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Disgregazione e disumanizzazione: Hannah Arendt

1.3 Trasformazione del campo semantico dell’alienazione nel pensiero del ‘

1.3.2 Disgregazione e disumanizzazione: Hannah Arendt

Accanto all’autoestraneazione, un altro aspetto che è emerso in maniera evidente, specialmente in Marx, è la disumanizzazione e la disgregazione di ciò che è propriamente umano quali conseguenze dirette dell’alienazione. Così come viene messo a tema in modo particolare nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’uomo alienato è un uomo abbrutito, degradato, ridotto ai suoi bisogni animali e spesso

A. Camus, Le mythe de Sisyphe, cit., p. 31. 103

Ivi, p. 16. 104

addirittura privato di questi ultimi. Ciò che emerge dalle pagine marxiane e, ancora prima, dalla constatazione hegeliana della riduzione dell’uomo alla sua mera attività, è un evidente annichilamento dell’umano in ogni suo aspetto.

Nel corso del ‘900 tale annichilamento raggiunge alcune delle sue espressioni peggiori e mostra la sua potenza distruttrice dinanzi la quale diviene impossibile far finta di niente. Se l’analisi marxiana denuncia lo sfruttamento e il degrado dell’uomo che a stento riesce a sopravvivere, gli autori del Novecento si trovano a dover mettere a tema una disgregazione dell’umano che si rivela totale, per tentare di arginarla, comprenderla e dare voce a quell’umanità ferita a morte. Tra questi, l’analisi di Hannah Arendt risulta particolarmente lucida e i suoi testi, seppur non rivolti direttamente all’alienazione,105 ci aiutano a cogliere gli apici cui, nel corso del XX secolo, sono giunte la disgregazione e la disumanizzazione.

Queste ultime emergono dall’analisi arendtiana sotto due punti di vista: in primo luogo, quello delle vittime appositamente spogliate dai loro carnefici di ogni qualità umana; in secondo luogo quello dei responsabili e di tutti coloro che, in maniera volontaria o involontaria, hanno perpetrato e reso possibile quanto accaduto. Per quanto riguarda il primo aspetto, particolarmente significativa è l’analisi che Arendt fa dei Lager i quali vengono descritti come luoghi in cui viene attuato l’annientamento dell’uomo in ogni sua caratteristica. Nei campi di sterminio, scrive Arendt: «Non è in gioco la sofferenza, di cui ce n’è stata sempre troppa sulla terra, né il numero delle vittime. È in gioco la natura umana in quanto tale»,106 ecco perché essi ci interessano particolarmente come manifestazione di quella disgregazione che, già in atto nella

Mi riferisco ai testi qui presi in considerazione e non intendo affermare che la filosofa non si 105

interessi al concetto. Arendt anzi mette direttamente a tema l’alienazione in The Human

Condition prendendo in esame l’età moderna. Qui la sua tesi principale, in opposizione, a suo

dire, a quella marxiana è che: «L’alienazione del mondo, quindi e non l’alienazione di sé, come pensava Marx, è stata la caratteristica distintiva dell’età moderna» H. Arendt, The Human

Condition, The University of Chicago, Chicago 1958 (Vita Activa. La condizione umana, trad. it.

S. Finzi, Bompiani, Milano 2016, p. 187). Su questo aspetto e su tale interpretazione dell’alienazione ritorneremo in modo particolare attraverso il pensiero di Franck Fischbach nel paragrafo 3.1. Nelle seguenti pagine l’intento sarà piuttosto quello di spostarci ad altri testi della filosofa per riflettere sulla radicalità cui la disumanizzazione può giungere.

H. Arendt, The Origins of Totalitaranism, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1951 (Le 106

società capitalista basata sullo sfruttamento, diviene assoluta nei regimi totalitari del'900.107

I Lager vengono descritti da Arendt non solamente come un luogo di sfruttamento, di tortura e di uccisione, ma come il vero fulcro dei totalitarismi del ‘900, il loro cuore pulsante.108 Essi infatti sono il luogo in cui la trasformazione della natura umana viene resa possibile e posta in atto attraverso l’eliminazione di ogni spontaneità, cioè, di ogni espressione del comportamento umano riconducibile alla libertà e alla vita autentica. Il fine di questa trasformazione è il dominio totale dell’uomo da parte dei regimi totalitari. Come evidenzia l’analisi arendtiana, i totalitarismi mirano a sostituire, in maniera quasi scientifica, questa spontaneità con un fascio di reazioni così che l’uomo diventi niente più che il cane di Pavlov che mangia quando sente la campanella e non più quando ha fame.109 In questo modo, anche i sopravvissuti ai campi di sterminio non sono nulla più che cadaveri, dei corpi ancora in vita ma totalmente svuotati del loro proprio essere.

Questo totale annichilamento dell’umano avviene nei Lager attraverso tre diversi passaggi. Il primo consiste nell’eliminazione dell’uomo in quanto soggetto di diritto. Ciò viene ottenuto essenzialmente attraverso due azioni: in primo luogo alcune categorie di

Nella sua analisi Arendt parla di totalitarismi al plurale in quanto intende riferirsi sia al 107

nazismo che allo stalinismo. In realtà, però, nelle sue pagine la filosofa sembra soffermarsi maggiormente sul fenomeno del nazismo. Ciò può essere ricondotto alle sue origini tedesche e al fatto che, nel periodo di stesura dell’opera, le informazioni disponibili riguardavano maggiormente la Germania. Jerome Kohn, direttore del “Centro Hannah Arendt” della New

School University di New York, scrive a tal proposito: «Quando Hannah Arendt pubblicò Le origini del totalitarismo nel 1951, la seconda guerra mondiale era finita, Hitler era morto, ma

Stalin era ancora vivo e governava. Arendt voleva dare ai suoi lettori un senso della realtà fenomenica del totalitarismo, della sua comparsa nel mondo in quanto forma di governo terrificante e del tutto nuova. […] Senza dubbio, il centro focale della sua analisi è soprattutto il nazismo, non solo perché su di esso a quel tempo era disponibile una maggiore informazione, ma anche perché Arendt aveva più familiarità con la Germania, e quindi con le origini del totalitarismo in questo paese» (J. Kohn, Il totalitarismo: il rovesciamento della politica, in F. Fistetti, F. R. Recchia Luciani (a cura di), Hannah Arendt. Filosofia e totalitarismo, Il Melangolo, Genova 2007, pp- 46-47).

Questa definizione è riportata da Simona Forti la quale sostiene: «il cuore del funzionamento 108

totalitario è il campo di sterminio, interpretato dalla Arendt come il “laboratorio” in cui si vogliono sperimentare gli assunti ideologici del regime» (S. Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma 2005, cit., p. 38).

È la stessa Arendt a fare riferimento a questo esperimento per mostrare ciò che accade 109

quando l’uomo è privato della sua spontaneità (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 600).

persone vengono escluse dalla protezione della legge e giudicate arbitrariamente criminali, in secondo luogo i Lager vengono posti al di là del sistema giuridico e penale ordinario. Il passo successivo verso la totale disumanizzazione è l’uccisione della personalità morale dell’uomo attraverso la creazione di situazioni in cui la coscienza individuale non risulta più in grado di compiere valutazioni in quanto viene meno la distinzione tra bene e male. Scrive Arendt: «Quando un uomo si trova di fronte all’alternativa di tradire gli amici condannandoli a essere uccisi o di abbandonare alla morte la moglie e i figli, per cui è in ogni senso responsabile, quando persino il suicidio significherebbe l’immediato assassinio della sua famiglia, come può egli decidere?».110

Infine, una volta ucciso il soggetto di diritto e la personalità morale, l’ultimo passo che manca verso la totale disgregazione dell’umano è l’eliminazione di ogni possibile differenziazione dell’individuo, il livellamento di ogni sua peculiare identità. In questo consiste, appunto, il terzo e ultimo passo della trasformazione dell’uomo in un vuoto cadavere. I metodi attraverso cui ciò viene compiuto dai regimi totalitari sono molteplici e tristemente noti: il trasporto in condizioni disumane, il taglio forzato dei capelli, l’obbligo di indossare la stessa divisa, l’utilizzo di metodi di tortura.

Attraverso quest’ultimo passaggio si arriva al totale annullamento delle capacità e delle peculiarità umane; nessuna spontaneità, nessuna individualità, solo un fascio di reazioni prevedibili e totalmente dominabili. L’annientamento della natura umana ha dunque avuto luogo, siamo di fronte all’apice della spersonalizzazione. Hannah Arendt ci restituisce una descrizione altamente esemplificativa di tale risultato

Poi vennero le fabbriche della morte e tutti morirono insieme: giovani e vecchi, deboli e forti, malati e sani. Morirono non come individui, non come uomini e donne, bambini o adulti, ragazzi o ragazze, buoni o cattivi, belli o brutti, ma furono ridotti al minimo denominatore comune della vita organica, sprofondati nell’abisso più cupo dell’eguaglianza primaria. Morirono come bestiame, come cose che non avevano né corpo né anima e nemmeno un volto su cui la morte avrebbe potuto apporre il suo sigillo.111

Ivi, p. 619. 110

H. Arendt, L’immagine dell’inferno. Scritti sul totalitarismo, Editori Riuniti, Roma 2001, p. 100. 111

La disumanizzazione che abbiamo intravisto in Hegel e denunciato attraverso Marx diviene inevitabilmente in Arendt un orrore insostenibile che umilia, degrada e uccide l’uomo in ogni suo aspetto. Dinanzi alle vittime dei campi di sterminio l’annichilamento dell’umano appare irreversibile, una mostruosità che gli uomini non potranno mai punire né perdonare.112

Se ci si sposta all’altro punto di vista, quello dei carnefici, la disgregazione e la disumanizzazione risultano senz’altro differenti, ma non per questo meno profonde. Guardando al reportage giornalistico compiuto da Arendt durante il processo a Eichmann,113 ciò che emerge e colpisce è la descrizione dell’imputato il quale, più che apparire come un temibile criminale, dà continuamente prova della sua stupidità114 e mediocrità. Ciò che più risulta evidente è la totale incapacità di Eichmann di porsi dal punto di vista degli altri, di uscire da sé e, accanto a questo aspetto, la sua incapacità di formulare un discorso senza utilizzare frasi fatte e clichés. Scrive Arendt: «quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata ad un’incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro». Per la filosofa, infatti, il pensiero autentico richiede sempre capacità di riflessione intesa, nel senso etimologico del termine, come capacità di rispecchiarsi in qualcos’altro che, prima ancora che un qualsiasi altro interlocutore, deve essere il mio stesso io. Di conseguenza, un pensiero è realmente tale solo dal momento in cui il soggetto compie una sorta di sdoppiamento, di scissione interna in cui l’io diventa allo stesso tempo interlocutore di se stesso. Solo così inteso, il pensiero è un’attività che caratterizza propriamente l’uomo e gli permette di radicarsi.

L’incapacità di Eichmann di porsi da un punto di vista diverso ci indica perciò la sua totale impossibilità di pensare in maniera autentica e fondante, cioè, in maniera propriamente umana. È in questa incapacità che va rintracciato il nucleo del male, definito per questo banale da Arendt, compiuto da Eichmann, dai nazisti e da tutti coloro che, pur non sentendosi affatto dei criminali, causarono la morte di milioni di persone.

H. Arendt, Responsibility and Judgment, Schocken, New York 2003 (Alcune questioni di 112

filosofia morale, Einaudi, Torino 2006) p. 23.

H. Arendt, Eichmann in Jerusalem, Viking Press, USA 1963 (La banalità del male. Eichmann 113

a Gerusalemme, trad. it. P. Bernardini, Feltrinelli, Bergamo 2013).

È la stessa Hannah Arendt ad utilizzare più volte nel testo questo termine per descrivere la 114

L’aggettivo “banale” non intacca dunque in alcun modo l’estensione e la mostruosità della malvagità compiuta ma, anzi, se possibile, la rende ancor più spaventosa perché ne sottolinea la disumanità e l’infondatezza. Se risulta già difficile comprendere la mostruosità inflitta alle vittime, risulta ancor più difficile capire che tutto è stato reso possibile grazie a persone apparentemente normali, addirittura mediocri, che cambiarono totalmente i loro giudizi e la loro impostazione morale in un tempo brevissimo, senza neanche accorgersene; uomini e donne che, continuando a credersi fedeli al comandamento «non uccidere», denunciarono e fecero deportare i loro vicini di casa senza che la loro “normalità” venisse in alcun modo turbata.

È in questa totale mancanza di pensiero, di riflessione, di coscienza e di morale che va individuata la disumanità dei carnefici i quali, lontani dall’essere dei mostri, sembrano però più simili al già citato cane di Pavlov che ad un’autentica umanità. Senza voler tacere il ruolo del terrore e della propaganda115 sulla centralità dei quali qui non mi soffermerò, ciò che mi interessa sottolineare è la dissoluzione dell’uomo la quale risulta evidente, in modalità differenti, tanto nelle vittime quanto nei carnefici.

Arendt ci permette dunque di evidenziare l’esito necessariamente mortifero e distruttivo dello sradicamento dell’uomo e della sua disumanizzazione, rendendo così ancora più urgente la denuncia di quella pluralità di fenomeni che ruotano attorno all’alienazione. Questi ultimi sono rintracciabili nei testi arendtiani attraverso la semantica dello sradicamento, del dominio, della perdita di ciò che è autentico, della spersonalizzazione e della disumanizzazione, categorie che, come abbiamo visto fin qui, descrivono il fenomeno dell’alienazione. La teoria critica contemporanea non può, a mio avviso, permettersi in alcun modo di sottovalutare la lettura della modernità e del totalitarismo offerta da Hannah Arendt attraverso la quale emerge la consapevolezza del fatto che l’alienazione non si risolve esclusivamente in espropriazione, assoggettamento, estraneità a sé e ritorsione di ciò che è “prodotto” contro il produttore, ma può condurre alla disarticolazione completa dell’uomo e, con esso, del tessuto sociale.

A tal proposito si veda H. Arendt, Le origini del totalitarismo; E. Traverso, Il totalitarismo, 115

Mondadori, Milano 2002; E. Traverso, Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, Feltrinelli, Milano 2012; A. Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza

1.3.3 Dominio e perdita di libertà. L’alienazione come forma del sistema di