operazioni di IDE, e analizza il rischio Paese di un’impresa internazionale nell’accezione di “environmental instability”.
investimento estero, inducendo pertanto alcuni studiosi a concludere che “quanto
maggiori saranno i benefici percepiti dall’economia ospitante ed i costi di sostituzione di una produzione estera con una locale, tanto minore sarà il rischio politico a cui è esposta la multinazionale” (Sanguigni, 2007)83.