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Critica delle patologie del lavoro contemporaneo

1.2 «Come, non che cosa»: ripensare la Entfremdung

1.3 Un problema sociale

1.3.2 Critica delle patologie del lavoro contemporaneo

Muovendo da questa tesi, proviamo ora a verificarne la validità e allo stesso tempo a vedere in che modo il concetto di alienazione riformulato possa essere applicato al nuovo mondo del lavoro come una lente analitica capace di cogliere ciò che altrimenti

In queste pagine il mio scopo non è quello di tracciare e approfondire tutti gli elementi 217

negativi del lavoro, ma mostrare come il concetto di alienazione così come viene riformulato da Jaeggi possa essere impiegato nella critica della società contemporanea.

Ivi, p. 328. 218

Ivi, p. 331. 219

sfuggirebbe. Rimanendo fedeli ai due elementi che sono secondo Jaeggi emblema del cambiamento avvenuto nel mondo del lavoro, prendiamo in considerazione l’odierno settore dei servizi e insieme, quella macro-area in cui possiamo far confluire tutte quelle attività che riguardano ciò che la filosofa - con Ulrich Bröckling -220 definisce come imprenditorialità del sé.221

Il settore dei servizi è oggi sviluppato in una pluralità di ambiti e impegna un gran numero di lavoratori che possono essere concepiti come un nuovo proletariato.222

Scrive così Jaeggi per descrivere alcune tipologie di lavori inscrivibili in questo ambito: «Questi ruoli in genere consistono in servizi non qualificati, molti dei quali eseguiti da donne, come le pulizie, la manutenzione degli edifici, i servizi di guardaroba, la reception, il lavoro alle casse e così via. La maggior parte dei servizi in questione è oggi eseguita da lavoratori appaltati attraverso agenzie: ossia sono servizi sistematicamente esternalizzati».223 Questo ambito lavorativo è spesso caratterizzato da salari molto bassi e da un impiego precario che viene commissionato al lavoratore solo per alcuni

Si veda U. Bröckling, The Entrepreneurial Self: Fabricating a New Type of Subject, SAGE 220

publications, London 2016. In questo testo molto interessante, l’autore prende in esame una nuova visione del soggetto che si è affermata come un imperativo nella società contemporanea, la figura del soggetto-imprenditore. Ciò da cui Bröckling muove è la constatazione per cui essere imprenditore oggi non è più solamente un lavoro o una vocazione che possiamo intraprendere, ma piuttosto ciò che dovremmo essere. In questo senso the entrepreneurial self è inteso dall’autore come il modello di un nuovo processo di soggettivazione che caratterizza la società contemporanea. La “creazione” del sé imprenditoriale non è quindi una condizione che può essere raggiunta una volta per tutte e dirsi conclusa; l’imprenditorialità è al contrario qualcosa per cui lottare costantemente, un criterio in base al quale veniamo sempre giudicati, un esercizio giornaliero attraverso cui plasmiamo noi stessi. Intesa in questo senso, l’imprenditorialità va concepita più come un campo di forze che come uno stato raggiungibile in quanto, nonostante ogni sforzo continuo «sei sempre e solo un imprenditore à venir, sempre solo nel processo di divenire tale, mai di esserlo» (Ivi p. 9).

In un contributo pubblicato per la rivista WSQ: Women’s Studies Quarterly, Jaeggi si 221

concentra sul mondo lavorativo contemporaneo il quale viene analizzato attraverso l’approccio tipico della filosofia sociale che abbiamo brevemente descritto. L’oggetto di indagine sono quindi le patologie del lavoro che vengono indagate nel tentativo di ricostruire il significato di questa attività come cooperazione sociale (R. Jaeggi, Patologie del lavoro, “Consecutio Rerum”, n.4, 2018, pp. 43-60).

Scrive Jaeggi iniziando la sua analisi: «Cominciamo con le condizioni lavorative nel settore 222

dei servizi e con ciò che in termini sociologici è stato descritto come ruoli svolti da un (nuovo o vecchio) proletariato» (Ivi, p. 4).

Ibidem. 223

periodi. Inoltre la protezione legale, e con essa la possibilità di rivendicare i propri diritti, è quasi del tutto assente e questa condizione risulta favorita dalle modalità di impiego utilizzate che passano attraverso appalti ad altre società o cooperative che sovente, per trarre più profitto, impiegano un numero di persone inferiore a quanto sarebbe invece necessario. A tutto ciò va aggiunto che il lavoro svolto in questo settore è, non di rado, monotono e ripetitivo e in molti casi non richiede grandi competenze o capacità personali.

In questa tipologia di lavoro e nella modalità in cui essa viene svolta oggi, mi sembra sia possibile rintracciare molte problematiche simili a quelle del lavoro preso in esame da Marx, seppur diverse nella loro forma: lo sfruttamento, la precarizzazione, un lavoro in cui è impossibile identificarsi e per cui si è pagati meno di quanto si dovrebbe. Accanto a questi elementi che caratterizzano classicamente l’alienazione lavorativa, la riflessione di Jaeggi ci invita a cogliere un ulteriore aspetto. Se si considera, ad esempio, il lavoro degli infermieri e, forse ancor peggio, quello degli operatori socio sanitari, ci si rende conto che oltre alla precarizzazione e allo sfruttamento, il malessere derivante dalla mansione svolta in questo settore è spesso dovuto all’impossibilità di fare bene il proprio lavoro e alla frustrazione che ne deriva. A causa di una crescente mercificazione di queste mansioni e di tutto il sistema ospedaliero che è ormai a tutti gli effetti un’azienda, gli infermieri e gli OSS devono oggi assistere un gran numero di pazienti, oltre ogni loro possibilità, sottostare a burocrazie e protocolli rigidi e sono spesso costretti a sopportare turni doppi che si prolungano per giorni, quasi ininterrottamente, incidendo negativamente sulla qualità del lavoro svolto - oltre che sulla salute psico-fisica del lavoratore. Ciò che subentra qui è quello che Jaeggi chiama un aspetto di carattere etico: «Le cattive condizioni di lavoro […] sono infatti degli ostacoli per realizzare ciò che i lavoratori hanno assunto come una sorta di etica del lavoro connessa con il compito da svolgere. O per dirla semplicemente: queste condizioni rendono il lavoro, proprio in quanto attività, un lavoro cattivo in senso morale».224

Un altro aspetto centrale del lavoro nel settore dei servizi può essere rilevato attraverso un ulteriore esempio che Jaeggi cita solamente ma che mi sembra emblematico, ovvero le mansioni svolte dalle hostess o dal personale impiegato negli hotel. Ciò che avviene in questa tipologia di lavoro, o meglio, ciò su cui questo tipo di

Ivi, p. 5. 224

lavoro si basa, è l’impiego della propria sfera emozionale e sentimentale che diviene un fattore decisivo per la qualità del servizio svolto. Accanto a questo, il lavoratore deve dimostrarsi sempre pronto a soddisfare direttamente una molteplicità di richieste che provengono non più solamente dal suo datore di lavoro, ma dal cliente stesso. Riprendendo un interessante studio di Rachel Sherman,225 si può affermare che questi due elementi sono proprio ciò che caratterizza il lavoro nell’ambito dei servizi - il quale è sempre interattivo - e lo distingue dal classico lavoro industriale. Come scrive chiaramente Sherman

In primo luogo, il prodotto di un lavoro nel settore dei servizi consiste almeno in parte in interazioni intangibili tra il lavoratore e il consumatore. Piuttosto che motori o prodotti elettronici, è il trattamento del cliente da parte del lavoratore a rappresentare una parte fondamentale di ciò che viene acquistato e venduto. Per descrivere tale aspetto del prodotto, Hochschild ha coniato il termine emotional labor, il quale si riferisce al lavoratore salariato che gestisce i suoi stessi sentimenti al fine di instaurare un certo stato mentale nel consumatore. La seconda differenza, strettamente collegata, sta nel ruolo centrale che il consumatore gioca nei processi che caratterizzano il lavoro nell’ambito dei servizi. Nella manifattura, i prodotti sono venduti in un mercato distante dal luogo di produzione, il quale potrebbe trovarsi a Detroit come in Bangladesh, così i clienti che acquistano questi prodotti non vedono mai il lavoratore che li ha fatti. Ciò non avviene con i clienti dei servizi, i quali non solo sono fisicamente presenti mentre il prodotto interattivo viene creato ma, di fatto, partecipano alla sua stessa produzione. In questo modo la relazione diadica tra manager e lavoratori diviene tripartita e ha luogo tra lavoratori, manager e clienti. Il lavoro interattivo inoltre, significa che la produzione e la consumazione avvengono simultaneamente, sono legate nel tempo allo stesso modo in cui esse avvengono nello stesso spazio.226

Dunque, ciò che caratterizza il lavoro nel mondo dei servizi è, in primo luogo, una vera e propria strumentalizzazione dei sentimenti227 del lavoratore, obbligato da contratto ad essere empatico e a saper entrare in contatto con il cliente per coglierne e

R. Sherman, Class Acts. Service, Inequality, Luxury, University of California Press, Los 225

Angeles 2007. Ivi, pp. 7-8. 226

R. Jaeggi, Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale, cit., pp.328-329. 227

comprenderne ogni esigenza. Accanto a questo, al lavoratore è richiesto di svolgere una molteplicità di compiti che possono variare a seconda delle volontà o capricci228

che il customer, la cui “cura”229 va sempre messa in primo piano, esprime. Una formazione del tutto flessibile e la capacità di combinare insieme diverse facoltà diventano quindi, in questo ambiente, dei requisiti essenziali. Vi è però anche un ulteriore elemento che emerge da un tale quadro: il lavoratore risulta totalmente investito nella sua mansione, sia perché il lavoro che svolge controlla e regolamenta persino i suoi aspetti più intimi - come appunto la sfera dei sentimenti e delle emozioni, sia perché si trova a dover ricoprire una molteplicità di compiti che lo impiegano nei modi più disparati per un tempo indefinito.

Questi aspetti vanno oltre i lavori nel settore dei servizi e risultano oggi rintracciabili anche in molte altre mansioni, persino in quelle che sembrano, almeno nella loro facciata, le più libere ed estranee a qualsiasi vincolo.230 I liberi professionisti sono infatti oggi, si potrebbe dire, falsamente liberi. Se ci si sofferma sull’analisi di questo ambito ci si accorge subito che esso è caratterizzato da un’estrema precarietà e da un’elevata concorrenza, le quali si sommano ad un diffuso imperativo all’autoproduzione e al continuo superamento di se stessi e delle proprie capacità. Queste incessanti e tangibili pressioni - legate e incrementate dal fenomeno che prima abbiamo chiamato imprenditorialità del sé - fanno sì che il lavoro diventi anche in questo caso una

Nel testo di Rachel Sherman l’analisi si sofferma in modo particolare sul mondo degli hotel di 228

lusso all’interno del quale la sociologa ha trascorso un anno per raccogliere dati, captare elementi, intervistare manager e personale. Ciò che emerge sin dalle pagine iniziali di questo testo è l’estrema variabilità delle richieste che lo staff dell’hotel si trova a dover soddisfare di fronte ai propri clienti. Capita infatti che questi ultimi richiedano una particolare marca di sigarette non presente nel negozio dell’hotel, o preferiscano il cibo tagliato in un certo modo o abbiano bisogno che un negozio anticipi la sua apertura giornaliera per poter acquistare un nuovo paio di scarpe. Richieste del genere nell’ambito degli hotel di lusso sono all’ordine del giorno e la capacità degli impiegati di quegli hotel di soddisfarle - e a volte persino di precedere il cliente nelle sue possibili richieste - è proprio ciò che caratterizza e distingue un luxury hotel dagli altri. Si veda il già citato R. Sherman, Class Acts. Service, Inequality, Luxury.

Tra virgolette perché il confine tra il prendersi cura ed il servire in questo tipo di lavori è molto 229

labile. Ciò si rende particolarmente evidente nei casi qui sopra citati i quali rappresentano solo alcuni esempi di come l’invito a curare il cliente (to care) finisca molto spesso col significare dover stare al suo servizio (to cater).

Jaeggi cita a tal proposito i giornalisti, gli scrittori, gli artisti in generale e tutti quelli che 230

dimensione patologica che assorbe chi lo svolge in maniera globale, senza limiti, né luoghi, né orari.231

Diverso eppure simile è il discorso per l’odierno lavoro industriale che vede, almeno nei paesi più sviluppati, una tendenza “all’umanizzazione"232 che passa attraverso processi quali l’eliminazione della catena di montaggio, la diffusione del lavoro in gruppo, il tentativo di riqualificare le mansioni e la responsabilizzazione del singolo lavoratore che, quindi, si sente coinvolto in prima persona. Anche in questa tendenza, apparentemente lontana da forme di alienazione, si riscontrano oggi degli elementi che possono rivelarsi patologici per i lavoratori. Da una parte questa umanizzazione del lavoro può essere concepita come il tentativo di eliminare - o almeno attutire - le cause e le forme dell’alienazione lavorativa classica che abbiamo rievocato tornando brevemente a Marx. Dall’altra parte, però, questa dinamica ha delle ripercussioni negative sui lavoratori in quanto, come afferma Jaeggi: «rappresenta un’interiorizzazione di costrizioni sistemiche e un’assunzione forzata di responsabilità per cose di cui, in realtà, i lavoratori non sono responsabili».233 I lavoratori sono falsamente liberi in quanto la produzione viene comunque dettata dalle esigenze di mercato e dall’azienda, ma risultano coinvolti personalmente nelle responsabilità e negli eventuali fallimenti. Ciò ha come conseguenza il fatto che il lavoratore, pur non avendo di fatto consistenti possibilità decisionali, avverte su se stesso il peso della responsabilità, la continua minaccia del fallimento, una pressione e un controllo costanti.234 Questa falsa autonomia che anziché liberare il lavoratore lo affligge, mostra

Un esempio forse banale ma a mio avviso efficace a tal proposito, può essere rappresentato 231

dai lavoratori con la partita iva oggi in Italia. Il senso comune a tal proposito è infatti quello di un terreno in cui non solo vige un’estrema precarizzazione e non vi è una tutela normativa adeguata, ma il lavoratore è anche costretto a spendersi interamente nel suo lavoro con orari che violano ogni diritto e mansioni che si moltiplicano.

Jaeggi sostiene che la spinta ai cambiamenti che si sono registrati e si stanno registrando 232

nel mondo industriale possa dirsi guidata dal motto: «umanizzare il mondo del lavoro» (R. Jaeggi, Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale, cit., p. 330).

Ibidem. 233

Jaeggi trattando brevemente questo aspetto riporta una citazione di Sabine Flick la quale 234

afferma: «Questo è uno dei paradossi delle nuove forme di lavoro: si lavora nell’illusione di poter creare qualcosa in prima persona. Si è accresciuto così innanzitutto il peso delle responsabilità, ma contemporaneamente ci si trova impotenti di fronte ad un sistema enorme» (Ibidem).

ancora una volta che il lavoro contemporaneo, anche quando è “umanizzato”, non è scevro di elementi che minano una vita lavorativa riuscita.

In questi aspetti qui elencati come esempi va rintracciata quella che prima ho chiamato, assieme a Jaeggi, soggettivizzazione del lavoro. Essa sostituisce alla frammentazione, alla routine e all’impoverimento delle mansioni - caratteristiche del lavoro alienato classicamente inteso - un lavoro flessibile, che coinvolge le emozioni e impegna la persona a 360 gradi. Detto diversamente, un lavoro che coinvolge l’uomo intero. Gli esempi qui addotti ci mostrano però che questo cambiamento non corrisponde ad un mondo del lavoro finalmente felice per il lavoratore, ma al contrario, ci restituiscono il quadro di un lavoro in cui, ancora una volta, la persona risulta minata nella sua totalità. Scrive a tal proposito Jaeggi riassumendo

Ciò che vediamo, quindi, sono da un lato i fenomeni molto classici del lavoro non specializzato e non valorizzato, dovuti a condizioni di lavoro che rendono i lavoratori intercambiabili rispetto alle loro capacità e personalità. Mentre, all’opposto, abbiamo a che fare con un lavoratore del tutto flessibile il cui tempo libero è trasformato in tempo di lavoro […]. Così laddove nel lavoro industriale classico era una ben definita non- flessibilità che portava alla frammentazione delle mansioni e alla sofferenza del dipendente, i dipendenti di oggi soffrono a motivo per la variabilità delle competenze che vengono richieste dalle loro prestazioni e dalla indeterminatezza che ne consegue. Ed è certo che qui l’idea della persona intera e della realizzazione del suo potenziale diventa propriamente un problema.235

Il lavoro oggi non è più - o meglio è sempre meno - il tempo trascorso in fabbrica calcolato e speso in una specifica mansione, e non si è rinchiusi necessariamente davanti ad una catena di montaggio né, in molti casi, vi è produzione materiale di qualcosa. Eppure, in un contesto diverso e sotto forme differenti, è possibile vedere emergere molteplici fenomeni che possiamo giudicare alienanti. Questo giudizio diviene possibile se si concepisce l’alienazione come indice della qualità delle relazioni che hanno luogo nel mondo lavorativo e attraverso di esso. Intendere l’alienazione come ostacolo ad un processo di appropriazione del sé riuscito permette di giudicare alienante il lavoro odierno anche quando si definisce umanizzato, libero e formalmente annulla le condizioni dell’alienazione classica. Come può infatti, una persona realizzarsi

Jaeggi, Patologie del lavoro, cit., pp. 6-7. 235

- nel senso che abbiamo già richiamato del darsi-realtà - in un contesto lavorativo in cui la sua autonomia è un’illusione che, in maniera paradossale, contribuisce ancora di più alla sua schiavitù? E come può una persona vivere in maniera positivamente libera se è costretta per il suo lavoro - che pure è definito “libero” - a rendersi continuamente spendibile secondo i criteri del mercato?

Confermando la tesi da cui siamo partiti, possiamo affermare che il riformulato concetto di alienazione permette di evidenziare nuovi elementi patologici nel mondo del lavoro e di indicare nuove forme di alienazione che sfuggirebbero alla sola formulazione marxiana. Attraverso di esso è possibile analizzare in maniera critica le questioni che occupano quotidianamente il dibattito sociologico e politico (ad esempio il lavoro sottopagato, la scarsità del lavoro, la precarizzazione, ecc.), e allo stesso tempo porre la domanda sul come il lavoro dovrebbe essere. Il concetto di alienazione di Jaeggi, infatti, pone l’accento sulla qualità del lavoro quale condizione costitutiva dell’individualità e della libertà,236 e in base a questo giudica una determinata mansione cattiva.

Così intesa l’alienazione dimostra essere un concetto decisivo per Jaeggi e per l’intera indagine della filosofia sociale. Solo la lente analitica dell’alienazione permette infatti di porre la domanda sul lavoro buono, cioè un lavoro che favorisca una vita libera e un rapporto di appropriazione riuscito. Questa domanda risulta particolarmente importante per la concezione del lavoro che soggiace a quanto abbiamo detto sin qui il quale viene inteso, in linea con Hegel e Marx, come medium della propria sussistenza, della realizzazione della propria persona, dell’espressione del proprio valore e della propria dignità. Accanto a ciò Jaeggi aggiunge un ulteriore elemento che possiamo comprendere guardando ai risultati della ricerca di Christophe Dejours.237 Per quest’ultimo - contro ogni tesi neoliberista per cui il lavoro o non esiste più, o non pone più alcun problema - il lavoro ha un ruolo assolutamente centrale nella società odierna poiché «rimane il solo mediatore della realizzazione del sé».238 Questa realizzazione

Traslando la definizione di «sociale» che forniscono Jaeggi e Celikates. R. Jaeggi, R. 236

Celikates, Filosofia sociale. Una introduzione, cit., p. 4.

Si veda in particolare C. Dejours, L’ingranaggio siamo noi, Il saggiatore, Milano 2000; C. 237

Dejours, Travail, usure mentale, Bayard Éditions, Paris 2008; C. Dejours, Travail vivant 1:

sexualité et travail, Édition Payot & Rivages, Paris 2009.

C. Dejours, L’ingranaggio siamo noi, cit., p. 56. 238

del sé non va però intesa nei termini di un semplice rispecchiamento, di un inveramento quasi automatico del sé nella sua attività. Al contrario, il lavoro è il luogo in cui si sperimenta la «resistenza del materiale»239 in cui cioè si sperimenta lo scarto sempre presente tra le proprie intenzioni e la loro effettiva realizzazione e in cui, quindi, si è continuamente esposti al fallimento. Riprendendo questa posizione, il lavoro viene inteso da Jaeggi come un «confronto pratico col mondo»240 che può riuscire o meno, quindi una relazione la cui qualità non è mai garantita.

L’esempio della critica della dimensione lavorativa contemporanea mi sembra dunque ampiamente dimostrare che il ricorso ad uno strumento concettuale in grado di porre la domanda sulla qualità e di giudicare la riuscita dei rapporti attraverso cui viviamo, risulta oggi essenziale. In ciò consiste il ruolo specifico che il concetto di alienazione delineato in questo capitolo può e deve avere all’interno dell’analisi della società odierna.