2.6 EVIDENZE EMPIRICHE DEL FENOMENO A LIVELLO MONDIALE 127
3.3.3 LE SCELTE DI RI-‐LOCALIZZAZIONE DELLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE 153
3.3.3.2 LE MOTIVAZIONI DELLE «DELOCALIZZAZIONI SENZA RITORNO» 157
Le aziende calzaturiere che per il momento hanno scelto di non ri-‐localizzare la propria produzione in Italia si basano su una strategia – fonte di vantaggio competitivo – che combina in maniera equilibrata i costi di produzione e la qualità offerta/percepita.
144 cfr. Uni-‐CLUB MoRe Back-‐Reshoring (2014), Indagine Esplorativa sulle Strategie di (ri-‐)localizzazione
delle Attività Produttive nel Settore Calzaturiero Italiano, Uni-‐CLUB MoRe Back-‐Reshoring Research Group
0 1 2 3 4 5 Incentivi statali al rimpatrio
Maggiore attrattività del mercato locale Eliminazione dazi doganali Migliore protezione del know-‐how Miglioramento del servizio al cliente Costi logistici inferiori Costi del lavoro equivalenti alle aspettative Pressioni sociali in Italia Disponibilità di fornitori italiani Tempi di consegna effettivi Rischio di perdita di competenze in Italia Quantità minime da acquistare/produrre Migliore coordinamento Manodopera di qualità Valore aggiunto Made in Italy
Tuttavia, dalle indagini condotte, queste imprese non escludono del tutto la possibilità di rientrare in Italia parte o la totalità dei processi produttivi, ma solamente a condizione che cambino alcuni fattori di contesto, che attualmente vincolano molte produzioni originariamente italiane a rimanere all’estero (il costo del lavoro su tutti). In aggiunta, le stesse imprese, comunque, riconoscono nel
Made in Italy e nella produzione 100% italiana un valore aggiunto per la
competitività dell’impresa sui mercati internazionali. Quindi, la necessità di un’azione politica decisa, a favore della valorizzazione di questo brand e del tessuto economico italiano, appare sempre più determinante ai fini del rilancio dell’economia italiana.
3.4 IL VALORE DEL MADE IN ITALY, TRA TRADIZIONE ED INNOVAZIONE
La produzione italiana è sempre stata contraddistinta, nel mercato mondiale, per elementi quali distintività, qualità (dei prodotti e delle risorse prime) e differenziazione. Nel tempo, soprattutto a partire dagli anni ’80, il «Made in Italy» è diventato sempre più diffuso, sia perché garantiva la provenienza geografica del prodotto, sia perché si discostava dal modello produttivo fino ad allora diffuso,
basato sul «fordismo»145 e sulla standardizzazione della produzione.
Il successo di questo brand a livello internazionale, ha indotto le imprese italiane a specializzarsi sempre più in quei settori oggi denominati “maturi”, dell’abbigliamento, del calzaturiero, dell’arredamento, della meccanica leggera o dell’agroalimentare, e a conquistare una leadership mondiale in termini di qualità ed unicità dell’offerta. Questa specializzazione, nata dal mix di un know-‐how tramandato ed irripetibile, ed una domanda sofisticata ed esigente, ha permesso all’Italia, e alle imprese italiane, di poter godere nel mercato di una reputazione esclusiva e, in tempi più lunghi, di favorire la formazione di distretti produttivi
145 Il «fordismo», termine coniato negli anni ’30, indica il modello produttivo introdotto dall’industriale statunitense Henry Ford. Basatosi sui principi del «taylorismo», egli avvia per la prima volta la tecnologia della catena di montaggio, un’innovazione che conduce a significativi risultati sia nella produttività di beni standardizzati sia nel raggiungimento di economie di scala.
regionali e cluster di imprese altamente specializzate146. Si pensi ad esempio, al
distretto del vetro di Burano, dell’occhiale di Belluno, del marmo di Carrara o del calzaturiero del Brenta.
Il cambiamento del contesto mondiale, però, sempre più globalizzato e composto di «economie aperte», ha negli anni messo in discussione il modello organizzativo tipicamente italiano. Infatti, l’incremento della concorrenza, di produzioni a basso costo, di competitors scorretti, l’assenza di politiche interne di supporto, e la diffusione dei nuovi modelli di divisione del lavoro, hanno indotto molteplici imprese sia a chiudere – perché impossibilitate a concorrere, considerate le micro o piccole dimensioni – sia ad adattarsi ai ritmi ed alle regole di una nuova economia globale. Il fenomeno dell’offshoring, così definito, ovvero della delocalizzazione della produzione presso Paesi esteri caratterizzati dal basso costo della manodopera, ha col tempo impoverito sia l’economia del Paese sia l’immagine e la competitività del Made in Italy, da sempre sinonimo di produzione 100% italiana. I nuovi schemi di divisione del lavoro, sempre più fondati sul principio dell’esternalizzazione delle funzioni a più basso valore aggiunto, hanno quindi minato la sostenibilità del modello produttivo italiano, basato sulla specializzazione in settori “maturi”, a differenza di quanti vogliono che l’economia di un Paese debba essere orientata, invece, principalmente allo sviluppo in settori di frontiera tecnologica (ICT, chimica, biotecnologie, e così via).
Il fenomeno del reshoring italiano, però, ha dato un segnale di svolta. Il ritorno di parte delle imprese, infatti, coincidente anche ad una modesta ripresa dell’economia del Paese, ha contribuito in maniera importante alla rivalorizzazione sia dei processi produttivi interni, sia delle competitività del Made in Italy. Il concetto di distretto industriale non appare come superato, bensì risulta essere la chiave per fondere tradizione con innovazione, e rilanciare la produzione e il commercio – anche estero – italiano. A favore di questa tesi, Gary Pisano, professore di Business Administration presso la Harvard Business School, ritiene che, seppure in determinati casi la divisione delle funzioni produttive porti benefici, la loro vicinanza risulta essenziale per non spezzare quel filo tra
146 cfr. Micelli S., Finotto V., Bedin D. (2008), Net Globo, un Nuovo Modello a Rete per i Processi di
investimenti e innovazioni di prodotto e di processo, che altrimenti andrebbe
intaccato, fondamentale per offrire prodotti unici e differenziati147.
L’applicazione di un premium price, in aggiunta, permette agli imprenditori che vendono Made in Italy di posizionarsi nelle fasce più elevate del mercato e diventare ancora più competitivi. La precondizione, ovviamente, è che si vendi un prodotto qualitativamente superiore e singolarmente creativo.
Secondo un’indagine condotta da Ipsos148 per KMPG, su un campione di
sessantacinque aziende italiane di grande dimensione, il 60% di queste dichiara di applicare un prezzo di vendita con un mark-‐up del 20%. Percentuale che sale
all’81% se si considerano solamente le aziende del settore «consumer markets»149
(fashion, food, abbigliamento, arredamento), a testimonianza del fatto che il «valore
aggiunto del Made in Italy cresca all’aumentare della capacità di settori e aziende nel saperlo comunicare e farselo riconoscere dal mercato attraverso un prezzo finale di vendita superiore»150.
Pertanto, produrre in Italia, e farlo sotto il marchio Made in Italy, conferisce alle aziende molteplici vantaggi nel dover competere su scala nazionale ed internazionale. Il vantaggio competitivo delle imprese che riescono a trasformare questi vantaggi in benefici, si fonda principalmente su due fattori, la cui complementarietà consegna particolare valore alla produzione italiana:
• l’elemento «materiale»: il know-‐how aziendale e l’expertise artigianale, prerequisiti per una produzione di qualità e di eccellenza tecnico-‐ ingegneristica;
• l’elemento «immateriale»: connesso all’unicità dei prodotti e all’ingegno creativo di una classe manifatturiera che ha fatto del design e del gusto estetico i propri punti di forza, in un processo di crescita fatto di centinaia di anni di tradizioni, culture e stili di vita tipicamente italiani.
Se il primo dei due elementi, attraverso una buona formazione, può essere trasferito anche all’estero, il carattere immateriale delle produzioni Made in Italy
147 cfr. Harvard Business Review Italia (2014), Imparate ad Adattare la Vostra Strategia, Strategiqs 148 Ipsos: azienda leader nel settore delle ricerche di mercato.
149 Settore che si contrappone a quello dell’«industrial markets» (meccanica, macchinari, produzioni industriali, chimica, farmaceutica, automotive).
150 cfr. KPMG Advisory (2015), The Italian Way. L’Industria Italiana tra Reshoring e Nuovi Modelli di
risulta difficilmente esportabile, poiché sinonimo di caratteristiche specifiche di innovazione, gusto ed estetica appartenenti alla cultura e alla storia italiana.