3 «Difesa della poesia»
7. Scritti di cultura e letteratura ligure
7.5. Altri autori liguri Fra Giudici e Sanguinet
L’ottava puntata della seconda serie della “linea ligustica” apre le porte a due autori, «l’anziano Ettore Serra e l’ancor giovane Renzo Laurano».257 Del primo, incontrato in occasione della raccolta del 1959
La casa in mare,258 cui si aggiungerà qualche anno dopo la lettura di
Serata d’addio,259 si mette in evidenza, in piena sintonia con i tratti più
marcati della linea, una ironia amara quasi umoristica, volta secondo una sintassi che anche nelle prose liriche si scopre «governata da miste- riose corrispondenze ritmiche»,260 innestando il discorso su una direttri-
ce musicale «ma sempre con un che di aspro che impedisce al discorso lirico di cader nel vezzoso».261 L’opera di Ettore Serra rappresenta per
il lettore una conquista al nome, puro flatus vocis nei celebri versi di Ungaretti, soprattutto per una consistenza non trascurabile e per la dire- zione di un tono che, senza imitare nessuno, traccia, sul discrimine fra i due secoli,262 una via in proprio:
[…] giacché Serra non mira tanto a giudicare, quanto – ed è qualcosa di più – a testimoniare il proprio e l’altrui dolore, la propria e altrui ansia d’una verità sem- pre sfuggente, aprendoci con la sua scrittura fina – d’un’eleganza senza il mini- mo lezio, antica e modernissima insieme nella scelta del vocabolo giusto e nella
257 ivi, p. 1331.
258 Versi liguri, «La Fiera letteraria», 7 giugno 1959. 259 Il gentile Ettore Serra, «Il Punto», 21 ottobre 1961. 260 Prose, p. 1192.
261 ivi, p. 1332.
262 «Ricco d'umana esperienza e d'umanissime lettere, il “figlio del palombaro”, il
cadenza della frase ritmica – pagine che ora hanno il battito d’un volo all’alba, ora il cupo martellio notturno d’una mareggiata sulla scogliera. (p. 1475)
Posto dapprima in un piccolo canone delle proposte di «Circoli»,263
Renzo Laurano, di cui si citano le raccolte Chiara ride e Gli angeli di
Melozzo da Forlì,264 trova citazione abbastanza consistente di un cam-
pione di versi (Chiara ride, Settembre nelle langhe, Consolazione) da cui si trae l’impressione di una «‘spavalderia’ pur così garbata e galan- te»265 che connette la vena dell’autore alla poesia trobadorica (Laurano
è anche traduttore del Canzoniere di Bernart de Ventadorn), nell’origi- nalissima voglia di vivere, ripiegata in maturità su accenti autunnali. Laurano è legato alla “linea ligustica” anche per esserne uno dei più ra- dicali negatori:
la punta di polemica ironia (o civetteria) insinuata nella proposizione, certi come siamo ch'egli è il primo a sapere che in poesia impossibili sono i ritorni (gli ana- cronismi), e che se in terra c'è un uomo in regola e in comunione, senza rinunziare alla propria essenza individuale, con un precisa società vivente e con questo pre- ciso momento della storia, questi è giustamente lui […]» ivi, p. 1333.
263 «Ma per tornare a “Circoli” e i suoi poeti, chi, della nostra generazione, non ha
ancora in mente, per averle lette e amate su quelle pagine, tante belle poesie di Sbarbaro (i Versi a Dina, ad esempio), o di Barile, o di Grande, o – anche – di Guglielmo Bianchi (forse ormai del tutto perdute), di Giacomo Prampolini, di Aldo Capasso, di Renzo Laurano, e di altri ancora (liguri e non liguri), come Qua- simodo, Raffaello Prati, Emilio Servadio (proprio l'illustre psicanalista, che forse ha dimenticato quei suoi versi, che invece noi continuiamo ad amare, a frammenti, nella nostra memoria) eccetera?», ivi, p. 663-4. Si ha notizia anche di una presen- tazione de La ballata del vecchio colonizzatore (Genova, Emiliano degli Orfini, 1937) in una rubrica di Segnalazioni sul «Corriere Padano», 3 luglio 1937, cfr.
Bibliografia Baldini, p. 83.
264 Rispettivamente, Milano, Mondadori, 1938 (anche se non si trova riscontro sul
“Catalogo del servizio bibliotecario nazionale”), e Milano, La Prora, 1939.
Mi sembra proprio di non appartenere, e non ho da dolermene né da compia- cermene, al “filone ligure” per tono e ispirazione anzi alla “linea ligustica” come la chiamano gli addetti, secondo me, ai lavori inutili. E avevo pure detto che i ligustici, oltre a non avere nelle loro poesie mai neppure un poco “aspira- to” almeno, altrettanto non lo hanno vissuto nella loro esperienza e costume. Niente mare-mare in persona conosciuto personalmente da Boine, Mario No- varo, Ceccardi, Clemente Rebora di padre ligure e «ligustico» per certi aspetti, Jahier che vedo compreso tra «i ligustici», Montale, Barile, Caproni; e neppu- re da Grande […].266
Sciogliendo la validità teorica nel gruppo di giovani poeti che hanno la sola facoltà di testimoniare la vitalità della regione con le loro molte- plici e spesso differenti esperienze, Caproni passa la mano in sede criti- ca per concedersi un “finale di gita” fra le voci nuove che più lo attira- no,267 attribuendo la centralità della vita culturale a due riviste fondate
negli anni Cinquanta: «Nuova corrente» diretta da Mario Boselli e re- datta da Piero Raffa, Giovanni Sechi e Tullio Cicciarelli, e «Diogene», di Gian Luigi Falabrino e Adriano Guerrini, di quest’ultimo Caproni firmerà anche la prefazione a due raccolte di versi.268 Proprio una delle
raccolte di cui Caproni sarà il futuro prefatore è al centro dell’incontro fortuito con il giovane Guerrini, che gliene invia una copia senza altre indicazioni.269 Già in quella occasione il recensore individua con parti-
266 Genova, libro bianco, cit., p. 117.
267 «Un nuovo 'gruppo ligure', infatti, non esiste se non come stato civile, e semmai ci
sarebbe da notare come anche in Liguria, oggi, l'attenzione si sia di preferenza volta, dal puro atto creativo, a una critica revisione di valori e di giudizi […]»,
Prose, p. 1337.
268 GUERRINI, Jon il groenlandese, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1974; L'ado-
lescente, Genova, Sabatelli, 1980.
colare chiarezza270 le caratteristiche di una voce netta, giocata su un bi-
lico sottile che, tuttavia, permette di riconoscere una sostanziale “ligu- sticità”, il cui precedente più naturale sembra nel Giovanni Descalzo di
Uligine:
Il fondo è certamente patetico nella sua elementare trovata, e sarebbe bastato un poco di zucchero in più (o un poco di sale in meno) per far di questa gentilissi- ma storia un giulebbino, specie con il rischio che corre nell’allure dello sciolto (rischio, per la verità, sempre eluso) di un paragone non profittevole con la fo- gazzariana Miranda. Ma bisogna dire che qualcosa come un continuo miracolo di equilibrio, e che potrebbe essere giovanile pudore come matura saggezza, trattiene da capo a fondo questo poeta sul filo sottile della sua narrazione (pos- siamo dire senz’altro della sua poesia, esile finché vogliamo ma poesia), impe- dendogli non soltanto di cader nella rete una sola volta, ma anche di perdere un solo istante la tranquillità – e la grazia sommessa – del passo […]. (p. 814)
Passando per una veloce segnalazione di Età di ferro,271 ripresa anche
nell’ultimo dei pezzi ligustici della seconda serie, in cui si descrive l’ar- co di una maturazione rispetto ai giorni dell’Adolescente, «nel quale le rovine della guerra hanno lasciato l’ombra d’una profonda disperazione, sostenuta tuttavia da un concetto quasi stoico (si direbbe classico) della vita […]»,272 si arriva alla raccolta Polemica, brevemente descritta in un
270 «In sostanza, si tratta d'una brevissima novella in versi, o poemetto di dodici stro-
fe eguali (di dieci endecasillabi sciolti, ciascuna) i cui personaggi sono due in uno: e cioè l'autore medesimo in terza persona, come adolescente del quale viene raccontata la storia, e ancora l'autore in prima persona, non solo come narratore, ma anch'egli come personaggio che interviene, dicendo “io”, con le sue riflessio- ni: due personaggi dei quali il secondo, l'io, corre alla vana ricerca dell'altro, lui, naturalmente senza poterlo raggiungere mai», ivi, p. 814.
271 Quintetto, «La Fiera letteraria», 4 ottobre 1959, ivi, pp. 1235-8. 272 ivi, p. 1348.
pezzo del 1965,273 e al commovente Saluto a Guerrini, scritto in occa-
sione della morte del poeta e giornalista.
Aprendo la guida di «coloro che, in Liguria, coltivano ancora il fiore sempre più raro della poesia»,274 il critico inanella alcuni veloci ri-
tratti delle personalità più in vista fra cui Mario De Micheli,275 Paolo de
Bono,276 Maria De Orchi, Milena Milani277 ed Enrico Bonino.278 Atten-
zione precipua meritano ancora alcuni nomi, seguiti a vario titolo già in diverse occasioni. Il primo di questi è Nicola Ghiglione. Recensito nel 1947,279 il suo Canti civili viene descritto come un libro dalle potenziali-
273 «Niente manti purpurei e niente unicorni, ma il puro e semplice diario in versi, si
direbbe, d'un giovane in polemica, oltre che con se stesso […] con tutti i 'falsari', i 'preziosi' e i 'furbi' d'una società d'arrampichini di cui la repubblichetta dei letterati
à success (dei dottorini in poesia in primo luogo, scaltri e carrieristi, contro i quali
il nostro giovane diogene scaglia tante delle sue frecce) non è che uno specchio fedele», Fabiani e Guerrini, «La Fiera letteraria», 30 novembre 1965, ivi, pp. 1853-6.
274 ivi, p. 1338.
275 «La forza (l'evidenza) di questi versi, che proviene da un'estrema nettezza del di-
segno e da un severo e educatissimo gusto (De Micheli fece parte del gruppo di “Corrente”) non ha bisogno di essere sottolineata, e certo non sarà facile rintrac- ciarne altrettanta nel nostro breve 'giro'», ivi, p. 1339.
276 «Pure del '14 è lo spezzino Paolo De Bono (autore di Terra come donna, Carpena,
Sarzana, '56) nei cui versi spesso il paesaggio e il carattere della Liguria tornano a far da sfondo […]», ibid.
277 «D'un'altra giovane poetessa ligure, Milena Milani, savonese, che ha poi preso
con successo la via del romanzo, ci mancano purtroppo documenti (siamo infor- matori malissimo informati), sì che dobbiamo saltare il fosso […]», ivi, p. 1342.
278 «A proposito di Enrico Bonino, Piero Raimondi ha parlato di una “lievità quasi
incantata”, dove “i paesaggi si modellano nel perfetto circolo dell'emozione viva, che pare, in certo momento felice, costruire un neoprimitivismo d'immagini”, mentre sull' “Approdo” è stato detto che “la naturale inclinazione dell'autore al frammento trova accenti di calda intimità […] che nel paesaggio e in certi partico- lari ambientali ci riportano alla Liguria marinara di Ceccardi, Sbarbaro, Montale”. Sono notizie tratte da Poeti italiani del II dopoguerra di G. Kaisserlian (Milano), e invero c'è nei versi di questo giovane un'asciuttezza che par ricordare, più che i poeti citati, Mario Novaro», ivi, p. 1344.
tà alte, pure se bloccato da una qualche pretenziosità di “maledettismo”, «un piccolo universo a prima vista molto maledetto (molto saison en en-
fer, con qualche improvvisata irruzione jesseniniana) sembra costituire la
realtà di queste strane (giustificherò poi l’aggettivo) poesie […]»:280
Poesie strane, ho detto. E v’assicuro che se le ho chiamate così non l’ho mica fatto per ricorrere ad una pudica parola-paravento essendo nudo d’idee: bensì proprio perché non trovo altro aggettivo capace di qualificare meglio il loro non essere in alcuna nostra ultima convenzione poetica, cioè il loro essere davvero estranee non soltanto agli oggetti ma perfino al vizio o virtù comune alla nostra specialmente ultima poesia (un’egorrea epidemica), tentando esse (anche se Ghiglione non ha forse questo po’ d’ambizione) d’introdurre ‘perso- naggi’ – d’avviarsi ad abbozzare un poema, il quale sta alle poesie come il ro- manzo sta alle prose. (p. 198)
Attraverso l’accostamento all’Antologia di Spoon River, per la struttu- ra,281 e all’Opéra de quatre sous per il tono, Caproni determina limiti e
pregi della raccolta in maniera chiara, con una voce di lettore nitida, mirata a un’ “esegesi pratica” dell’opera il cui primo scopo è quello di descrivere e informare correttamente il lettore, accostando argomenta- zioni ed esempi, fino a salvare quanto di autentico viene espresso: «Esempi che redimono Ghiglione da ogni equivoco d’aura maledetta,
280 ivi, pp. 197.
281 «[…] i vivi della sua città celebrano, ciascuno in prima persona e in un separato
canto, la loro disperata esistenza. Ed ecco così in altrettante pagine di timbro se- milapidario il Canto dei carrettieri, il Canto dei guardiacessi, il Canto del ladro
di immondizie, il Canto dei rubacani ecc. (titoli che introducono meglio d'un no-
stro discorso), i quali ben riescono a formare uno dopo l'altro un'operetta unitaria del cui risultato (se senza pena di morte un poeta potesse abbandonarsi a tal senti- mento) Ghiglione potrebbe essere soddisfatto», ivi, p. 197.
proprio per la sua stessa natura d’italiano: quella natura appassionata e tanto priva di spirito (conosciamo, per l’amor d’iddio, l’itinerario da Stecchetti agli ultimi scapigliati fino a certi innocui crepuscolari), la quale lo salva proprio nei momenti da lui forse creduti di maggiore spinta, quando cioè per sporgersi troppo casca dal quinto piano com- piendo i suoi errori più grossi: dico allorché confidando troppo in una sua innaturale violenza (Ghiglione è troppo poco civile e ancor troppo
naïf per risicare una di lui impossibile immagine d’enfant terrible)
espone sulla pagina quelle ‘parolacce’ che raramente gli sboccatissimi italiani hanno saputo pronunciare in poesia».282 Pur citandolo in altre
occasioni,283 e su tutte nella prima estensione della “linea”, Caproni
non aggiungerà niente di nuovo alla lettura di Ghiglione, limitandosi a riprendere le impressioni già esposte.
Segnalato fra i redattori della rivista cattolica «Il Gallo», fonda- ta nel 1946, Gherardo Del Colle è una delle giovani personalità iscritte sul versante di Angelo Barile. Autore delle due “rare operette” Rosso di
Sera e Biancospino,284 in Del Colle coesisterebbero le direttrici di una
poesia in cui «c’è quasi la giovinezza violenta di Saba, se non addirit- tura di Penna»,285 a fianco delle ascendenze occitaniche («una remota
eco di Villon»)286 della Ballata per la città di Bâlal: «Nuovo, ripetiamo,
282 ivi, p. 199.
283 Un cenno al poeta si fa in «La giovane poesia», «Il Lavoro nuovo», 6 settembre
1956, Prose, pp. 715-18.
284 Rispettivamente Genova, Edizioni del Gallo, 1946 e Vicenza, La Locusta, 1957.
La seconda opera era stata recensita da Caproni in Canti di un cappuccino, «La Fiera letteraria», 7 aprile 1957, ivi, pp. 787-90.
285 ivi, p. 1341. 286 ivi, p. 1342.
tra i nuovi, forse egli è l’unico poeta delle ultime leve veramente ligu- re, e per giunta d’una ligusticità, nonostante la cupa Valpolcevera do- v’egli è nato, più appartenente all’iridata sponda marina del rivierasco Barile, che non a quella del pur rivierasco Sbarbaro: anche se poi, come in tutti i ligustici autentici, a reggere gli archi e i legni dell’orche- stra (fino all’ottavino) sono pur sempre i profondi bassi sbarbariani, ul- timo pentagramma di base, sempre, in ogni ligure partitura».287
Qualche parola viene spesa anche per Luciano De Giovanni, di mestiere idraulico-stagnaro, presentato da Carlo Betocchi su «Lettera- tura»288 e già recensito da Caproni in un pezzo del 1958.289 Tra Betoc-
chi e Lorca si disegna brevemente il ritratto di un poeta votato alle pic- cole cose, quasi alle cose minime,290 eppure non ingenuo, dotato anzi di
una personalità definita, volta, secondo il recensore, sul versante di una spontaneità che potrebbe di nuovo chiamare alla memoria Penna e la lezione del conterraneo Mario Novaro, «il quale, col suo modo punti- glioso e secco di sillabare il ‘frammento’, potrebbe pur aver insegnato qualcosa (e l’insegnamento d’un poeta non è mai una diminuzione) al nostro Luciano».291 Recensendo L’intelligenza col nemico nel 1957,292
Caproni fa riferimento a una sostanziale e quasi ineluttabile “ligustici- tà” anche nella poesia di Giudici, «come se proprio non fosse possibile
287 ibid.
288 n. 21-22, 1965.
289 «Viaggio che non finisce», «La Fiera letteraria», 9 marzo 1958. Prose, pp. 1003-7. 290 «Si dirà: appena l'abbiccì della poesia (un frammento, un minuzzolo), come il gri-
dolino rugginoso dello scricciolo di fronte alla cavata a gola piena dell'usignolo». ivi, p. 1343.
291 ivi, p. 1006.
sortir di Liguria e poi scrivere poesie differenti e divergenti da quel cli- ma e da quella particolare cultura; e cioè da quella particolare tradizio- ne […]».293 Come già si è ricordato, l’incontro-scontro con Montale294
appare al recensore evidente nella lezione «quasi buferina […] ricor- dandone l’accento, i medesimi oggetti-simboli (oggetti-segnale), il me- desimo ‘taglio’, perfino il medesimo gusto, se vogliamo, musicale-sen- suale di certe parole supercaricate di tensione espressiva, onomatopei- che, saremmo tentati di dire, di fatti altrimenti indicibili […]»,295 ma
anche se l’emancipazione dai modelli maggiori non può dirsi avvenuta (si parla apertamente di «scuola», incluso il nome di Rebora), viene co- munque riconosciuta l’istanza di una dignità nuova e riconoscibile, che agisce nel solco di una tradizione cercando di superarla dal di dentro, disegnando uno sviluppo fecondo in prospettiva, ed insieme negando l’accusa, di prassi mossa ai giovani, di «impaziente improvvisazione».296 Il ritratto che ne segue è quello di una difficile au-
tonomia di voce in seno alla potenzialità di un’anima che vuol uscire dalla propria indeterminatezza,297 nel panorama di una giovane poesia
così «abbondante di sciacquature».298
293 ivi, p. 916
294 Nella seconda serie della “linea ligustica” si fa riferimento anche a un precedente
culturale: «Mosso da una poesia d’alte significazioni metafisiche e morali, e d’al- tronde in possesso di strumenti che gli permettono la lettura ‘diretta’ delle fonti alle quali è spinto da affinità di cultura e di forma mentis (fonti in gran parte repe- ribili in territorio anglosassone: la Bibbia my daily reading, i Metafisici, Eliot ecc.), è naturale che il ligure Giudici, meglio che con i poeti della “Riviera”, deb- ba incontrarsi con Montale» ivi, p. 1349.
295 ivi, p. 917. 296 ivi, p. 918. 297 ivi, p. 919. 298 ibid.
Allineato alla «bella e robusta tradizione inaugurata da Ceccar- do»299 è anche Cesare Vivaldi,300 la cui produzione poetica viene de-
scritta sul discrimine di una doppia prassi compositiva in lingua (Ode
all’Europa, Il cuore di una volta) e in dialetto, che si riflette sulla scel-
ta dei temi e dei toni autoriali, a sua volta divisa fra l’intimità di una “poesia con personaggi” in cui si descrive il familiare paesaggio ligure, e un più marcato impegno sociale che ne segna il limite anche stilisti- co. I meriti del giovane poeta imperiese sono già definiti a metà degli anni Cinquanta, nel complesso di una nuova generazione fra le righe rimproverata di eccessivo cerebralismo:
Vivaldi […] non solo è riuscito a togliere l’Io poetico dal lago del narcisismo, fedele alle sue due estreme premesse, ma ha saputo immergerlo (passi la brutta espressione) in un ordine, meglio che cosmico, sociale (o semplicemente so- cievole): ordine o dimensione – d’uomo interessato non soltanto alla propria persona, ma anche al prossimo suo, in cui vede consistere la sua stessa figura – non troppo frequente, certo, nella nostra poesia attuale (e non soltanto in questa).301
La seconda serie “ligustica” si chiude con un duplice cenno a Giancar- lo Marmori e Edoardo Sanguineti. Collocato il primo in maniera più pertinente nell’area della giovane poesia francese, del secondo si cita invece l’esordio Laborintus e più nello specifico l’Erotopaegnia, ap- parso su «Officina», senza aggiungere giudizi di valore. In ogni modo
299 ivi, p. 723.
300 Cfr. Destino del dialetto, «Il Lavoro nuovo», 21 aprile 1954, ivi, pp. 555-7. 301 Due voci, «Il Lavoro nuovo», 6 novembre 1956, ivi, pp. 719-23, a p. 722.
si è già definita in queste pagine la sostanziale dissipazione dei motivi liguri che in un primo momento erano sembrati più stringenti. Campeg- gia la supposta assenza di un valore poetico alto, che proprio negli anni Cinquanta vede Caproni passare dalla parte dei non più giovani, assu- mendo posizioni scettiche nei confronti specialmente delle nuove istanze ideologiche applicate alla poesia, e più in generale alla nascita di un’e- stetica altra, rifiutata recisamente insieme alle accuse di tacita collusione con la storia mosse all’area ermetica. Benché inclusa solo a margine del- l’itinerario ligustico, merita un cenno anche la poesia dialettale, presa in esame nello specifico di due uscite antologiche,302 e massimamente iden-
tificata con i casi e la produzione di Edoardo Firpo:303
Soltanto poeta dialettale il poeta genovese Edoardo Firpo? Vorrei segnalare al lettore proprio ciò che di Firpo non rientra nel capestro d’una definizione che, lo sappiamo tutti, strangolando quasi sempre il poeta lascia in vita soltanto il dialettale: cioè colui che nel dialetto cerca unicamente il dialetto e tutto quanto è dialetto (colore, folklore ecc.), ponendo in tale dolce mania l’unico fine della propria scrittura e imparentandosi, così, alla curiosa famiglia dei patiti, innu- merevoli a raccattare, per farne colletta, riccioli o francobolli o proverbi o tutti quegli altri detriti che l’uomo, dietro o ai margini dell’onda della sua storia, la- scia sopra i suoi lidi. La quale certo non era l’ambizione né di un Porta né di
302 Poesia genovese, «La Fiera letteraria», 24 aprile 1960; Poeti dialettali della Ligu-
ria, «La Nazione», 27 febbraio 1964, ivi, rispettivamente, pp. 1369-71 e 1743-5.
In questi pezzi si compie una piccola ma definita riflessione sul “problema del