PRIMA PARTE
1. Uno strano tipo di militanza
1.1. Aldo Capasso
Come già ricordato, l’esordio del recensore e del poeta avvengono en- trambi nel segno di Aldo Capasso. Sui rapporti con questo autore è im- possibile non citare il breve ma prezioso articolo di Adele Dei raccolto negli atti della giornata di studio dedicata al letterato veneziano:
Fra Capasso e Caproni corrono solo tre anni, ma la distanza di notorietà, rela- zioni e titoli appare in questi anni incommensurabile. Capasso, con la sua dav- vero stupefacente precocità e versatilità di interessi e di scrittura e soprattutto con la sua capacità di stringere rapporti e alleanze, sembra essere il nume tute- lare che presiede quasi integralmente al debutto caproniano, il primo e all’ini- zio pressoché unico contatto che gli apre le porte di giornali, riviste, editori (ma va ricordata anche la conoscenza con Giorgio Bassani, Fidia Gambetti e Giambattista Vicari, avvenuta durante il servizio di leva a Sanremo, dal set- tembre 1933). Capasso non solo tesse continuamente nuovi legami, ma li con- divide e li diffonde in una rete – quasi un partito – di sodali, che si trovano a pubblicare con gli stessi editori o sulle stesse testate, a recensirsi a vicenda, a prendere posizioni comuni.21
Tra i primi sostenitori della poesia di Caproni, Aldo Capasso22 firma la
prefazione dell’esordio Come un’allegoria, propiziando anche l’uscita di Ballo a Fontanigorda nel marzo del 1938 sempre dall’editore geno- vese Emiliano degli Orfini. L’inizio di questa collaborazione si può fer-
21 Capasso e Caproni, cit., p. 49.
22 Impeccabile il ritratto che ne offre STEFANO VERDINO, con la specificazione che
dal 1932 circa Capasso romperà con il gruppo degli ermetici mutando radicalmen- te la propria opinione: «Poco più che ventenne, precoce traduttore ed esegeta di Valéry, studioso di Proust, intelligente critico di Ungaretti, corteggiato da Monta- le, collaboratore delle più importanti riviste da “Solaria” a “Il Convegno”, con en- tusiasmo giovanile, sulla scorta dei suoi maestri reali (Rensi e Schiaffini dell'Uni-
mare al 1933 quando su «Espero», rivista di Ferdinando Vicari e dello stesso Capasso, trova posto Prima luce.23 Il giovane poeta non è parco
di interventi sul suo sostenitore e pubblicizza l’attività capassiana nel biennio 1935-1937,24 con note che inquadrano il critico e il poeta.25
Quello che ci troviamo di fronte è un giovane presentatore di parte, a volte preoccupato di ben riuscire, animato da una brillantezza ingenua e bellicosa, che tradisce il seme acerbo di un cambiamento, già addebi- tato alla lezione ungarettiana, nel senso di una poesia sorta dal basso e impostasi grazie al lavoro della generazione precedente: sarà questa una delle marche più insistenti del critico, cagione di una certa debo- lezza da “lettore ammirato” senza opposizioni di sorta.
Ma un altro aspetto, all’infuori di qualsiasi altra considerazione, di ‘contenuto’, ci interessa sommamente nella poesia capassiana: il ritmo. Perché (sarà un chiodo fisso, ma nessuno ce lo potrà togliere di testa) è tutto nel ritmo che s’accentra il problema capitale della poesia d’oggi. È esso che dà corpo alla parola: che ne dà, diciamo così, il ‘peso’, che la incarna insomma. E la pa- rola varia, se non osiamo dire di significato, certo di valore espressivo e di po- tenza evocatrice, a seconda ch’è posta qua e là nel verso, a seconda cioè del- versità di Genova) e ideali (Valéry, Ungaretti, Gargiulo) sostiene, a partire dal 1930, le ragioni dell'ermetismo (è uno dei primi ad usare il termine), all'interno di una cultura filosofica dell'irrazionalismo (l'eredità rensiana); ma questo ermetismo deve comportare una realizzazione, per così dire, formalizzante, in cui l'esito clas- sico invera l'istanza di una poesia come “aura”, ovvero come rarefatto sovramon- do», Storia delle riviste genovesi, Genova, La Quercia, 1993, p. 118.
23 Per una ricognizione del rapporto Caproni-Capasso, cfr. DEI, Giorgio Caproni,
Milano, Mursia, 1992, pp. 5-30.
24 «Il paese senza tempo», «L'Araldo letterario», VII, 8 settembre 1935, Prose, pp.
27-30.
25 «Nota sul Don Garzia», «Il Popolo di Sicilia», 18 aprile 1936, ivi, pp. 45-7; Aldo
Capasso, poeta dell'azione, «L'Araldo letterario», 20 ottobre 1936, ivi, pp. 49-52; Capasso critico, «Il Secolo XIX», 13 agosto 1937, ivi, pp. 73-5.
l’accento che cade su di essa e che le dona ora un timbro ora un altro. E dove, se non in questo ‘timbro’, dovuto appunto al ritmo, si può distinguere la voce di un poeta dalle innumerevoli altre? Non è vero che la poesia moderna, abo- lendo i metri tradizionali, abbia voluto riconoscere i valori del ritmo: anzi non temiamo di esagerare affermando che essa ha per il ritmo una sensibilità assai più spiccata di quella che non si ebbe in passato. Leggi scritte, d’accordo, non se ne sono formulate: ma chi vorrebbe dire, per esempio, che Ungaretti avreb- be raggiunto lo stesso effetto dicendo, che so “Appiè dei passi / della sera va un’acqua / chiara colore dell’uliva”, invece di, come ha dettato, “Appiè dei passi della sera / va un’acqua chiara / colore dell’uliva”? (p. 29)
Attraverso un paesaggio connesso, nel Paese senza tempo, ad istanze di rinnovamento entusiaste, si fanno notare alcune di quelle definizioni bizzarre che hanno attirato la curiosità di Beccaria nell’introduzione delle Prose, come, a latere del ragionamento metrico tra forma chiusa e metrica liberata,26 l’immagine che si utilizza per l’endecasillabo di
Capasso, «lo riconosci subito lontano un miglio per quel suo andare impigliato, cupo, come di nuvolaglia mossa lenta da grave vento». (p. 30) E proprio sulla nota metrica va a concludersi la scheda di lettura:
Ma non è tuttavia all’endecasillabo che Capasso si ferma: lo adopera perché in determinati momenti esso solo può ‘esprimere’ il suo stato d’animo; non ne fa una norma. Egli anzi si è spinto ancora più in là dell’endecasillabo, appena gliene è occorsa la necessità: pensiamo ai ritmi di Terra o antica, che già ab- biamo citato per intero […]. Ma la sua metrica rimane sempre svicolata da
26 Per un inquadramento generale della questione cfr. MENGALDO, Considerazioni
sulla metrica del primo Govoni (1903-1915), in ID., La Tradizione del Novecento.
Nuova serie, Firenze, Vallecchi, 1987, pp. 139-88 (nuova edizione Torino, Einau-
qualsiasi inceppante ‘tradizione’ scolastica, troppo libera e abile essendo la sua sensibilità ritmica, per imprigionarsi in schemi di qualsiasi genere. (p. 30)
A un saggio di Capasso sul Don Garzia di Alfieri rimanda poi una pre- sa di campo piuttosto netta. A fronte di un passaggio puramente aleato- rio si evidenzia una certa scioltezza di pensiero che sarà forse più op- portuno definire con l’incidentalità dell’occasione e l’irruenza di uno spalleggiamento che a posteriori non può non risultare aperto. Il nodo della questione è comunque un sottile ma importante centro della più ampia teoria crociana:
Il Croce, l’ho già detto, fraintende la poesia (e con essa la ‘tragedia’) con la ‘lirica pura’; il Capasso, invece, tien ben presente la distinzione dei termini, anche negando in toto alla tragedia alfierana ogni valore di puro lirismo, a dif- ferenza del Croce non solo non ne limita affatto il valore poetico, ma anche automaticamente fa cadere quella stolta accusa di frammentarietà, che pesa su di essa. (p. 47)
Altro punto, e più interessante, è quello che innesta la voce caproniana nel dibattito già citato fra contenutisti e calligrafi. L’occasione data dal- l’uscita antologica Cantano i Giovani Fascisti. Poesie fasciste per
l’impresa d’A. O.,27 in cui si mescola il senso, col senno del poi vaga-
mente grottesco, di una rivendicazione della poesia nuova alla vita e al- l’azione, più o meno nei termini che Caproni affronterà dalla sponda opposta alla fine della guerra, quando la “linea ermetica” cui aveva aderito negli anni della guerra si troverà sotto processo per una manca-
ta reazione e resistenza al regime. Il giovane Caproni di queste note si trova a difendere la stessa porzione di diritto a segni alterni, inanellan- do già al principio del discorso i due punti che a suo dire pregiudiche- rebbero la comprensione delle nuove voci:
Conviene, anzitutto, ricapitolare un po’ le cose. Due sono le ragioni addotte per sostenere l’infelicissima tesi: 1) l’incapacità dei succitati poeti,28 come uo-
mini e come cittadini, a vivere, e perciò ad esprimere con sentimento, la mae- stosità della Patria nuova; 2) l’impotenza dei loro mezzi espressivi (accusati, per soverchia purezza, di irragionevole rarefazione) ad ‘adattarsi’ ad argomen- ti che, per la loro natura etica soprattutto e contingente, non si presterebbero affatto ai ‘lambiccamenti’ egocentrici del nuovissimo stile. (p. 50)
Il motivo grottesco, invero drammatico, a cui si è accennato, viene ad esplicarsi con il vanto di una appartenenza che sembra deformare nel senso più deteriore la voce del recensore, ne fa eco un adattamento stili- stico che suona non si capisce se come sberleffo o come volontario sfor- zo di conformismo:
Per fortuna conosco Aldo Capasso non solo come poeta o critico letterario; ma anche come uomo. E ciò mi dà un’arme in mano che altrimenti, magari, po- trebbe anche mancarmi. Egli è un fascista della prima ora. Mi basta farne fede e non dico di più. Ché se invero poco giova la conoscenza diretta dell’uomo per decifrare meglio il ‘mistero’ estetico del poeta, ciò non toglie tuttavia che a volte, ricorrendo al metodo psicologico della critica, sia il mezzo più spiccio per falciare le erbacce della calunnia che troppo spesso nascono parassite nel dolce limbo dell’arte. (p. 50)29
28 «[…] da Ungaretti a Capasso, da Saba a Montale, da Titta Rosa a Fallacara – per
tacere dei molti altri –», Prose, p. 49.
Si dà infine una piccola prova sul Capasso critico, che ha la facoltà di indicare al lettore quali sono quei punti che Caproni non disdegna rite- nere possibili, se non importanti, nell’esperienza di un “addetto ai lavo- ri”. La posizione espressa circa il poeta critico conferma l’antipatia per i sistemi e le teorie. Il giudizio è, una volta di più, apertamente positi- vo, e il diretto riferimento a Croce si appunta a una maliziosa captatio
benevolentiae che non può essere lasciata fuori dalle intenzioni più
personali:
Il metodo critico del Capasso è dei più convincenti. Forte della sua esperienza di ottimo poeta, che giornalmente si può dire vede allargarsi intorno a sé un alone di entusiasti satelliti, ha il vantaggio non lieve sugli altri critici puramen- te teorici, di poter corroborare le sue affermazioni con una vasta produzione artistica. Predicatore operante, dunque: e appunto per questo di più legittima autorità. Egli del resto critica sul metro dei fatti, delle cose, non su quello delle teorie; e ha il merito stragrande di aver saputo, finalmente, superare le formi- dabili posizioni crociane. (p. 74)
indotti più o meno direttamente dall'ambiente e dagli scrittori recensiti; oltre alla già citata Difesa della poesia del 1934 (“Santa Milizia” era il settimanale della fe- derazione dei fasci di combattimento della provincia di Ravenna) e l'elogio della poesia 'civile' per Cantano i giovani fascisti di Capasso, si tratta soprattutto di al- cuni articoli usciti su “Augustea” dal 1937 al 1940. Ancor più ridotti, e tutti presto espunti, i residui nelle poesie: le mondine “legionarie redente”, l'attacco 'imperia- le' di Elegia (“Mi tornano in cuore / i carmi della tua gloria / antica, Roma”), e so- prattutto un curioso tentativo contenutista e d'occasione davvero anomalo, Alla
Maremma, pubblicato su “Ansedonia” del dicembre 1938, preceduto da un signi-
ficativo discorsino editoriale […]. La virilistica celebrazione della bonifica, svolta in decasillabi regolari, dal ritmo quasi prosastico-epigrafico, si innesta però subito al tema, tutto privato e caproniano, giovanilmente liberatorio, dei cavalli selvaggi, che già chiudeva Come un'allegoria», Giorgio Caproni, cit., p. 23.
Sulla scorta dei complicati ed in parte criptati rapporti fra Caproni e Monta- le è utile accogliere una ipotesi di Luigi Surdich che propone, in interrogati- va, di far risalire alla prefazione dell’esordio caproniano il seme del silenzio pressoché assoluto destinato da Montale a uno dei suoi possibili “eredi”: «[…] non potrebbe essere la prefazione dovuta alla penna di Aldo Capasso (il poco stimato, da Montale, Aldo Capasso) a Come un’allegoria a metter- ci sulla strada per dare una motivazione alla dimenticanza, da parte di Mon- tale, di Caproni? È del tutto implausibile congetturare che il nascere sotto l’egida di Capasso costituisca per Caproni, visto da Montale, una sorta di peccato originale?».30 Quando sul primo circolo di contatti, che porterà Ca-
proni ad avviare praticamente in parallelo l’attività pubblicistica e quella editoriale, si frapporrà il trasferimento a Roma, prima della guerra, i rappor- ti con Capasso sembreranno raffreddarsi, se non deteriorarsi, e l’orizzonte del giovane autore e giornalista letterario muteranno sensibilmente.
I riferimenti a Capasso negli scritti caproniani cessano già nel 1938, anche se i due continuano spesso a collaborare alle medesime testate. Non abbiamo per ora notizie certe di possibili screzi in questi anni, ma certamente Caproni sta iniziando altre conoscenze e amicizie: Carlo Betocchi, che aveva già recensi- to, sia pure un po’ dubbiosamente, Come un’allegoria nel «Frontespizio», e soprattutto Libero Bigiaretti. Il 1º novembre 1938, vinto un concorso di mae- stro elementare di prima categoria, Caproni si trasferisce a Roma, ed è proprio Bigiaretti, incontrato di persona dopo rapporti solo epistolari, ad introdurlo nel mondo letterario romano. La firma di Caproni che collaborava già ad «Au- gustea», appare sul «Meridiano di Roma» e su «Quadrivio».31
30 SURDICH, «In musica + idee»: tra Montale e Caproni, «La rassegna della lettera-
tura italiana», 1995, 3, pp. 102-135, p. 107.