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3 «Difesa della poesia»

7. Scritti di cultura e letteratura ligure

7.4. Il “club” Sbarbaro-Montale

Ponendosi all’inizio di una ripresa anche editoriale dell’attività sbarba- riana, l’interesse di Caproni per il poeta di Santa Margherita segna un “passaggio di testimone” alla nuova generazione, che si incarica di per- petrare e favorire la lettura di quello che viene riconosciuto unanime- mente come un maestro. A testimonianza del rapporto fra l’anziano poeta e il più giovane “recensore”, a sua volta applaudito in sede priva- ta da Sbarbaro, resta l’esiguo ma intenso carteggio coltivato dai due fra il 1956 e il 1967, negli anni cioè della “pubblicizzazione” più intensa

237 Due inediti di Giovanni Boine, «La Fiera letteraria», 6 settembre 1959, ivi, pp.

dei nuovi volumi in uscita, e a latere del discorso critico intorno alla tradizione ligure. Il ritratto sbarbariano svaria fra quello dell’uomo riti- rato in un casamento di Genova che studia, traduce e dà lezioni di gre- co,238 ed il poeta redivivo, che ha inciso la sua voce nella memoria col-

lettiva tanto da annullare le autoreferenzialità di ogni localismo per ri- volgersi a tutti, trasformando la terra natia in una terra dell’anima, ad- dirittura, come si è già visto, precursore di Eliot. Sul solco di un “male d’esistere” che maturerà definitivamente nella più nota formulazione montaliana, si svolge una decisa appropriazione, indagata sul piano te- stuale da Pietro Benzoni,239 con punte di sovrapposizione e identifica-

zione. Si colga l’occasione anche per notare l’ipotassi critica capronia- na, capace di condensare in un periodo lunghissimo un articolato vilup- po di pensieri; sullo sfondo c’è ancora il panorama cittadino genovese, a questa altezza interiorizzato anche dal poeta di Livorno, con ogni evi- denza ci troviamo all’indomani delle Funicolare:

È che Sbarbaro è quasi sempre teso al più raumiliato versante della città geno- vese: di quella Genova bifronte come il Giano messo a guardia dei suoi giardi- ni, la quale, se sali con la funicolare fino al proustiano albergo ‘Pagoda’ del Righi, là essa può offrirti, dopo il buio maieutico d’un tunnel e oltre il “fremito degli ulivi” di San Nicola (oltre il frullo dei passeri sui tetti di lavagna delle ‘Sepolte vive’) il panorama più allegorico, e più veritiero della sua (della no- stra) anima: il panorama d’una città spaccata in due fra la luce e l’ombra, la quale, sonora di cantieri e di traffici, e incandescente di grigie fiamme marine sul versante portuale e rivierasco, subito con quello opposto strapiomba (sotto

238 Cfr. I “licheni” di Sbarbaro, «Mondo operaio», 16 aprile 1949, ivi, pp. 361 239 BENZONI, Presenze sbarbariane in Caproni (e altre osservazioni stilistiche), «Sti-

le chiappe dei secenteschi bastioni) sul cupo e lichenoso greto del Bisagno, dove i parallelepipedi dei casamenti, in un dei quali ha abitato appunto lo Sbarbaro, mostrano nudo tutto l’affascinante squallore ch’è nel fondo della cit- tà: una gola irta di slogate architetture e di folli prospettive stradali, stratificate l’una sull’altra, nel cui ampio seno hanno trovato asilo, fra gli spellati contraf- forti d’un preappennino che mostra l’ossa sotto il magro grigioverde dell’erba tutte le urbane laidezze: le ossificate trine cimiteriali di Staglieno, i gasometri, i depositi tranviari, i canili, i forni delle spazzature, i mercati generali, il ce- mentizio campo di football e le carceri di Marassi.(p. 657)

Il primo e più grande merito di Sbarbaro sarebbe quello di distinguersi dalle campane di fine Ottocento rinnovando decisamente il tono, “rau- miliato” sulle piccole cose, senza tuttavia percorrere la scorciatoia dei pur contemporanei crepuscolari e insomma differenziandosi in minore, con una voce scabra ed altamente riconoscibile «in perfetta sintonia con l’anima squallida e grigia dell’uomo contemporaneo: il quale, spo- glio di ogni indorata illusione, guarda con occhi “implacabili” e “asciutti” se stesso e il mondo».240 Il tono di Sbarbaro, che resta la mar-

ca più riconoscibile di quella generazione è anche il mistero di una na- scita attribuita alle radicali desolazioni del paesaggio ridotta alla fase di uno “scarnificato realismo morale” che deve credersi discendente dal plesso dei fattori socio-culturali liguri, di cui Caproni è un curioso os- servatore.

La straordinaria statura morale di Sbarbaro, modellata così fine- mente secondo un gusto del togliere e del ridurre, è l’eredità peculiare di una civiltà che Caproni osserva e adotta, da essa adottato, proprio al

momento di trasfigurarla nei propri versi secondo il modo spiccata- mente allegorico che ne fa un luogo dell’intelligenza, prima che degli affetti. L’appropriazione di Caproni della tradizione ligure, con la disil- lusa partecipazione e complicità (a fasi alterne) dei rappresentanti mi- gliori, potrebbe essere interpretata come il tentativo di bilanciare l’e- spressione poetica cercando un corpo al luogo della metafora. È in que- sto senso che sembra impossibile staccare le pagine critiche su Sbarba- ro e Montale dai vari strati della produzione in versi coeva. E sorge il dubbio che, tolta ogni capziosità, ricostruire il canone ligustico sia da parte di un poeta vivo e ambizioso, nel massimo della sua potenza espressiva, la prova inconscia per essere annesso al più ristretto dei ca- noni possibili, cosa che del resto è stata recepita in maniera piuttosto chiara dalla critica recente, che lo vede accettato nel club Sbarbaro- Montale in linea più o meno diretta in fatto almeno di statura poetica. Seguendo l’ultimo tratto del lavoro sbarbariano come un sostenitore at- tivo nel circolo degli amici del poeta, che comprende anche l’editore Vanni Scheiwiller, Caproni registra in maniera puntuale, quasi ad of- frirne una cronaca in tempo reale, il recupero che porterà nel 1986 a una edizione ne varietur di tutte le poesie, festeggiata con un pezzo conclusivo.241 Con un lungo elenco dei talenti e meriti di questa voce

strozzata, il critico non manca nell’ultimo appuntamento pubblico di invitare le giovani generazioni ad accostare la poesia dell’ormai suo “Millo”, i luoghi della sua lettura sono quasi un ritornello, ma vederli elencati può chiarire il volume della riflessione sviluppata nel corso ne-

gli anni, e vale un aggiornamento anche nella forma, se, in quella che non vuole essere una recensione ma solo il festeggiamento di un libro sospirato, va a svilupparsi un contrappunto a distanza con le parole di Mengaldo, da cui si cita in più di un passo:

Con la sua voce disadorna ma così stringente; con il suo inimitabile endecasilla- bo dinoccolato e quasi in ciabatte (definizione che allo stesso Sbarbaro non di- spiacque); con la sua assoluta assenza d’ogni illusione in un mondo falso e or- mai ‘vuoto di significato’; con la sua spietatezza verso questa Terra guasta (anti- cipando di quanti anni Eliot?); con la sua asciutta pietà verso gli altri («pietà d’altri che me mi strinse il cuore»), e infine col suo stesso ‘canto’ (ma ‘strozzato’), sempre diretto agli uomini e non ai Celesti (o ai Computer), davve- ro penso che nessun poeta nostro di questo nostro secolo sia più di Sbarbaro vi- cino – nel disincanto come nella sotterranea rivolta – allo stato d’animo di tanti ragazzi d’oggi, ai quali questo grande libro andrebbe offerto in dono. (p. 2010)

Coetaneo e amico di Sbarbaro, con i versi di Quasi sereno,242 Angelo

Barile recupera alla disperazione ligure una vena cristiana «che raccol- ta poi dalla genovese “Il Gallo” (l’ardita rivistina compilata da Nando Fabro), e da un gruppo di giovani intorno al “Gallo” operanti, conti- nuerà ad offrirci la limpida espressione d’un cattolicesimo molto vici- no, in quei giovani, a quello dell’amico fiorentino Carlo Betocchi, o di Luigi Fallacara».243 Concludendo la parabola boiniana con una lacrima

caritatis che stempera la più perentoria negazione, Barile fornisce al

disegno una connessione importante con lo spirito religioso di cui, sul-

242 ANGELO BARILE, Quasi sereno, Venezia, Neri Pozza, 1957. 243 Prose, p. 664.

le due generazioni a cavallo del secolo nuovo, si tramano in maniera essenziale le esperienze lombarda prima e fiorentina poi. Ecco dunque che viene a proporsi per l’autore ligure una collocazione fra due “omo- loghi” per una particolare, profonda e consapevole armonia, in cui il destino dell’uomo coincide solo in parte con la voce dell’artista, al più trasformandosi in preghiera non ingenua:

È certo che Angelo Barile, colorando della sua presenza quella ‘corrente’ che, ripetiamo, è una delle più robuste della nostra poesia, accanto a Rebora e di- versamente da Rebora (Barile non ha tinte drammatiche), e accanto a Betocchi e diversamente da Betocchi (Barile è un cielo «quasi sereno», dove non soffia il comunale vento betocchiano, limpido ed un poco ebro ma quasi come una tramontana marzolina, mentre l’ebrietà di Barile appartiene già al clima aprili- no), finisce col rafforzare di una sua luce cattolica, da quella «sua» non romita zona, l’intera Rappresentazione. (p. 1309)

Un approdo cristiano si riscontra anche nella lirica di Adriano Grande, il meritorio fondatore della rivista «Circoli», con un comitato redazio- nale formato, fra gli altri, da Debenedetti, Solmi, Bianchi ed i già citati Barile, Sbarbaro e Montale. Aprendo i meriti del giornalista alla com- posizione artistica, Caproni individua una dolente felicità di eloquio che si inscrive di diritto nella più alta tradizione poetica, anche in rela- zione a una «mesta rassegnazione e un’accoratezza profonda, che tro- vano più d’una corrispondenza nell’animo ligure e nostro»:244

Fra tutti i suoi confratelli liguri, forse, Grande, è quello che, nella sua svariata e movimentata vita, ha sofferto di più. Ma mai si è abbandonato alla cieca di- sperazione (il suo dolore anzi ha avuto poi un esito cristiano), e tutta la sua poesia, ricca di dolenti affetti familiari, di umane sconfitte e raumiliate resur- rezioni, di fantasie tenaci contro una triste cronaca che di continuo tenta di di- rottarle, appunto appare di continuo sospesa fra la tentazione di cedere alla Si- rena, e l’altra d’un ragionar continuo, che fatalmente lo riporta sempre a tocca- re il proprio umano cordoglio. (p. 666)

Con gli anni Caproni torna sulle nuove uscite del poeta, dopo aver rac- contato un gustoso aneddoto circa un incontro personale,245 come in oc-

casione della raccolta Acquivento.246 Ciò che ne risulta è una breve ri-

lettura generale, in cui il tono del poeta e giornalista è rivisitato fuori dalla necessità teorica più stringente di creare un quadro complessivo, necessità invero elusa già con la “linea”. Il recensore si concede il lus- so di un volo rasente la materia da descrivere, offrendo un campione della qualità interpretativa che può raggiungere quando è libero di far conto solo sulla prodigiosa sensibilità di un “orecchio assoluto”:

C’è una felicità di canto, in tutta la poesia di Grande, anche nella più dolente, e una tale naturalezza d’immagini e di movimenti (anche quando la meditazio- ne sembra prendere il sopravvento), che non s’offuscan davvero in questo li-

245 «Poi Adriano Grande riuscii a vederlo davvero di persona, non so più in quale Fe-

sta del Libro in Galleria Mazzini, gremita d'altoparlanti, dov'egli vendeva Nuvole

sul greto, di cui comprai una copia. Mi ci mise la firma, e guardatimi i capelli mi

disse: “Lei dev'essere un musicista, io ho l'occhio clinico”. Proprio così mi disse, perché, ripeto, certe cose rimangono impresse, e io che un musicista lo ero – ma fallito – provai uno strizzone al cuore che, t'assicuro, non ho dimenticato più», ivi, p. 702.

bro della maturità, dove anzi ti sembra di continuo, da un capo all’altro delle pagine, e quasi fisicamente, di sentire il soffio di un’arguta brezza marina che tutto anima e vivifica – cose, persone, paesaggi, sentimenti, pensieri – e che in un interrotto garrir di vele, e di bandiere, e di biancheria stesa al sole (pur quando queste cose non sono affatto nominate), finisce per far garrire anche il tuo cuore, pronto fin dalla prima lettura a vibrare – per «simpatia» – con quel- lo del poeta. (p. 1585)

La voce di Grande è comunque ricondotta, dopo questo bagno nelle sue musiche, alle “sofferte e profonde esperienze umane”, dove vengono ad essere trattati i temi di una quotidianità disillusa, talora sciolta nella con- solazione del canto, e sarà questo il termine, superate le sirene della “li- gusticità” in nome di una valutazio- ne individuale, influenzata dal favo- re del lettore, del più concreto limi- te posto all’esperienza del poeta.

Il nome di Eugenio Monta- le è quello più citato nell’intero

corpus delle Prose critiche, all’op-

posto di un silenzio assordante che esclude Caproni dal “secondo me- stiere” montaliano.247 Tuttavia non

esistono vere e proprie recensioni alle opere del genovese, nemmeno

247 «Insomma, a farla breve, secondo la bipartizione dei filoni della poesia novecen-

tesca delineata da Mengaldo (e da sottoscrivere in pieno), il poeta il cui primum è l’esperienza, cioè Montale, privilegia i non montaliani Luzi e Zanzotto, a svantag- gio di poeti che per molti aspetti (anche se per vie e ragioni diverse) più tendono

di quelle che Caproni ha potuto incontrare quando svolgeva attività di collaboratore per riviste e giornali, e pensiamo soprattutto a La bufera, che esce nello sesso 1956 della prima “linea ligustica” e che segna il li- mite estremo dei riferimenti caproniani, escludendo da una lettura sia pure estemporanea tutta la seconda parte della produzione montaliana. Questo doppio atteggiamento, di forte dipendenza da un lato, e di estre- mo pudore esegetico dall’altro, testimonia un rapporto profondo in cui, nell’opinione di Caproni, il nome del più grande poeta che la Liguria (l’Italia) abbia espresso nell’ultimo cinquantennio diventa, da solo o insieme a quello parimenti esemplificativo di Ungaretti, e più tardi, ma con minore impatto, di Cardarelli e Saba, il nome-simbolo di un rinno- vamento decisivo compiuto già all’altezza degli Ossi, con cui la nuova poesia affondava in via definitiva le discendenze d’annunziano-pasco- liane, un rinnovamento da additare alle nuove generazioni, prodighe di ricette per una “poetica a priori”, ma deficitarie sotto il profilo della creazione;248 se questa idea ci porta a considerare una digestione veloce

ad assomigliargli e più gli sono prossimi per il primato dell’esperienza quale fon- damento della poesia. E fra i non privilegiati, il meno privilegiato di tutti, il più escluso, anzi, il vero e proprio escluso è Caproni», SURDICH, «In musica + idee»:

tra Montale e Caproni, cit., pp. 102-35. Sarà il caso di specificare che il silenzio

di Montale non è assoluto, si dà infatti il caso di una intervista televisiva del 1959 per la rubrica “Arte & Scienza” in cui Caproni viene annoverato (con Luzi, Sereni e Pasolini) fra i giovani «molto apprezzabili e ancora promettenti».

248 «Già una decina d'anni fa scrivevo (perdonatemi la citazione) che ormai mi pareva

tempo che l'Araba Fenice si ripreparasse il rogo per risorgere dalle proprie ceneri, e che già era lecito attendersi dalla nuova generazione che qualcuno, sotto la spin- ta di quegli impossibili 'contenuti nuovi', i quali altro non sono che un modo nuo- vo di considerare le cose nello sviluppo della storia, operassero in suo nome ciò che seppero operare un Ungaretti o un Montale (come di qualsiasi vero poeta) su- perando e l'ungarettismo e il montalismo, come quell'ermetismo cui non credo mentre credo a concreti nomi e cognomi, che sono quelli che tutti sanno», La poe-

e un poco sommaria della poesia primo novecentesca in funzione attua- lizzante, è utile anche notare che i passi montaliani sono quelli in cui si avverte la maggior pressione del momento critico, eluso da continue

recusationes. Rimandando principalmente al lavoro di Luigi Surdich

per un’analisi più circostanziata dei rapporti fra i due autori, quello che interessa in queste pagine sono i “luoghi comuni” della critica capro- niana intorno a Montale, divisa fra l’atteggiamento arrendevole del let- tore vinto ed un sovrappiù di pathos impossibile da comunicare per esteso. I pochi punti disorganici messi in elenco e ripetuti in molte oc- casioni in virtù di quella pratica che Orlando definisce “autoparassita- ria”, pongono la questione di un autore al centro della discendenza li- gure, che ne sballa i valori territoriali (come già Sbarbaro) di fatto an- nientandola in favore di una referenza universale.249 Allo stesso modo

la voce di Montale, così come la percepisce Caproni, si impone in ma- niera dispotica sulla poesia a venire, tanto che: «è certo che senza Montale (senza la sua musica assolutamente nuova che instaura con inimitabile fortuna nel comporre poetico, i mezzi e perfino il fine della musica) il volto della nostra poesia contemporanea sarebbe venuto con- figurandosi ben diversamente».250

Attraverso un lessico che assorbe quel tanto che la musica mon- taliana ha esercitato sulla tradizione a venire, ed è sulla percezione di questo momento che la valutazione caproniana, per non sapersi estra- niare da sé, vacilla, l’estensore arriva ad ammettere una sostanziale im-

249 «Nessun poeta ligure ha espresso con maggior energia la Liguria. Ma possiamo

anche dire che nessun poeta nostro d'oggi ha espresso con maggior energia il sen- timento che tutti abbiamo della vita», ivi, p. 1326.

possibilità di procedere sulla stessa strada, e tanto meno di tornare in- dietro, riconoscendo lo stallo di un limite non valicabile oltre la frattu- ra, un punto fermo che sembrerebbe definitivo:

Ci siamo più volte domandati se per caso la sua non sia qualcosa di più che la poesia, una sorta di droga o di sortilegio. Ma è un fatto che ogni sforzo poeti - co, oggi, è condizionato in casa nostra da lui, o prendendo il sapore d’una franca accettazione del destino ‘in minore’ nei suoi confronti (se non addirittu- ra di più o meno abile mascherato epigono), o l’altro di poeta a tutti i costi estravagante, come se davvero il poeta fosse soltanto lui, Montale, et tout le

reste littérature. (p. 1324)

E si veda ancora meglio quale sia l’assunto di un incontro fra Montale e la “giovane voce” di Giovanni Giudici nella recensione alla sua terza uscita, L’intelligenza col nemico:

Incontro o scontro rischioso, di cui consapevolmente egli paga lo scotto, es- sendo Montale un punto d’arrivo oltre il quale è difficilissimo procedere sulla stessa strada senza sottostare in qualche modo all’imperioso fascino del suo imparagonabile linguaggio: delle sue inimitabili «vie corte», che nel crogiuolo d’un’anima intemerata e imperterrita hanno saputo far precipitare chimicamen- te, e restituire in ultima sintesi, tutto quanto può agitarsi di solitudine, di ango- scia, di fede disseccata e di disseccato amore in uno spirito contemporaneo.251

La prima e più evidente delle qualità montaliane sta nella grande musi- ca dei suoi versi, una musica pur derivante da una parola “scabra ed es- senziale” ma capace di suscitare nell’anima del lettore la vibrazione

delle ulteriori corde armoniche, mosse “per simpatia” di un tocco pre- ciso, teso a far intuire l’infinitezza di un’armonia schietta e profonda. Con Montale Caproni porta alla sua maturazione minima la “teoria de- gli armonici” (più una efficace figura di senso) che riesce a descrivere quale sia l’effetto provato di fronte alla poesia genuina, un effetto in cui la musicalità riveste il ruolo chiave e che può ben considerarsi come il rimpianto più grande della critica caproniana, che ha attinto molto dal lessico musicale.252 Con la stessa impostazione che negli

anni della sua giovinezza ancora contrapponeva ‘contenutisti’ a ‘calli- grafi’, e con cui verranno a porsi in confronto ‘ermetici’ e ‘neorealisti’, Caproni procede nella sua lettura per accostamento di opposti, affan- nandosi a ribaltare i termini di una questione mai sviscerata nel suo in- sieme. Ecco quindi che nel giro di poche righe ci troviamo a sentire an- che le ragioni di un Montale ‘poeta civile’ sulla solida base di una ca- pacità tecnica, quasi filmica, di coinvolgere il lettore nello svolgersi fi- sico degli eventi narrati, «quasi immedesimandolo in una natura di per sé esprimente e di per sé capace, tramite gli oggetti presentati ai sensi