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3 «Difesa della poesia»

8. Scritti politici e social

Animato dal forte entusiasmo della ricostruzione, a partire dal 1946 Caproni aumenta la composizione di articoli volti all’osservazione cri- tica della società provando a suo modo a trovare un nesso convincente fra l’ufficio del comporre poetico e quello del lavoro pratico, nesso che deve manifestarsi nel suo modo di intendere le cose in maniera piutto- sto consequenziale, riconoscendo ai poeti l’utilità artigianale di un la- voro da considerare più prezioso solo in virtù della sua maggiore “rari- tà”: «Utilità. È più utile una seggiola o la Divina Commedia? Quale delle due cose è la più vera? Porre tali interrogativi è confondere utilità e verità con rarità».306 Ecco dunque che il poeta può farsi cronista e ri-

volgere il proprio sguardo alle urgenze più pressanti che ne contraddi- stinguono la contemporaneità: risalgono proprio al 1946 i due articoli caproniani apparsi sul «Politecnico» di Vittorini307 in cui si dà una de-

scrizione delle borgate romane, scendendo nei dettagli delle responsa- bilità storiche che hanno portato a quegli agglomerati fatiscenti. Parti- colare attenzione viene posta sulla descrizione delle unità abitative e le condizioni di chi si trova a vivere ai confini di una città che ha rinnega- to il suo popolo:

306 Lavorare, lavorare, produrre, «Domenica», 6 gennaio 1946, Prose, pp. 159-62, a

p. 160.

307 Le 'borgate' confino di Roma, e Viaggio fra gli esiliati di Roma, «Il Politecnico»,

Case? Ma con quale cuore si possono chiamare case questi asili di fortuna, questi geo- metrici frutti dell’usura più spietata? Luoghi ove non esi- ste cemento tra le pareti e gli uomini, ecco cosa sono le borgate romane. Luoghi in- ventati, non nati dalla natura- le storia degli uomini. E mi domando come, nei miti gior- ni di sole, possano le donne e i bambini uscir fuori dalle loro stanze senza sentirsi del tutto staccati dalle pareti do- mestiche, da quello che do- vrebbe essere il guscio della loro storia. Un guscio così sottile da non poter difendere né dal feroce bollore dell’agro in estate né dal suo rigore acuto nell’inverno, e ormai tanto trasanda- to da far perfino acqua nei giorni di pioggia; l’acqua che manca ai servizi do- mestici come mancano o sono occluse le fognature, come manca spesso un tet- to al lavatoio comune. Chi ora vive in questi luoghi è gente scaraventata nel deserto, e anche il loro cuore come può non essersi fatto deserto? (p. 164)

Se nel primo dei due articoli si dà una descrizione generale della situa- zione delle borgate, con annessa la storia di prevaricazione che le pre- cede, nella seconda parte del reportage Caproni descrive istantanee e impressioni di una sua passeggiata nei due quartieri di Pietralata e Ti- burtino III (odierna Santa Maria del Soccorso). Partendo dalla pessima

fama di questi due quartieri si torna sulle condizioni di vita animale- sche cui è costretto chi vive lì: mancanza di acqua corrente, estrema povertà e precarietà della abitazioni, mancanza delle infrastrutture ele- mentari (strade, fogne, scuole, gabinetti), estrema povertà, disoccupa- zione, ghettizzazione, grande difficoltà negli spostamenti. Fra le molte cose che si potrebbero dire circa questo versante giornalistico che negli anni avrà un suo sviluppo non trascurabile, bisogna subito fare il punto sull’occhio con cui Caproni guarda a questi grandi esempi di miseria e ingiustizia. Sebbene infatti il suo approccio si sforzi di essere il più “tecnico” possibile, riconoscendo priorità al dovere d’informazione e dunque alla descrizione dettagliata e argomentata grazie anche alla pro- pria esperienza personale ed alla consapevolezza delle concause stori- che che ne costituiscono la base,308 in questi reportages si avverte forte

il bisogno di penetrare la situazione umana degli abitanti della borgata, e questo compito è demandato interamente all’occhio del poeta. È que- sta la sintesi più articolata che Caproni prova per coniugare la presenza sociale e storica della poesia, evocata a gran voce alla fine della guerra, e in questo senso adempiuta,309 a prescindere dai veleni che sorgeranno

nel dibattito più tardo, intorno ai quali una situazione ancora di sostan-

308 Commentando la testimonianza di chi addebita la nascita delle borgate romane

alla sola volontà fascista di spianare la prospettiva del centro, Caproni dice: «Di- scorso che contiene sì uno dei noccioli della verità: senonché tale verità non ha un nocciolo solo, ve ne sono anzi altri ben più nascosti e profondi; e sono proprio quelli che noi vogliamo cavar dalla polpa», ivi, p. 163.

309 Per il 1946 si potrebbe addirittura parlare di “anno neorealista”, l'etichetta può es-

sere estesa a tutti quei lacerti di partecipazione storica che annoverano il poeta nella falange, ad es., dei narratori partigiani, cfr. il posto che Caproni ricopre in una raccolta come Racconti della Resistenza, a cura di G. Pedullà, Torino, Einau- di, 2005.

ziale continuità verrà estremizzata e polarizzata. Un’altra delle fascina- zioni su cui discutere è quella dell’attraversamento “freddo” dei luoghi che a partire dal decennio successivo saranno caricati di significazioni ed atmosfere artisticamente feconde da Pasolini. Se in questo frangente l’intento caproniano è altro da quello artistico e la competenza del poe- ta è solamente strumentale e in ogni caso minoritaria rispetto all’impe- gno del cronista, esiste un punto di contatto abbastanza evidente con le opere pasoliniane, probabilmente mutuato dal fatto che i due poeti con- divisero il mestiere di maestro: si tratta della presenza metastorica, quasi salvifica, che i ragazzi vengono a ricoprire nel viaggio infernale per i bassifondi dell’Urbe, prima che l’immagine di una poverissima madonna moderna venga sublimi l’incombenza della cronaca con ac- centi fortemente simbolici:310

A Pietralata i ragazzi si rincorrono dalla mattina alla sera a piedi scalzi sul ter- riccio umido e cupamente rosso dell’Agro, e sono tra le piccole case sboccon- cellate un’intera folla eccitata in continue pazze fughe e in clamori che spacca- no i timpani. E pare che non vi siano che ragazzi a Pietralata, un’intera popo- lazione d’infanzia derelitta, con null’altro addosso che una camicina piena d’e- normi lacerazioni e un paio di pantaloncini che un bottone solo non ce l’hanno più. E ciò perché le scuole di Pietralata sono chiuse e perché per quei ragazzi a Pietralata non c’è altra scuola all’infuori di quella della più nera fame, da

310 Questa la conclusione del reportage: «Ho visto una giovane donna di Messina con

cinque bambini in una stanza a pianterreno, incupita dalla fuliggine come il vano d'un forno, la quale null'altro aveva al mondo all'infuori d'un tavolino nero, di due sedie e d'un saccone per terra, anch'esso coperto di fuliggine e d'oscene macchie che spaccavano il cuore. La stanzaccia non aveva nemmeno una porta, – l'andito era protetto alla meglio da tre larghe tavole. E su di essa, e sul petto di chi era in- chiodato in quel vano, l'inverno premeva con tutto il peso della sua dura spalla». (p. 171)

essi sfogata con quegli urli e quelle risse che sono un modo come un altro di muoversi in un mondo dove essi esistono per colpa di chi? (p. 169)

Caproni tornerà spesso sulla questione di Roma, confermando a più ri- prese un rapporto di amore e odio con la città della sua residenza defi- nitiva. Alcune di queste innumerevoli occasioni sono ad alto tasso criti- co, come ad es. Sui selciati dell’Urbe formicolano gli accattoni,311 che

in vista dell’Anno Santo del 1950 denuncia la situazione di migliaia di senza tetto che si stanno riversando nei pressi della Basilica di San Pie- tro «[… ] la quale come uno stupendo insetto d’oro attira più che mai intorno a sé questi dolorosi paria». (p. 335) L’immagine degli insetti è utilizzata anche all’inizio dell’articolo, oltre che nel titolo:

Dagli interstizi delle mura romane, acri d’orina e di polvere sotto il martello del primo sole maggengo cominciano a scaturire e a spargersi per la città gli accattoni: centinaia di migliaia di accattoni che, dopo essere stati rintanati l’in- tero inverno in quelle brecce con mogli e figlioli (o soltanto con la loro im- mensa solitudine) fuoriescono e formicolano sui selciati come, nelle case poco pulite, gli insetti. (p. 333)

Non specificamente su Roma, ma comunque su un ambiente cittadino che è assimilabile a quello della capitale, è incentrato l’articolo dal tito- lo Specchio della città i quartieri senza stile,312 in cui ci si scaglia un

po’ sterilmente contro una speculazione edilizia che sta facendo cresce- re “a suon di milioni” interi quartieri senza alcuna ratio architettonica:

311 «Il Lavoro nuovo», 18 maggio 1949, Prose, pp. 333-5. 312 «La Giustizia», 21 settembre 1961, ivi, p. 1501-3.

l’architettura è senz’altro fra gli interessi di riferimento cui rivolgersi per rintracciare il seme dell’impegno caproniano.313

In tre articoli usciti su l’«Avanti!»314 Caproni offre una lucidissi-

ma e tagliente cronaca del primissimo dopoguerra, oltre ad offrire al lettore di oggi probabilmente il focus più deciso sulla sue posizione al- l’indomani della Liberazione, per cui si consiglia di confrontare anche alcuni estratti coevi ora raccolti in Frammenti di un diario (1948-

1949).315 Il primo dei tre articoli si sofferma sul “terrore rosso”, che na-

scerebbe a detta dell’autore da un equivoco storico maturato in seno alla dittatura, e cioè l’allargamento ai fini del consenso e strumentaliz- zazione dell’etichetta ‘borghesia’:

Il rosso, di qualunque sfumatura, incute un sotterraneo terrore alla borghesia. È un luogo comune e, come tutti i luoghi comuni, copre una verità che ha la sua ragion d’essere. Senonché ora io mi domando con voi: quanti di coloro che si ri- tengono borghesi, e perciò minacciati dal rosso, sono veramente membri della borghesia? Il fascismo per cattivarsi le cosiddette masse popolari, ha creato un equivoco interessato sul termine ‘borghese’: volendo ad ogni costo assumere la forma di movimento antiborghese mentre era in sostanza, e per programma, la più strenua espressione della vera borghesia conservatrice e reazionaria, egli ha steso una cortina fumogena sul limpido significato di tale vocabolo, limitando il significato di ‘borghesia’ a quello di spirito antiromantico, antieroico, antiguer- riero, antinazionalista, antimilitarista e antinicciano. (p. 174)

313 Cfr. anche Tutto scompare sotto una macchia, «Avanti!», 8 maggio 1947, indagine

sulla periferia romana.

314 Si tratta dell'edizione romana del 5, 24 aprile e 21 maggio 1946, Prose, pp. 173-8. 315 A cura di F. Nicolao, introduzione di L. Surdich, Genova, San Marco dei

Caproni invita così a non confondere la piccola e minuta borghesia fat- ta di impiegati con la vera borghesia contro cui il marxismo si è rivol- to, sottintendendo come la propaganda contro il pericolo rosso continui sulla scia di quell’equivoco creato intorno a un consenso capzioso che ora non ha più ragione di essere. Nel secondo articolo si tratta poi dell’8 settembre, descrivendo in maniera semplice ma efficace quale sconvolgimento morale e istituzionale fosse causato nella coscienza di un uomo calato nella legalità come valore di Stato, nella concezione dunque di un cittadino comune, esente fino a quel momento da una presa di posizione netta, rischiosa. Per cittadini di questo genere, e non si fatica a rinvenire un autoritratto in questo genere istintivamente “fuori dalla storia”, quanto occorso in Italia l’8 settembre del 1943 ha rappresentato paradossalmente una possibilità di rinascita sociale, con la conseguenza di un affratellamento al popolo che ha rivelato una zona decisiva di resistenza interiore:

Questo appunto volevamo concludere: che questi uomini senza una norma in- tima, i quali dopo l’ 8 settembre non poterono appoggiarsi più a una norma esterna in quanto le norme esterne in atto erano due (due erano anche nel ven- tennio, ma non entrambe in atto: e tali uomini immersi nell’immediato cono- scono i contrasti soltanto quando questi sono scesi in campo nella loro persona fisica) entrarono in uno spavento immenso, in una sofferenza dalla quale usci- rono in due modi diversi: o malinconicamente piegati al tornaconto o total- mente distrutti. E furono proprio questi, i distrutti, quelli che si salvarono: fu- rono quelli che con uno sforzo supremo e con sudore e sangue seppero capire alfine fino in fondo la loro nullità e covare la forza di ribellarsi, di nascere dopo tale completa distruzione di se stessi. (p. 176)

Nell’ultimo tassello di questa breve cronaca dell’anno 1946, l’autore affron- ta il problema del referendum del 2 giugno, quello cioè che decreterà il pas- saggio dello statuto repubblicano. L’uomo nuovo, svegliato dai furori della storia, è ora pronto per prendere parte con un’adesione decisa alla Repub- blica, «Una scelta, possiamo anche ammetterlo, che comporta uno slancio morale estremamente duro – uno sforzo sommo per quei troppi italiani abi- tuati (lo sapete da quanto) alle mezze tinte o, diciamolo pure, al compro- messo, ch’è oggi più che mai sinonimo di doppio gioco». (p. 177) Come descritta da Caproni, la scelta che si va ad affrontare non è propriamente fra monarchia e repubblica, ma fra assoluzione e condanna di una monarchia collusa con il fascismo, «[…] e chi sceglie tale monarchia sceglie il passato, sceglie l’errore passato che a nessun modo deve ripetersi più, sceglie la pro- babilità sempre aperta d’una nuova dittatura, sia pure nominalmente antifa- scista, perché sceglie determinate persone (più che un istituto) che per prova ci hanno già mostrato di non nutrire alcuna avversione per la dittatura, anzi di farsene, se a loro vantaggio, uno sgabello». (p. 178)

A questo filone può poi essere acclusa la risposta che Caproni indi- rizza, sempre per il tramite de l’«Avanti!» a Guglielmo Giannini, Erano ra-

gazzi senza un soldo in tasca316 in cui si prendono le difese dei partigiani

circa un presunto finanziamento della Resistenza da parte degli Alleati: Io, caro Avanti!, non sono in nessun senso un eroe: sono il più umile e il meno conosciuto degli scrittori italiani, il quale soltanto per un fatto vuole dire la sua: perché ha vissuto con la moglie e i bambini, prima come cittadino qualun-

que in preda al panico, poi come semplicissimo sapista in montagna, tra le gole dell’alta Val Trebbia al servizio d’una Divisione Garibaldina. Io ho avuto modo di conoscere giorno per giorno e direi ora per ora, nei momenti di pace e nei momenti di fuoco, i garibaldini e gli uomini delle formazioni di «Giusti- zia e Libertà». (p. 192)

È interessante notare anche come Caproni si soffermi sul confronto con la Francia per notare che l’Italia non ha avuto una letteratura della resi- stenza, denunciando una auto-coscienza letteraria, per così dire, che al- l’altezza del 1946 è ancora di là da venire, provvisoriamente spoglia di una presa diretta e dunque di una testimonianza storico artistica; Ca- proni si rivolge agli scrittori-partigiani francesi per ribaltare l’assioma di Giannini:

No, miei cari e illustri colleghi francesi, non abbiamo avuto come voi una let- teratura della resistenza. È colpa? È segno di estremo pudore? È sfiducia di poter rendere credibili fatti che di per sé appaiono incredibili? Non voglio ri- solvere questi interrogativi. Io dico soltanto che ora questa assenza ci duole: perché anche i fatti più semplici ed uomini possono sempre venire offuscati dalla ‘stupidaggine’ e dalla ‘bassezza’ quando non esistono testi, cioè testimo- nianze scritte. (p. 193)

Il pezzo conclude con una esortazione a continuare la guerra delle opi- nioni, e l’appello è rivolto direttamente agli scrittori italiani, «soprattut- to a quelli ben più noti e illustri di me», (p. 193) perché non cedano al- l’indifferenza. Sul tema di una generazione impreparata alla storia Ca-

proni si concentrerà in un pezzo del 1949,317 in cui l’autore spiega quali

fossero le sensazioni dei combattenti della Resistenza a paragone di quelli della Prima Guerra mondiale (il pezzo è indirizzato a Titta Rosa); se questi secondi combattevano infatti per un ideale, argomenta, o quanto meno per un obiettivo pratico, lui e suoi i coetanei hanno af- frontato uno scontro interno che metteva al centro del contendere un nuovo stato sociale, anche se il più delle volte non ne avevano preso pienamente coscienza:

[…] in quanto alla guerra di resistenza, c’è da chiedersi francamente questo: quanti di noi la combatterono non per pura e semplice ribellione al regime, bensì (come i più giovani e i più anziani di noi) con la coscienza dei suoi veri fini, i quali aveva da essere soprattutto sociali, cioè non per un riscatto del proprio territorio o della propria individuale libertà, bensì per la instaurazione nel mondo (dico nel mondo, cioè anche nei paesi ‘nemici’) di una società nuo- va e di uno spirito veramente nuovo di comunità? (p. 354)