• Non ci sono risultati.

1.2 «Come, non che cosa»: ripensare la Entfremdung

1.4 Alcuni punti critic

La ripresa dell’alienazione da parte di Jaeggi rappresenta un momento centrale per il dibattito attuale su questo concetto ed è un passaggio essenziale all’interno della ricerca che si sta qui delineando. Il primo elemento che mi sembra perciò importante sottolineare è la capacità della filosofa di riportare la categoria di alienazione all’interno del dibattito filosofico contemporaneo attraverso il suo originale lavoro e, insieme, di mostrare la necessità di tornare ad occuparsi filosoficamente della questione etica della vita buona. Quest’ultima, sottolinea Jaeggi, è stata gradualmente abbandonata dalla filosofia241 e risulta generalmente relegata alla sfera del gusto e delle preferenze

R. Jaeggi, Alienazione e libertà in Marx, cit., p. 20. 239

R. Jaeggi, Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale, cit., p. 331. 240

Jaeggi attribuisce l’inizio di questo graduale abbandono in particolare a Kant e Rawls poiché, 241

scrive: «A partire da Kant si è consolidata l’opinione comune secondo cui la felicità e la vita buona, in quanto opposte a ciò che è moralmente giusto, non possano essere determinate filosoficamente. A partire da Rawls poi, in ragione dell’irriducibile pluralismo etico delle società moderne, il contenuto etico delle forme di vita è spesso ritenuto discutibile» (R. Jaeggi, Forme

personali, come se si parlasse del proprio modello di scarpe preferito o del tipo di frutta che si detesta.242 La ripresa del concetto di alienazione contribuisce a ristabilire la centralità della questione etica. Le due dimensioni risultano infatti strettamente intrecciate nella ripresa di Jaeggi che abbiamo qui delineato: da un lato, l’analisi dell’alienazione risulta indissolubilmente legata alla questione socratica del «come si dovrebbe vivere»243 in quanto il giudizio di alienazione - come è emerso in queste pagine - non è mai neutrale e porta con sé una valutazione di ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo. In secondo luogo, l’autrice intravede nella generale apatia e indifferenza contemporanee, stati che possono indicare una condizione di alienazione,244 il germe del disinteresse nei confronti delle questioni etiche e morali. Indagare l’alienazione, comprenderne le cause e, conseguentemente, tentare di risolverle è dunque un passo necessario al risveglio della domanda circa la vita buona.

Accanto a questo, un altro elemento che mi sembra importante sottolineare - emerso solo velatamente sin qui - è la sua intenzione di «riabilitare l’estraneo», come afferma e

Questi esempi richiamano quelli riportati dalla stessa filosofa nelle primissime pagine del suo 242

testo Kritik von Lebensformen che muove dalla tesi per cui criticare in maniera immanente le forme di vita sia non solo possibile, ma necessario. Questa critica si fonda proprio sulla distinzione tra questioni etiche e questioni che riguardano, invece, i propri gusti e le proprie preferenze. La differenza appare chiara già dal senso comune: «Qualcuno che diventa seriamente indignato quando vede un'altra persona che mangia banane o che indossa stivali da cowboy rossi è probabile che ci faccia ridere. Anche se si prova repulsione al pensiero delle banane o si è sopraffatti da una risata derisoria alla vista di stivali da cowboy rossi, è difficile immaginare un dibattito significativo sui pro e contro del mangiare banane o indossare stivali da cowboy rossi. Queste cose, come si dice, sono affari nostri e rappresentano, letteralmente, delle questioni di gusto. Diverso è invece quando osserviamo qualcuno che picchia il suo bambino. Qui ci indigniamo e crediamo di farlo a ragion veduta. Siamo pienamente convinti che non si tratti né di una questione di gusto né di una "questione personale" e che sia nostro dovere morale intervenire» (R. Jaeggi, Critique of forms of life, cit., p. 18).

R. Jaeggi, Forme di vita e capitalismo, cit., p. 33. 243

Penso ad esempio ai casi citati nell’analisi fenomenologica in cui, tra le altre, emerge come 244

forma di alienazione l’incapacità di appropriarsi del mondo e di sentirlo come proprio, come qualcosa che mi riguarda. In tali termini si può descrivere l’indifferenza.

sottolinea Giorgio Fazio.245 Questa “riabilitazione” avviene attraverso il riposizionamento della riflessione all’interno di un’antropologia appropriativa, la ridefinizione dell’alienazione nei termini di una relazione, la de-essenzializzazione di questa categoria e il suo allontanamento da ogni metafisica e teleologia, elementi che permettono a Jaeggi di «uscire dal cerchio magico di un pensiero dell’identità»246 e di considerare la disalienazione come un campo aperto e imprevedibile. Rigettando il modello dell’alienazione come perdita, la studiosa tedesca apre infatti il processo di disalienazione a tutto ciò di cui, anche se sconosciuto ed estraneo, il sé può appropriarsi correttamente. Come abbiamo visto, ciò che può essere per noi proprio non è qualcosa di già prestabilito e fissato e una vita riuscita non significa tornare su dei binari già tracciati ma vivere come propria ogni tappa del viaggio, anche quelle più inaspettate. In tal senso per Jaeggi l’estraneo non è più tout court luogo di alienazione.247

Questi elementi che si sommano a quanto abbiamo sin qui detto, confermano l’importanza, l’originalità e la ricchezza del pensiero di Jaeggi. Tuttavia, senza mettere in discussione il valore del suo lavoro, mi sembra importante evidenziare alcuni aspetti critici prima di proseguire verso gli altri autori del panorama contemporaneo.

R. Jaeggi, Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale, cit., pp 18-19; G. Fazio, Il 245

doppio volto dell’alienazione. La nuova teoria critica di Rahel Jaeggi, “Il rasoio di Occam”,

29/05/2013, <http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/01/29/il- doppio-volto-dell’alienazione-la-nuova-teoria-critica-di-rahel-jaeggi/>, (ultimo accesso 30/10/2019).

Ivi, p. 4. 246

Fazio sottolinea questo aspetto e aggiunge: «Jaeggi non manca di osservare come ci sono 247

dimensioni e tempi della vita in cui essere-fuori-di-sé fa sentire perfettamente in armonia con se stessi, come quando per esempio ci si innamora o si è sfrenatamente contenti di qualcosa» (R. Jaeggi, Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale, Introduzione, cit., p. 18).

In primo luogo credo sia importante mettere in luce che il carattere strettamente immanente della critica operata dalla filosofa248 fa sì che la sua portata sia estremamente limitata. Il giudizio di alienazione, infatti, può e deve essere esercitato nei confronti di quelle pratiche, relazioni, istituzioni, interne alla società o meglio alla forma di vita in cui ci si pone. Anche se condivisa, quest’ultima rappresenta sempre un campo di azione piuttosto circoscritto e, di conseguenza, la critica dell’alienazione rimane relegata al suo interno. Di questa possibile obiezione è ben conscia la stessa Jaeggi la quale scrive: «[…] il campo di azione di una simile critica può essere sempre e soltanto quello della rispettiva forma di vita condivisa - la sua efficacia non si estende al di là del contesto in cui è situata».249 Nonostante ciò, la filosofa non dedica molte parole per rispondere a questa obiezione, ma si limita ad affermare che il campo di applicazione è in realtà sempre più ampio della forma di vita, poiché l’influenza di quest’ultima si estende oltre i suoi confini fattuali. Pur tenendo conto di questo tentativo, l’obiezione continua a sembrarmi lecita e necessaria. Va dunque preso atto del fatto che la critica di Jaeggi non solo non può - né vuole in nessun modo - dirsi universale, ma individua un campo di applicazione ristretto rispetto a tutte le teorie dell’alienazione che abbiamo visto in precedenza.

Tutto ciò risulta particolarmente problematico se si considera che la critica operata da Jaeggi intende essere allo stesso tempo ricostruttiva e trasformativa, descrittiva e normativa. Da un lato, come abbiamo visto, il ricorso ad un approccio strettamente immanente permette di rigettare ogni impostazione paternalista pretenda di definire apriori ciò che è buono e ciò che è cattivo. Dall’altro lato, però, il contesto limitato a cui la critica può essere applicata rischia forse di minare la validità normativa e la capacità

In questo aspetto si rende evidente la continuità dell’approccio di Jaeggi con quello adottato 248

dagli autori della prima Scuola di Francoforte. La filosofa stessa richiama la loro impostazione critica riportando una considerazione di Adorno su Horkheimer in cui si legge: «Egli si rifiuta di pensare alla società come a una sorta di sfera di vetro, attraverso il cui solido ma trasparente involucro si possa scorgere il regno del vero, del bello e del bene. Secondo lui, la verità e i processi vitali della società sono intrecciati gli uni all’altra in profondità; non però nel senso della relativizzazione sociale della verità, ma perché la forma del vero stesso è costantemente connessa alla critica determinata di taluni momenti sociali, e ha il suo metro di misura nell’idea, rinnovata ininterrottamente, di una società giusta. La filosofia diventa, nel senso più forte, teoria critica» (R. Jaeggi, Forme di vita e capitalismo, cit., p. 45).

R. Jaeggi, Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale, cit,. p. 85. 249

realmente trasformativa250 a cui la critica mira. In tal senso, la mia posizione si avvicina a quella di Marco Solinas il quale, discutendo in maniera più ampia sulla teoria critica di Jaeggi, pone alcune osservazioni sul suo carattere immanente e scrive: «In breve, quando si limita l’osservazione alle rivendicazioni avanzate in contesti particolarmente limitati (presi magari dalla vita quotidiana), mantenendo così la massima prossimità agli attori, si corre però il rischio fatale di schiacciare l’analisi su un piano troppo basso: le giustificazioni addotte possono esprimere istanze a cortissimo raggio».251

Questo aspetto risulta strettamente legato ad un altro elemento che mi sembra importante sottolineare: la critica dell’alienazione di Jaeggi - e in generale tutta la sua teoria critica - si ferma alla diagnosi del negativo, guardandosi bene dall’indicare un positivo possibile. Ciò non emerge solo dal fatto che, come abbiamo visto, la filosofa sostiene chiaramente che non può esistere, né è mai esistita, una realtà totalmente e definitivamente libera dall’alienazione. Accanto a questo, la sua attenzione a non tradire l’immanenza e a non ricadere in forme di essenzialismo considerate inammissibili conduce, di fatto, all’impossibilità di rintracciare un positivo a cui rivolgersi e verso cui orientare la disalienazione. Come la critica dell’alienazione, anche l’individuazione di un positivo possibile è sempre limitata e contingente. Inoltre, nonostante la precisione che caratterizza tutto il lavoro di Jaeggi, si fa a volte fatica a capire in cosa possa

A tal proposito trovo interessate l’osservazione di Lucio Cortella il quale, prendendo in 250

considerazione l’impostazione critica di Jaeggi nella sua interezza, sottolinea che la filosofa riprende il modello hegeliano della critica immanente senza riuscire però a risolverne i problemi. Stando a Cortella infatti, il progetto di Jaeggi «riprende esplicitamente il modello hegeliano di una critica immanente, ovvero di un processo critico che non si affidi a criteri esterni (trascendentali o universali che siano) ma che parta dalle dinamiche immanenti all’ideologia o alle formazioni sociali». Questa ripresa porta però con sé un problema insito nello schema della negazione determinata, mai completamente risolto (seppur ben presente ad Hegel). Scrive Cortella: «Una assoluta immanenza dei criteri critici nella forma di vita da criticare si risolverebbe inevitabilmente nella insuperabilità di quella forma di vita e nella sua riaffermazione. Quell’immanenza deve perciò avere in sé un elemento di trascendenza che consenta di andare oltre il contesto». In questo senso, la sua affermazione mi sembra confermare il dubbio che sto qui sollevando circa la reale capacità trasformativa della critica di Jaeggi (L. Cortella, I problemi irrisolti della negazione determinata. Rahel Jaeggi fra

contestualità e trascendenza, “Consecutio Rerum”, n.3, 2017, pp. 329-338).

M. Solinas, Sulla recezione italiana della teoria critica di Rahel Jaeggi, “Consecutio Rerum”, 251

n.3, 2017, pp. 291-304, cit., p. 298. Solinas sostiene che ciò che manca alla critica operata da Jaeggi sia l’apertura che dischiuderebbe la dimensione politica.

concretamente consistere questo positivo.252 Se, infatti, una vita non alienata è per Jaeggi una vita «che si compie in una certa maniera - appunto non alienata»,253 la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un gioco di parole che elude il positivo che pure evoca.

La nozione di alienazione è dunque sotto questo aspetto ben lontana da quel concetto rivoluzionario che abbiamo visto in Marx. Essa non potrebbe in alcun modo assumere su di sé questo ruolo anche per un ulteriore elemento. Non solo l’alienazione come relazione in assenza di relazione riguarda il sé, il singolo soggetto da cui siamo infatti partiti, ma anche la disalienazione che muove da essa è un processo individuale. Con ciò non intendo dire che essa riguarda solamente il sé in maniera isolata; l’alienazione e il suo superamento, si giocano sempre nel punto di sutura tra dimensione individuale e sociale, tra il sé e il mondo, tra il soggetto e le sue forme di vita condivise. Intendo piuttosto dire che la disalienazione non è - e non può neanche lontanamente essere - un movimento di classe come invece era in Marx. Manca infatti in Jaeggi ogni riferimento ad un collettivo sociale e politico capace di farsi carico di questo ruolo. L’unico tentativo che possiamo rintracciare in tal direzione è il concetto di forme di vita le quali però, pur rappresentando un gruppo sociale, sono concepite come «fasci inerti normativamente strutturati di pratiche sociali»254 e mi sembrano pertanto essere più uno strumento analitico che un soggetto di azione.

L’ultimo elemento critico che vorrei proporre si collega a quanto detto fin qui e concerne in modo particolare il carattere formale della critica dell’alienazione elaborata dall’autrice. La sensazione è che il tentativo di definire l’alienazione come schema interpretativo della realtà finisca in qualche modo con l’attutire la gravità delle manifestazioni di alienazione. Richiamando quanto abbiamo visto nel primo capitolo, la Entfremdung si manifesta in Hegel come fenomeno che spezza ciò che è unito e ad essa corrisponde una semantica che è quella della morte e del disfacimento; nelle

Ciò mi sembra si renda evidente anche fuori dal discorso sull’alienazione, in particolare nel 252

tentativo operato da Jaeggi di descrivere una forma di vita riuscita, o meglio, un metacriterio attraverso cui tracciare il confine tra una forma di vita riuscita e non, senza cadere in posizioni etiche sostanziali. Scrive infatti la filosofa: «Una forma di vita riuscita sarebbe quella che ha la

qualità di facilitare, e non di ostacolare, processi di apprendimento collettivi riusciti […]» (R.

Jaeggi, Forme di vita e capitalismo, cit., p. 118).

R. Jaeggi, Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale, cit., p. 78. 253

R. Jaeggi, Forme di vita e capitalismo, cit., p. 121. 254

pagine di Marx si può toccare con mano il dolore fisico degli operai e rabbrividire di fronte al loro abbrutimento; questa disumanizzazione diventa ancora peggiore in Arendt, dove l’alienazione dell’umano si dimostra totale e arriva come un pugno allo stomaco del lettore. Tutto questo, mi sembra di poter dire, è pressoché assente in Jaeggi.255 Ciò si rende evidente in maniera particolare nei casi di alienazione presi in esame dall’analisi fenomenologica. Essi rappresentano l’unico momento in cui il concetto di alienazione avrebbe potuto far emergere una lacerazione profonda e pericolosa, e invece anche qui l’interesse principale di Jaeggi sembra piuttosto essere quello di dimostrare le condizioni di possibilità delle categorie da lei usate e la solidità teorica della propria posizione.

In conclusione, il risultato che si potrebbe trarre dalla riflessione di Jaeggi è che l’estraniazione sia più il negativo con cui occorre convivere, che non l’intollerabile contro cui combattere e in cui ne va dell’umano. Questa sorta di riduzionismo in chiave riformista rappresenta davvero - più dell’essenzialismo e del paternalismo da cui la filosofa si mantiene ben lontana - un rischio intollerabile che una rinnovata teoria dell’alienazione non dovrebbe correre.

Mi riferisco qui in modo particolare al testo sulla Entfremdung sul quale ci siamo soffermati in 255